G8
Dopo Genova
Intervento sul G8 di Edi Rabini
Logo Associazione per i popoli minacciati
Bolzano, 11.8.2001

Il logo del Genoa Social ForumCon questa lettera di Edi Rabini vogliamo aprire una discussione su ciò che Genova ha significato per le coscienze di tutti quelli che sono andati a manifestare nella convinzione che un mondo migliore sia possibile. Chiunque volesse proporre una riflessione sul "vertice della discordia" può inviarcelo per e-mail.


Ho potuto leggere solo ora i giornali locali e provo a rispondere ad alcune delle critiche che mi sono state rivolte, prima di tutto a quello di tradimento della mia storia e del pensiero di Alexander Langer. In realtà scrivo soprattutto per me, per cercare di mettere un qualche ordine in pensieri confusi da notizie che si accumulano e si contraddicono. E per cercare di aprire una riflessione comune che vada oltre al contingente.

Sí, era successo anche al tempo dell'intervento militare in Kosovo, che ho condiviso nonostante l'orrore che m'ispira ogni guerra, perché ha interrotto il ciclo di violenze innescato dal dittatore Milosevic che ha per 10 anni insanguinato e impoverito le regioni dell'ex-Jugoslavia. Se non ricordo male poco si è discusso in seguito. Ma alcuni si sono ricreduti del loro estremismo pacifista al termine di una relazione tenuta a Bolzano, su invito di Pax Christi, dai fratelli Giancarlo e Valentino Salvoldi, che il Kosovo conoscono piuttosto bene.

Sono venute a Bolzano nel luglio scorso le destinatarie del premio Langer 2000, la kosovara Vjosa Dobruna e la jugoslava Natasa Kandic. Ci hanno portato testimonianze dirette e drammatiche di ciò che stava succedendo e che l'intervento internazionale ha fermato. Vjosa è incaricata ora dall'ONU per la ricostruzione della convivenza e Natasa è tra le più ferme accusatrici di Milosevic davanti al tribunale internazionale dell'Aia, che una parte della sinistra considera semplicemente un braccio armato degli Stati Uniti.

Non mi permetto di parlare in nome di Langer, anche se so del suo doloroso isolamento quando si recò al vertice dei capi di stato europei a Cannes, il 26 giugno 1995, pochi giorni prima di morire, per chiedere un intervento militare che interrompesse l'assedio di Tuzla e Sarajevo e fu accusato da Chirac di essere un guerrafondaio. Mi chiedo solo cosa sarebbe successo in Kosovo se fosse stato affidato (come era possibile e come era tradizione delle diplomazie internazionali) all'UCK il monopolio della lotta di liberazione? Ci sarebbe ancora spazio in quel paese per le forze più moderate, di Rugowa, che invece hanno vinto le prime elezioni? E ci sarebbe spazio per una mediazione internazionale, che pur si fa sentire, in Macedonia?

E' davvero molto difficile discutere con chi non ha vissuto come una rottura epocale Tienanmen e il 1989, l'assedio di Sarajevo, il genocidio in Ruanda e il tentativo di genocidio in Kosovo. E non prova a rispondere alle domande di come sostituire l'equilibrio del terrore tra le grandi potenze nei decenni della guerra fredda, con la potenza delle leggi e degli accordi internazionali.

Ma veniamo a Genova e al contro-G8 che ho duramente criticato prima del suo inizio. Interpellato da un giornalista mi sono limitato a criticare il linguaggio schematico e falsificante dei convocatori, con la loro mania di voler tracciare una netta linea di demarcazione tra amici e nemici (preludio di ogni guerra), con la delegittimazione di uno dei tanti (magari maldestri) tentativi con cui la politica tenta di controllare il mercato, con la copertura che assicuravano ad ogni forma di violenza annunciata. Alcune delle cose che ho detto sono state semplificate e posso assicurare di non aver mai preso le distanze, come mi attribuisce Francesco Comina, dai movimenti di solidarietà… internazionale dentro i quali mi sono formato. Non rinuncio invece al dovere di guardare a ciò che succede in piena libertà,  rispondendo prima di tutto alla mia coscienza e rinunciando a quella dose, davvero eccessiva, di populismo e di demagogia che circola nei gruppi dirigenti della nostra politica. Che i figli uccidano pure i loro padri, se lo ritengono necessario per sentirsi più liberi, ma che siano padri veri e non opportunisti senza memoria storica, o nostalgici di una parentesi di vita in cui si sono sentiti vitali e potenti.

Ora si riconosce che le parole hanno un peso. Che certe parole usate nell'invitare al Genova Global Forum hanno avuto la capacità di convocare anche un gruppo numeroso di giovani "conseguenti" a quelle parole, accolti e difesi come interni al movimento di protesta, considerati contraddizione secondaria rispetto alla mostruosità del nemico che si vedeva lì riunito.

Ci sono stati anche alcuni esponenti Verdi (me ne sento particolarmente responsabile) tra gli apprendisti stregoni che hanno attizzato pericolosi fuochi, come fanno certi pastori sardi a beneficio del loro gregge o certi disoccupati che vogliono farsi passare come i più abili dei pompieri.

Distruggere l'impero è stato detto, parodiando il sub comandante Marcos. Un impero del male che appare senza contraddizioni interne. Se al posto di Busch e di Berlusconi ci fossero stati Clinton e Rutelli (senza contare la presenza dei Prodi, Schroeder, Fischer, Jospin, Blair et) il giudizio non sarebbe stato diverso come testimoniano i precedenti di Nizza (che riuniva i capi di stato europei) e di Göteborg (che era un vertice UE-USA).

Si teorizza che siamo ormai in balia delle multinazionali e si fa di tutto per delegittimare quei pochi luoghi in cui la politica cerca di pensare di regolare o almeno di moderare i loro progetti. Eppure il G8 riunisce capi di governo legalmente eletti, che devono in ogni caso sottoporre gli orientamenti pattuiti ai rispettivi parlamenti attraverso procedure sottoposte al controllo dell'opinione pubblica. Non sono degli sceicchi o principi feudali, padroni assoluti dei loro territori e dei loro popoli.

Don Bruno Carli ha paragonato quei potenti riuniti a Genova all'anticristo. Sappiamo bene i massacri che certi cristiani hanno compiuto in passato sventolando quella bandiera, quell'idea di nemico mortale da estirpare come "non umano". Alexander Langer no, usava con molta prudenza le parole, stando ben attento a che  non si trasformassero in manganelli, e insegnava a guardava prima alle travi sue e dei suoi vicini che alle pagliuzze dei suoi avversari.

La risposta del governo di centro-destra ad una manifestazione che voleva denunciare le ingiustizie del mondo è stata terribile. E' facile per la destra presentare un suo supposto senso dello stato, perché per diversi decenni, con in più la parentesi fascista, lo ha avuto dalla sua parte. Ma a Genova ha rispolverato un'idea di stato ottocentesca, incapace di confrontarsi con la complessità di un movimento molto variegato e in gran parte disponibile al dialogo. Ha mostrato i muscoli di un padroncino autoritario e gerarchico, e ha così sollevato i singoli membri delle forze dell'ordine (questo è per me la perdita più grave) dalla loro personale e irrinunciabile responsabilità nell'obbligo di  rispettare per primi le leggi, per dimostrare la necessaria superiorità morale nei confronti di chi le stava così apertamente violando. Non è per questo soprattutto che chiediamo l'abolizione della pena di morte e condizioni carcerarie degne? Non è infatti molto più grave, nella coscienza comune, la violazione della legge da parte di un rappresentante della legge?

Non ero a Genova ma ho seguito egualmente con apprensione il lavoro di accertamento che l'autorità giudiziaria e il parlamento stanno compiendo, incalzate da cosi preziose e coincidenti testimonianze giornalistiche. Ma oltre a ricostruire la catena di comando che ha portato a certi orrori, a me interessa riproporre la domanda su come vengono formate le forze dell'ordine e provare a far qualcosa per cambiare le storture regolamentari che permettono ancora di coprire ordini e comportamenti illegittimi.

Ma torniamo a noi, alla nostra trave. Ora quasi tutti parlano di nonviolenza, di prendere le distanze dalla violenza. Credo che si debba andare oltre a quest'affermazione di principio. E' necessario riconoscere alle istituzioni democratiche nazionali e internazionali il monopolio dell'uso legittimo della forza, chiudendo una volta per sempre con i gruppi e le bande private che hanno insanguinato gli anni tremendi della guerra fredda (e reso poi difficili i processi di riconciliazione, come si vede in Israele, Spagna, Irlanda), quando si era affermata la linea ipocrita della non ingerenza negli affari interni dei singoli paesi, anche dittatoriali, salvo l'autorizzazione per ciascuno a finanziare e ad addestrare guerriglie e terrorismi di ogni genere.

Bisogna ammettere che la violenza di Seattle ha fatto notizia e ha reso visibile quel movimento, grazie soprattutto ad un sistema informativo sempre a caccia di emozioni forti, come è il caso della formula uno o della discesa libera, con le loro promesse di eccitanti incidenti. E' vero, lo ha ben dimostrato il farsesco militarismo delle tute bianche, che l'annuncio di superamento della linea rossa è riuscito a calamitare l'attenzione dell'opinione pubblica e della polizia. Forse ha davvero influenzato anche l'ordine del giorno del G8. Ma il prezzo pagato, ampiamente prevedibile, è valso davvero quel risultato, quel povero giovane morto, questa lacerazione drammatica tra società civile e istituzioni democratiche? Davvero il fine giustifica i mezzi?

Kalida Messaoudi, la parlamentare algerina destinataria del premio Langer 1997, era stata condannata a morte dai fondamentalisti islamici che si sentivano vittime di un colpo di stato militare che aveva loro tolto nel 1991 il probabile governo teocratico del paese. Ma c'è, ci diceva Khalida, ingiustizia grave al mondo che possa giustificare lo sgozzare donne e bambini? O, aggiungo io, la distruzione di una macchina di proprietà di un casuale passante? Non è anche questo un modo, meno drammatico naturalmente, di usare i civili come arma di pressione, di ricatto, di guerra psicologica?

Affidare alle istituzioni nazionali e internazionali il monopolio dell'uso legittimo della forza (soprattutto in un mondo cosi pieno di armi private) non vuol dire sottovalutare quanto di rischioso c'è in questa delega che sta alla base degli stati democratici. Un deposito di dinamite è un luogo pericoloso che deve essere tenuto sotto controllo con cura. Così lo è (lo abbiamo visto a Genova) una concentrazione di forze  che si mostrano a vicenda i muscoli.

Sta nella migliore tradizione della sinistra, e in una concezione liberale dello stato, di preoccuparsi di un attento controllo dei corpi armati (come di ogni altro potere autonomo), favorendo, come è avvenuto negli anni 70,  processi di sindacalizzazione, di democratizzazione, di costruzione di organismi di rappresentanza.

Dopo l'assedio di Sarajevo, le stragi di Tuzla e Srebrenica, il genocidio in Rwanda, la crisi di Timor Est, le istituzioni internazionali, con l'Unione Europea in prima fila, hanno in pochi anni avviato un ripensamento delle politiche di non ingerenza e di costruzione di nuovi strumenti di prevenzione e di repressione dei conflitti etnici, razziali, religiosi più atroci.  Solo chi è senza memoria storica può ignorare i cambiamenti che si sono avviati in pochissimi anni, cosí come si intravedono per esempio in una relazione scritta nel 1992 da Alexander Langer, e approvata dal Parlamento Europeo: sostegno alla società civile e all'informazione indipendente, ingerenza umanitaria, esercito europeo con funzioni di polizia internazionale, corpi civili di pace come struttura professionale di prevenzione dei conflitti e di ricostruzione della convivenza, tribunale penale permanente, controllo del commercio delle armi.

Come spesso succede, i movimenti, che quelle rivendicazioni avevano inizialmente sostenuto e condiviso, non sono stati in grado di farne un elemento di consapevole crescita del rapporto tra società civile e istituzioni. Hanno avuto paura delle proprie idee, hanno preferito vegetare nelle nicchie minoritarie (spesso lautamente finanziate). La discussione che si è aperta sul nuovo ruolo delle forze armate, in funzioni di polizia internazionale, è stata lasciata agli addetti ai lavori. Si è voluto confermare un velenoso pregiudizio che distingue ancora giovani buoni (obiettori di coscienza) e giovani cattivi (soldati e soldatesse di leva o professionali), anche quando il loro addestramento riguarda principalmente la funzione di prevenzione e interposizione in luoghi che l'Unione Europea o le stesse Nazioni Unite riconoscono a rischio per la popolazione civile.

Per la nostra particolare storia, per essere conosciuti, forse immeritatamente,  al mondo come un modello ancora imperfetto di soluzione istituzionale di un conflitto etnico, il nostro Sudtirolo ha accumulato un livello straordinariamente alto di competenze e di conoscenze in questo decisivo campo della prevenzione dei conflitti: IV Corpo d'Armato Alpino (che ora dovrebbe diventare una degli snodi del nuovo esercito europeo), Dipartimento minoranze etniche ed autonomie regionali dell'Accademia Europea, politica estera dell'Amministrazione provinciale e di alcuni generosi comuni, un notevole arcipelago di associazioni di cooperazione e di solidarietà internazionale, etc. Il Sudtirolo potrebbe davvero essere il luogo più adatto per un'agenzia europea che sperimenti una formazione congiunta, per gran parte parallela, degli aspiranti soldati e aspiranti membri dei corpi civili di pace.

Perché metto un accento cosi grande sul riconoscimento di ciò che si muove nelle istituzioni. Perché la fine della guerra fredda ha creato un periodo di drammatica instabilità della convivenza, che l'ONU, per molte ragioni, non ha saputo e non poteva regolamentare. Proprio dai luoghi di crisi più acuta è emersa una richiesta di forti autorità che non lasciassero minoranze inermi in balia di poteri autoritari, coloniali e dittatoriali, non ancora sconfitti. E' emersa la speranza che si diffondessero alcune conquiste di civiltà, di libertà e d legalità alle quali nessuno di noi vorrebbe rinunciare e che televisione satellitare e internet rendono desiderabili in gran parte del mondo.

E' stato proprio la crisi della convivenza e di regole condivise, a mettere per 10 anni in sordina i temi del governo dell'economia e dell'ambiente comune, che erano stati messi all'ordine del giorno negli ani 70 e 80, fino alla loro consacrazione e visibilità massima all'assemblea ONU di Rio 1992 sull'ambiente.

Ora quei temi vengono ripresi, diventano un movimento internazionale che parte dalla fame e sete giustizia. Molti giovani già cosmopoliti se ne riappropriano generosamente.  Ma c'è una bella differenza tra una radicalità affidata alla prudenza, allo studio, al pessimismo della ragione, ed una pseudo radicalità vitalista (peggio se senile) affidata alla cattiva memoria, alle buone intenzioni, alla volontà di egemonia politica di partiti responsabili solo nei confronti dei loro affiliati, alla nostalgia di uno stato etico che sostituisce l'analisi politica e la costruzioni di istituzioni internazionali (l'Europa prima di tutto) incaricate di costruire regole condivise e di farle rispettare da potenti, prepotenti e fanatici.

Ho detto che si intravede una buona dose di razzismo in certe posizioni vetero terzomondiste e vetero internazionaliste. Cerco di spiegarmi. Diversi anni fa, un librario intraprendente mi convinse di comprare a rate la "Storia d'Italia" di Einaudi. Incominciarono ad arrivare i primi volumi, poi a seguire altri, ogni volta su aspetti più specifici, più particolari, forse entusiasmanti per gli studiosi che hanno scoperto la storia come processo di trasformazioni lente, determinato dalle conquiste scientifiche e dai grandi mercanti, da millenni interessate all'espansione dei loro commerci. Sono arrivati a 20 i volumi, prima che mi decidessi di interrompere l'abbonamento infinito.

Ora, durante queste vacanze, ho ripreso in mano i due volumi (che avevo letto 15 ani fa) in cui la scrittrice della Guadalupa Maryse Condé‚ racconta la distruzione del regno Bambara di Segù (edizioni Lavoro). In quella storia minuziosa, si trova la ricostruzione delle devastazioni provocate dal colonialismo islamico prima e da quello francese poi (ambedue schiavisti ed ambedue monotesti). Ma si scoprono le modificazioni ben più profonde che emergono dalle prese di coscienza degli individui, da una molteplicità di crisi: nei rapporti familiari, tra uomo e donna, nelle credenze superstiziose e dalle gerarchie sociali che le sostengono. Si vedono i conflitti economici e sociali tra nobili, schiavi, commercianti, guerrieri, profeti, indovini, missionari, il rimescolamento dei gruppi tribali, lo scontro e l'incontro tra natura, corano, bibbia, tra albero, moschea e campanile. Si vede un paese in cui mentre avviene la grande storia, i figli si ribellano ai padri, le mogli ai mariti. Si scoprono i conflitti che nascono da desideri, ossessioni, affetti, invidie, avidità, corruzione. Una storia anche nostra quindi, che ci fa riconoscere dentro un processo di emancipazione prima di tutto individuale, che ha elementi universali.

Ora oso pensare che se di quel regno di Segù non sono stati scritti 20 volumi dalle edizioni Einaudi, non vuol dire che 20 volumi non potrebbero essere scritti per descrivere in dettaglio come si è modificato e si modifica  uno dei nostri molti mondi.
Il colonialismo è finito da 50 anni, il che non vuol dire che non ci sono più colonialisti e affaristi, ma che (come ha detto con grande fermezza, durante il G8, il presidente del Sud Africa Thabo Abeki) il destino dei diversi paesi sta principalmente nelle loro mani. Vuol dire che non esiste un Nord e un Sud indeterminato e omogeneo, ma diversi Nord e diversi Sud a volte in relazione e a volte in concorrenza tra loro.

Andiamo ora a vedere, per esempio, le richieste presentate al G8, contenute nel documento approvato a Genova dalle associazioni cattoliche il 7 luglio scorso (aumentare gli aiuti allo sviluppo fino al 0,7% del Pil, promuovere e rafforzare i programmi internazionali di lotta alla povertà…, perfino l'eliminazione indiscriminata del debito per i paesi più  poveri, il finanziamento di un miglioramento della sanità e della lotta all'AIDS, etc.). Sono solo gocce in un mare, lo sappiamo, poco più che atti di carità, verso paesi considerati solo degni di carità.

Se andiamo a rileggere gli atti del convegno organizzato a Bolzano nel 1983 dal nascente Centro Terzo Mondo, o quelli dei diversi convegni Campagna Internazionale "Nord-Sud:Biosfera, sopravvivenza dei popoli, debito", o la relazione introduttiva che Alex Langer tenne all'assemblea di Genova del 1991, che preparava Rio (in il Viaggiatore leggero, Sellerio) dal titolo: "500 anni bastano, ora cambiamo rotta ", riscopriamo la stessa modestia delle proposte di lavoro, quando vogliono rimanere sul terreno della giusta misura (dopo Auschwitz sappiamo bene "chi è l'uomo"), della necessaria "reciprocità", fuggendo da ogni forma di promessa salvifica, che nessuno onestamente è in grado di poter assicurare, o da soluzioni tecniciste che altre mani possono facilmente manipolare e trasformare.

Le proposte che sono maturate negli anni 60 e 70 sono ancora lì, modeste e nello stesso tempo portatrici di relazioni concrete con persone in carne ed ossa: l'alleanza per il clima, commercio equo e solidale, cambiamenti degli stili di vita, consumo critico, risparmio etico, accoglienza degli immigrati, valutazione di impatto ambientale, sociale e culturale di ciò che provocano le nostre imprese anche all'estero, una Corte Internazionale per l'ambiente, moltiplicare gemellaggi, le adozioni a distanza, rapporti concreti tra comunità, soprattutto negli interventi d'emergenza.

Sono proposte modeste, ripeto, ma contengono dentro di sé una radicalità che non ha bisogno di generalizzazioni astratte, né di indebite rappresentanze generali. Lo stesso Social Forum di Porto Allegre mi sembra un'espressione compiuta di questa convinzione: che ogni paese, anche il più sperduto, contiene in se le energie, le competenze tecniche, il potere reale di autodeterminare il proprio futuro, dentro un conflitto tra diversi ipotesi di politica (economica, sociale, estera, ambientale et.), e naturalmente anche contro tendenze egemoniche di grandi e piccole imprese sostenute da governi che scambiano la politica estera con lo sviluppo dei beni di famiglia. E padre Alessandro Zanotelli o i nostri coraggiosi missionario in Brasile, non sono pure loro modesti e concreti e pratici quando chiedono la nostra collaborazione?

Ho visto l'elenco delle associazioni che aderiscono alla rete Lilliput. A ciascuno di loro riconosco il merito di aver saputo mettere a punto e rendere visibile un pezzo di desiderabile direzione per la nostra società. Ma sarebbe tradire la loro natura se si attribuisse loro una delega, una rappresentanza, su di un terreno (di politica generale e di contestazione globale) che ha bisogno di ben altri elementi di analisi e di lavoro, prima di tutto locali.

Edi Rabini, 1.8.2001

Vedi anche:
www.gfbv.it/2c-stampa/01-2/010705it.html
 

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