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Una lettura strumentale delle identità

di Claudio Magnabosco

INDICE
CONTRO LE CELEBRAZIONI DI CRISTOFORO COLOMBO | IL BUREAU PER LE LINGUE MENO DIFFUSE CHIUDE DAVVERO? | PER UN RILANCIO DELLA COOPERAZIONE CULTURALE TRA NAZIONI SENZA STATO | PER UN RILANCIO DELLA CONFERENZA DELLE NAZIONI SENZA STATO | UN INDIPENDENTISTA VALDOSTANO: Ricordo di Oscar Perruchon | SE POTESSI PARLARE AI LEGHISTI ... ED ESSERE ASCOLTATO | SE POTESSI PARLARE AI VECCHI AMICI DEL CIEMEN IN ITALIA ... ED ESSERE ASCOLTATO | SE POTESSI PARLARE AI FRIULANI ... ED ESSERE ASCOLTATO | SE POTESSI PARLARE AI SARDI ... ED ESSERE ASCOLTATO | SE POTESSI PARLARE AGLI SLAVI DEL NATISONE ... ED ESSERE ASCOLTATO

Leggo una nota di Naila Clerici sui problemi dei pellerossa e sul ruolo della sua associazione, la storica Soconas Incomindios, nota nella quale lamenta che troppo spesso riesce, sì, ad avere attenzione sulle problematiche dei nativi americani, ma solo in modo superficiale, senza gli opportuni approfondimenti e senza, soprattutto, lasciare davvero aperte le porte all'espressione diretta dei problemi da parte di chi ne è protagonista. Siamo invasi da esperti e studiosi che si applicano alle diverse tematiche e problematiche e se ne appropriano, scavalcando i legittimi depositari delle stesse. Gli studiosi finiscono sempre coll'interpretare la realtà che esaminano, con gli strumenti culturali di chi ha di quelle realtà una visione distorta o, peggio, di chi ne è nemico.

Interpretare, in questo senso, significa collocare l'esame e le proposte che ne conseguono in scenari nei quali predomina sempre una cultura maggiore e più grande che si dimostra apparentemente democratica proprio nel suo calarsi su temi minori. Questo non è il modo più corretto di procedere o, quanto meno, non è il nostro modo. Applicandoci ai problemi delle cosiddette "minoranze" noi ne parliamo da protagonisti, non da esponenti di una cultura dominante che vuol fagocitarle e per poterlo fare appieno se ne propone come difensore. Questo dossier mette insieme alcune situazioni nelle quali tutto ciò è dolorosamente evidente.

CONTRO LE CELEBRAZIONI DI CRISTOFORO COLOMBO .: su :.

Rilevo, così, anzitutto, che è arrivato un altro 12 ottobre e che anche in Italia, come negli Stati Uniti, si è celebrata alla grande la Giornata di Cristoforo Colombo. Ricordo bene la mobilitazione mondiale che, nei primi anni 90, portò alla costituzione di comitati contro le celebrazioni del quinto centenario della scoperta dell'America, anniversario di un genocidio senza fine. I diritti dei popoli autoctoni delle Americhe sono da sempre violati. Ricordare Colombo, quindi, può avere un senso solo se la lettura storica è capace di analizzare tutti gli aspetti dell'evento, anche quelli negativi. Altrimenti non facciamo altro che creare e celebrare la cultura della dominazione. Del resto non siamo forse in un periodo storico nel quale ci troviamo, proprio per ragioni di dominio, immersi in un clima di guerra? Torno ad tema più vicino al nostro specifico impegno.

IL BUREAU PER LE LINGUE MENO DIFFUSE CHIUDE DAVVERO? .: su :.

L'applicazione dell'articolo 6 della Costituzione oggi sembra un fatto acquisito; in realtà nelle sue formulazioni burocratiche, la legge consente solo di fare qualcosa, poco, ma comunque molto più di quanto era pensabile anni or sono, quando era proibito fare anche il minimo indispensabile per salvaguardarle. A questo, tuttavia, si è arrivati con oltre 50 anni di ritardo, quando il sussistere di alcune realtà linguistiche era - come è - fortemente ridimensionato e non più pericoloso per l'unità e l'unicità culturale dello Stato ... nazionale.

Ora ci troviamo di fronte alla notizia che le istituzioni europee intendono affossare o già l'hanno fatto, il Bureau, creato per attuare politiche nei confronti delle cosiddette lingue meno diffuse. Notizia allarmante, per alcuni, presa ad esempio per evidenziare la scarsa sensibilità dell'Europa verso le diversità culturali e linguistiche. Questa è l'apparente verità.

Ora qualcuno, leggendomi, potrà anche credere che mi sono rimbecillito, ma io quasi mi compiaccio che si sia giunti a questo indecoroso epilogo. Quando ho ricevuto il messaggio dell'APM in merito, ho risposto di getto che la cosa non mi sorprendeva, perché l'insensibilità europea verso le minoranze è risaputa, ma anche perché questo epilogo era scritto fin da quando il Bureau venne istituito.

Questa è la notizia diffusa dall'APM:
Il fallimento dell'UE: l'Unione Europea rinuncia ad una propria politica per le minoranze, in www.gfbv.it/2c-stampa/04-1/040806it.html.

E questa la mia risposta.

Devo dirvi, in tuta sincerità, che la notizia non mi sorprende o non mi allarma: quando il Bureau nacque si determinarono gravissimi problemi, soprattutto per quanto concerne la rappresentatività delle nazionalità e delle lingue dello Stato italiano; allora la questione fu gestita in modo strumentale da militanti legati alla partitocrazia italiana e nessuna delle organizzazioni storiche delle lotte linguistiche trovò adeguato spazio. Né la LELINAMI, né il CIEMEN , Né l'AIDILCM videro riconosciuto il ruolo storico che avevano giocato. Per questo non ho mai considerato l'EBLUL come rappresentante delle nazionalità e delle lingue, ma - piuttosto - come lo strumento attraverso il quale le nazionalità e le lingue potevano essere tacitate. Ora che il risultato è quasi raggiunto e che le spinti linguistiche sono quasi azzerate, mentre quelle politiche sono criminalizzate, una struttura di questo genere non serve più ... né agli Stati, né ai partiti.

Scusate la franchezza ed il mio proclamare, fuori dal coro, una verità che, purtroppo avevo previsto si sarebbe prodotta. Fare battaglie per salvare, oggi, una simile struttura mi sembra una perdita di tempo, un fermarsi alla burocrazia europea, mentre per le nostre lingue e per le nostre nazionalità ci vogliono nuove dinamiche ed un rilancio dei contatti e delle occasioni di collaborazione e di solidarietà sul piano politico, su quello sindacale, su quello culturale.

Non sto a limare le idee e le affermazioni, anche se nella mia risposta, bruciante ed immediata, non ho affatto curato i dettagli letterari. Mi soffermo, allora, sulle mie stesse conclusioni. E' necessario un rilancio. Un rilancio culturale, un rilancio politico, un rilancio sindacale dell'azione di solidarietà tra le nazionalità, i popoli, le minoranze, le lingue meno diffuse che dir si voglia.

PER UN RILANCIO DELLA COOPERAZIONE CULTURALE TRA NAZIONI SENZA STATO .: su :.

Credo che l'APM abbia un gran ruolo in tutto ciò, ma credo anche che si debba produrre una sinergia tra le diverse organizzazioni internazionali che si occupano delle nostre problematiche: APM, CIEMEN, AIDLCM - e resto in Europa - dovrebbero trovare un'occasione di incontro e di confronto, mentre in Italia dovremmo assolutamente ritrovare la possibilità di attuare momenti di collaborazione, come quelli che sempre quelle stesse organizzazioni resero possibili in passato e come quelle che si attuarono attraverso la LELINAMI. Propongo, pertanto la creazione di un tavolo di concertazione tra le nostre organizzazioni culturali, per capire insieme cosa è possibile e cosa è necessario fare in Italia. Uno degli obiettivi di questa dinamica potrebbe essere portare avanti l'affermazione di quanto previsto e contenuto nella Dichiarazione Universale dei Diritti Linguistici.

PER UN RILANCIO DELLA CONFERENZA DELLE NAZIONI SENZA STATO .: su :.

Credo sia assolutamente necessario, inoltre, dare nuova dinamica alla CONSEU, Conferenza delle Nazioni senza Stato, affidandole due compiti: affermare quanto sancito nella Dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli e contrastare la Costituzione Europea, nella quale la stessa nozione di popoli, riferita alle Nazioni senza Stato o come altrimenti definite, è inesistente, nella quale non è sancito alcun diritto, neppure in relazione alle realtà regionali ed i diritti linguistici sono unicamente riconosciuti alle lingue degli Stati.

Propongo, qui di seguito, il testo finale dell'ultima Conferenza delle Nazioni senza Stato tenutasi a Cagliari, nella quale, tra l'altro, è prefigurata l'esigenza di affrontare il problema dell'identità europea e delle lingue alla luce del fenomeno straordinario ed irripetibile delle migrazioni.

CONSEU Conferenza delle Nazioni senza Stato d'Europa, CONCLUSIONI DELLA QUINTA ASSEMBLEA GENERALE (Cagliari, 28 Settembre, 2003)
La 5a Assemblea Generale della CONSEU, riunita a CAGLIARI nei giorni 26, 27 e 28 Settembre 2003, ha analizzato il progetto di Costituzione Europea elaborato dalla Convenzione Europea, che sarà posto in discussione in occasione della Conferenza intergovernativa di Roma il 4 ottobre 2003 in www.gfbv.it/3dossier/eu-min/conseu-it.html.

LAVORARE CON I SINDACATI DELLE NAZIONI SENZA STATO
La mondializzazione sta portando con sé anche logiche economiche perverse: è inevitabile, quindi, che quello sindacale sia, anch'esso, nostro terreno di concreto impegno. Per iniziativa del Sindacato basco LAB, si è costituito a San Sebastian un organismo internazionale di collegamento tra Organizzazioni Sindacali delle Nazioni senza Stato.

Propongo, qui di seguito, il documento conclusivo dell'incontro, certo che costituisca un'occasione di riflessione in più.

PRIMA CONFERENZA INTERNAZIONALE DEI SINDACATI DELLE NAZIONI SENZA STATO: RISOLUZIONE FINALE
Il sistema capitalista è giunto a stabilire un quadro mondiale di valorizzazione del capitale che, senza troppe difficoltà, gli permette di estendere il suo sistema di sfruttamento basato sulla produzione e sulla appropriazione del plus-valore prodotto dal lavoro sul mercato oltre che della totalità della ricchezza prodotta dal lavorodomestico, di asistenza e di cura, tradizionalmente affidato alla donna.

Il neoliberismo ideologico che permette questa offensiva del capitale, attribuisce al mercato il potere di regolare i flussis economici, crea e trasforma il ruolo delle istituzioni internazionali (FMI, BM, OMC al limite attraverso l'ONU) per consolidare il suo sistema e trasforma in merci perfino i diritti e le conquiste sociali conseguite con anni e anni di lotte politiche e sindacali.

Sono le imprese transnazionali ad imporre le loro leggi ed a trasformare strutture come l'OMC in tribunali mondiali che dettano le regole di funzionamento del mercato neoliberale. Con il pretesto del libero accesso al mercato, proposto come una bandiera, hanno trasformato diritti umani di base come la salute, l'educazione, l'assistenza sociale, la casa e la cultura, in merci che nelle mani del capitale multinazionale si comperano e si vendono, sottoponendone il rispetto alla logica capitalista con il solo scopo di trarre un po' di plus-valore sempre più rilevante, nel più breve tempo possibile.

Il pianeta è diventato il campo di azione del capitale multinazionale che, nella sua costante ricerca di riduzione dei costi di produzione, ha fatto delle decolonizzazione uno degli strumenti più efficaci per accentuare lo sfruttamento della forza lavoro, oltre che un fattore supplementare dell'instabilità economica, sia sul piano regionale, sia sul piano mondiale.

Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza l'alleanza tra il capitale ed i governi attuali che accettano e rappresentano la divisione dei ruoli in questo ordine mondiale. Le politiche pubbliche hanno acquisito un carattere unicamente sussidiario, lasciando nelle mani del capitale l'iniziativa di tutto ciò che concerne la politica economica ed il modello di sviluppo. Resta agli stati il "privilegio" di privatizzare il settore pubblico, di modificare le relazioni nel mondo del lavoro e di agire come una forza d'urto contro la resistenza dei lavoratori e delle lavoratrici.

Questa evoluzione del sistema capitalistico è stata possibile grazie alla rivoluzione che è avvenuta nelle relazioni di lavoro nelle imprese attraverso l'appropriazione da parte del capitale delle innovazioni tecnologiche. Le riforme successive nel mondo del lavoro rafforzano il potere dell'impresa per determinare le relazioni nel lavoro. La gestione della forza lavoro giunge ad affermarne una flessibilità estrema che permette l'utilizzazione della forza lavoro stessa in funzione dei bisogni della produzione, l'individualizzazione delle relazioni nel lavoro e la competitività addirittura tra gruppi d lavoro che dividono la classe dei lavoratori in collettivi la cui realtà ed i cui interessi sarebbero addirittura opposti.

Gli effetti di questo neoliberismo si fanno sentire su scala mondiale, ma anche su ciascun popolo della terra. E' il sistema di dominio che decide, in ogni istante, le regole del gioco, in modo unilaterale, usurpando il diritto e la capacità dei popoli del mondo di decidere sulle questioni che riguardano il loro steso avvenire. Conseguenza di questa dittatura è il carattere imperialista del sistema a livello politico, militare, economico e culturale che si accentua con un evidente disprezzo per l'ambiente, sfruttando senza scrupoli le risorse della terra, utilizzando, al tempo stesso, anche i residui inquinanti; per i popoli del mondo si accentua ogni giorno la difficoltà di affermarsi in quanto tali, in modo sovrano ed indipendente. La classe lavoratrice non è risparmiata da questa dittatura che incoraggia la riorganizzazione delle classi sociali sulla base della esclusione di un numero sempre maggiore di persone dall'accesso al lavoro, dalla partecipazione equa alla redistribuzione della ricchezza e ad una vita dignitosa. E' una dittatura, inoltre, che mira a perpetuare la divisione sessuale del lavoro ed a mantenere le donne in condizione di sussidiarietà.

Questa così ampia riorganizzazione del sistema capitalista determina lo sbandamento ideologico del movimento operaio, con l'introduzione di valori che gli sono estranei, come l'individualismo, la mancanza di solidarietà, il consumo ad oltranza, una riorganizzazione che causa la rottura di classe e la sua segmentazione in colletivi i cui interessi diventano apparentemente opposti, ma anche con l'introduzione di elementi di disprezzo nei confronti del ruolo stesso del movimento sindacale. Mentre il capitale si attrezza per il controllo totale del plus-valore creato nei suoi centri di lavoro e mette in campo gli strumenti necessari alla sua offensiva ideologica, il sindacalismo (maggioritario, classico, burocratizzato, istituzionalizzato ...), partendo da posizioni parziali ed a breve termine, inizia soltanto ora a tentare di colmare il divario che spacca la classe operaia, privandola della capacità reale di reagire e condizionando negativamente il proprio stesso ruolo di sindacalismo come strumento di contro-potere con capacità di contribuire efficacemente alla costruzione di un nuovo modello di società.

Partendo da questa analisi i sindacati (di classe) delle Nazioni senza Stato firmatarie esprimono la loro intenzione di operare per costruire un modello di società alternativo, non sottomesso alle attuali regole del sistema neoliberale, ed a proporre, inoltre, un nuovo modello sindacale che, in termini di rivendicazioni, di modelli di intervento e di strutture sindacali, si adatti alla nuova realtà che la classe lavoratrice rappresenta.

Affermiamo che la risposta e l'alternativa al modello della globalizzazione neoliberale, passa attraverso la critica radicale di quel modello stesso, ma passa anche attrvaerso il rafforzamento ideologico della classe lavoratrice, attraverso la ricomposizione della classe operaia in quanto soggetto delle trasformazioni e attraverso la volorizzazione del movimento operaio e sindacale come strumento di mutamento politico ed economico.

Accettiamo la sfida del recupero del sindacalismo, del suo ruolo di rappresentazione degli interessi dell'intera classe operaia, uscendo dal deficit storico relativo alla considerazione sussidiaria del ruolo della donna nel mercato del lavoro e nella società ed alla divisione sessuale sul piano pubblico e privato del lavoro ed anche alla dissociazione tra difesa dei diritti individuali dei lavoratori e delle lavoratrici.

Ci impegnamo per la riconquista della sovranità dei popoli in quanto diritto e risposta all'uniformizzazione imposta dalla globalizzazione. L'esercizio democratico della sovranità rende possibileuna difesa più vicina ai diritti di classe dei lavoratori, senza far venir meno la necessaria solidarietà tra i popoli.

Donostia/San Sebastian 19 maggio 2004

Ai lavori della Conferenza hanno preso parte anche rappresentanti sindacali della Scozia, dell'Angola, del Venezuela, dell'Argentina, del Messico, della Repubblica Dominicana, dell'Ecuador, dell'Uruguay, della Bolivia. Messaggi di solidarietà sono pervenuti da rappresentanze sindacali di numerosi altri paesi.

UN INDIPENDENTISTA VALDOSTANO: Ricordo di Oscar Perruchon .: su :.

Dei suoi modi austeri e per certi versi aristocratici, negli ultimi tempi era rimasto poco, ed il suo incedere penoso ed incerto non lasciava trasparire che egli fosse Stato uomo capace di audaci anni di militanza politico indipendentista. Chi è impegnato da sempre nell'area indipendentista si sorprese un poco quando il professore si buttò nella mischia con veemenza, criticando non solo il palazzo del governo valdostano, ma il governo dello Stato ed i governi degli Stati in genere.

Questa sua collocazione ideale e politica sorprese i più che lo ricordavano democristiano, poi demopopolare, poi leghista ma, soprattutto, studioso attento delle cose giuridiche, tanto che di lui resta un bel libro scritto con Valdo Azzoni e dedicato alla figura del Presidente della Giunta nella regione autonoma Valle d'Aosta. Non di questo o quel Presidente della Giunta, ma del Presidente in senso generale, quello che riassume in se le competenze del Prefetto e la contraddizione fondamentale del rappresentare, nello stesso tempo, la massima carica della Regione e la massima carica dello Stato nella Valle.

Per un lungo periodo il prof. Perruchon tentò di dar voce ad un indipendentismo romantico e dissennato, poiché, come egli diceva, non si può fare l'indipendenza della Valle d'Aosta se non possiede neppure un aereo che possa imporla e difenderla. Si immaginò, un poco vaneggiando, potesse sussistere in Valle d'Aosta una volontà popolare di contrastare Roma ed i governi europei; la sua voce suonò forte mentre in Valle d'Aosta cercava spazi quel famoso Crevelle, anarco-monarchista francese che tentava di fomentare una rivolta la cui repressione avrebbe fatto della Valle d'Aosta una terra di lotte violente ed un caso internazionale.

Bastò poco alle forze dell'ordine per tacitare questi indipendentismi; bastò inguaiare il prof. Perruchon, le cui dichiarazioni dure e provocatorie parvero pericolose, anche se non sarebbe Stato difficile capire quanto erano, in realtà, soltanto velleitarie e senili. Bastò poco al mondo politico per tacitare altre voci indipendentiste, sostanzialmente appartenenti a persone legate all'UV e deluse dalla stessa.

Restarono a fare gli indipendentisti, pochi ex arpitani e alcuni ex leghisti, persone che non avendo quasi mai militato nell'UV, potevano almeno porsi in alternativa ideale ad essa, potendo vantare un'indipendenza psicologica anche dai leader dell'UV che spesso hanno manovrato gli indipendentisti per creare un parcheggio di voti e di ideali, nel quale collocare tutti gli scontenti, senza far danno alle battaglie politiche contingenti per la gestione del potere autonomistico.

Perruchon fu voce che finì con l'infastidire tutti, anche gli indipendentisti che si ritrovarono a fare i conti con troppe stranezze e con l'incapacità di capirle e di spiegarle: gli autonomisti/indipendentisti savoiardi, i veneti di San Marco che occuparono il campanile, il separatismo leghista che è finito addirittura fra le braccia di Berlusconi e Fini ed i fulmini di Perruchon furono una cornice troppo complessa e contraddittoria per farvi riferimento e per render credibile un già improbabile indipendentismo valdostano.

Perruchon pagò a caro prezzo le sue considerazioni storico politiche e bastò un procedimento giudiziario a stroncarlo come uomo e come militante. Dopo quell'episodio la sua salute divenne ancor più malferma di quanto potesse renderla l'età avanzata e, probabilmente, si accorse di inseguire da solo un mito e di non avere nessuno dietro di se, se non qualcuno pronto a spingerlo oltre il limite, per lasciarlo poi, solo. Triste conclusione e lento spegnersi di un'intelligenza fatta di genialità inespresse.

Poi la malattia si fece più grave, gli anni divennero un peso ed era difficile incontrarlo perfino nei pressi di casa, assorbito nei pensieri di una lenta passeggiata. Molti si sono dimenticati di lui, altri si chiedono se fosse più giusto ricordare l'uomo, il professore, la persona che fu per quasi tutta la vita o quel che tentò di diventare negli ultimi anni, quel fantasma dell'indipendentismo, di cui egli rappresentò la più incredibile propaggine politica, lui che da uomo di cultura, avrebbe potuto - invece - contribuire a costruirne la concreta base culturale: l'indipendenza intellettuale e psicologica, da cui potrebbe discendere, e discenderà un giorno, l'altra.

SE POTESSI PARLARE AI LEGHISTI ... ED ESSERE ASCOLTATO .: su :.

Devolution falsa conquista

A molti di voi il mio nome è sicuramente sconosciuto, ma non lo è per alcuni dei vostri leader con i quali ho incrociato, in tempi lontani, difficili percorsi e confronti. Erano gli anni dei vostri primi passi ed io rappresentavo l'Union Valdotaine, il partito autonomista e federalista storico della Valle d'Aosta, negli incontri che si svolgevano in giro per l'Italia per mettere insieme il movimento nazionalitario ed i federalisti contro il centralismo romano.

Per le elezioni europee del 1979, l'UV creò un listone che si presentò in tutta Italia; nel corso di quella campagna elettorale Umberto Bossi incontrò casualmente Bruno Salvadori, leader dell'UV. Un anno dopo Salvadori morì in un incidente stradale ed io ebbi l'incarico di continuare a tessere la rete di contatti. Ci misi del mio: allora, come oggi, avevo una mia visione politica e faticavo a leggere nel leghismo nascente un fenomeno davvero utile e compatibile con gli interessi del movimento nazionalitario.

Fui tra i protagonisti o tra i responsabili - se volete - dell'interruzione dei rapporti tra il movimento nazionalitario ed il leghismo che si tradusse nella presentazione alle elezioni europee del 1984 di due diverse liste, quella delle nazionalità e quella dei leghismi. Molti non mi perdonarono il fatto che io, cimbro/veneto di origine, non sposassi la causa della Liga e della Lega e, anzi, per certi versi mi contrapponessi ad esse per stringere legami - come feci - con il Movimento Meridionale.

Fin qui la storia che sintetizzo per permettere ai lettori di conoscermi e, quindi, di leggere questo mio commento alla cosiddetta devolution, considerandomi o il traditore di sempre oppure, più correttamente, uno studioso il cui impegno militante si è tradotto nell'esigenza di affermare che una cosa sono le nazionalità, un'altra le popolazioni che, convivendo in una data area geografica, armonizzano le loro diversità in un progetto di rispetto reciproco: solo questa è, a mio avviso, e può essere la Padania, area geografica, con grande peso e rilevanza politica ed economica. Se esiste una Padania esiste, quindi, come esiste l'Arco Alpino, come esiste l'area Mediterranea, zone/aree geografiche nelle quali si producono vicinanze, similitudini e sintonie tra popoli e Nazioni diverse.

I leghisti hanno analizzato la realtà delle Regioni a statuto speciale, quelle la cui autonomia è basata sui diritti che la specificità etnica, linguistica, storia e geografica non poteva negare a popoli/nazionalità/Nazioni senza Stato/ minoranze che dir si voglia. Senza quella specificità non sussisteva la possibilità, almeno nelle logiche giuridiche italiane, che quel tipo di autonomia venisse riconosciuto ed attribuita, tant'è che nell'ordinamento italiano vennero create anche le Regioni "ordinarie", istituzioni le cui caratteristiche erano e sono di mero decentramento.

La devolution non fa altro che attribuire alle regioni, competenze, alcune significative, altre meno, ma che si tratti - ancora - di semplice decentramento è indiscutibile: Se si trattasse, infatti, di "federalismo" ci troveremmo in tutt'altra situazione, nel senso che tutte le competenze dovrebbero essere attribuite alle "Regioni" e ad esser definite e delimitate dovrebbero essere solo le competenze che le Regioni attribuiscono e riconoscono allo Stato.

L'esempio cui i leghisti hanno spesso attinto, quello della Valle d'Aosta, non è perfetto ed i valdostani ritengono che la pur ampia autonomia che hanno ottenuto nel 1948, non corrisponda affatto alle loro aspettative; i valdostani, inoltre, hanno atteso un trentennio per veder chiaramente formulato il principio del riparto fiscale, quella sostanziale forma di autonomia che attribuisce alla Regione i 9/10 di tutte le tasse pagate in Valle d'Aosta.

La Valle d'Aosta ha un ampio elenco di materie nelle quali ha competenza primaria ed ha visto riconosciuta e tutelata la propria specificità etnica e linguistica; eppure neppure questo è vero federalismo, anzi i valdostani hanno definito l'autonomia in due modi "endroumia" e "decaffeinata", il primo dei quali significa che l'autonomia ha addormentato la rivendicazione di più sostanziali diritti, mentre il secondo spiega che l'autonomia toglie al diritto la sua sostanza più profonda..

La devolution non è federalismo e non è neppure vera autonomia. Tuttavia addormenterà le tensioni e le rivendicazioni, poiché mi pare assolutamente chiaro che la Lega stia tentando di far credere di aver finalmente vinto la propria battaglia per il federalismo. La gestione e l'amministrazione delle nuove competenze assorbiranno molte energie e molte risorse, distogliendole dall'impegno politico di una vera rivendicazione federalista.

La Lega rischia, in questo modo, di spegnersi, di considerare esaurito il proprio ruolo storico avendo infine raggiunto il risultato che si prefiggeva. Credo che per raggiungere questo obiettivo assai poco significativo, la Lega abbia contribuito a compromettere la reale possibilità di attuare una trasformazione in senso federale dello Stato, così come in passato contribuì, al pari dell'estrema destra, a bloccare la legge di attuazione dell'articolo 6 della Costituzione che per oltre 50 promise inutilmente tutela alle cosiddette minoranze linguistiche e che tardò ad essere applicata: i leghisti non sposarono la causa della difesa delle lingue delle minoranze storiche, ma tentarono di avallare la stessa identità etnica dei lombardi, degli emiliani, dei toscani, ecc. ingenerando una confusione di cui poterono approfittare i centralisti.

Credo e temo che questa devolution possa diventare il primo passo di una crisi irreversibile della Lega; per un po' di tempo riuscirà a celebrare entusiasticamente il successo della devolution e, magari, addirittura ad aumentare i propri consensi, o quanto meno a non perderne, ma poi dovrà calarsi nella realtà della applicazione di quanto ha voluto e difeso ed allora sarà chiaro a lei e a tutti, di quanti siano i limiti e le contraddizioni di questo risultato.

Sono personalmente fuori dai giochi della politica, resto - quindi - un osservatore quasi esterno; ma se mi si riconosce un minimo di credibilità il contenuto di questa lettera è, sostanzialmente, una sintesi di ciò che ho sempre pensato del leghismo.

Se potessi parlare ai leghisti ... ed essere ascoltato, direi loro di ripensare al ruolo della Lega e di far nascere o rinascere, le vecchie, radicate e profonde organizzazioni politiche "regionali", sciogliendo la Lega per costruire, finalmente, quel soggetto politico realmente federalista, la federazione dei partiti regionali, federalisti e nazionalitari, antidoto ed antitesi al Polo e all'Ulivo, non terza via, ma unica alternativa: la trasformazione dello Stato e dell'Europa in senso federale.

Ricordo che nel 1979, quando l'U.V. proponeva un'alleanza per le elezioni europee a tutti i partiti autonomisti, federalisti, regionalisti, nazionalitari, analizzando il progetto della lista, tutto teso a riaffermare il diritto all'autodeterminazione dei popoli, a trovar spazio per i diritti della Nazioni senza Stato, a trasformare lo Stato italiano in senso federale, Sergio Salvi scriveva che "100 campanili non fanno una Nazione".

Morale, bisogna pur distinguere cosa sia una Nazione senza Stato e cosa sia una variante regionale, una cultura locale. Il leghismo ha fatto troppa confusione in questo campo. Oggi che i diritti delle nazionalità sono negati e criminalizzati (chiedere l'affermazione del diritto all'autodeterminazione significa esser considerati dei terroristi), il tentativo di lavorare sul diritto positivo, facendo chiarezza dei termini e delle problematiche comporta la necessità di non avere punti deboli e contraddittori. Le posizioni e le scelte della lega sono il punto debole di ogni rivendicazione di tale diritto. Spero che quando i leghisti se ne renderanno conto, non sia troppo tardi.

SE POTESSI PARLARE AI VECCHI AMICI DEL CIEMEN IN ITALIA ... ED ESSERE ASCOLTATO .: su :.

IL CIEMEN, I DIRITTI DEI POPOLI, L'AUTODETERMINAZIONE
Per una storia dal 1975 ai giorni nostri


Quando il CIEMEN si costituì (1975), le nazionalità dello stato italiano stavano attraversando un momento di particolare e positiva attività: erano in atto molteplici tentativi di aggregazione delle loro forze politiche, si stavano ponendo le basi per stabilire rapporti tra le loro organizzazioni sindacali. La nascita del CIEMEN rese possibile l'approfondimento delle problematiche che stavano a monte di queste dinamiche e, insieme, determinò il perfezionarsi di una certezza: portando avanti tutte insieme un confronto con lo Stato, le nazionalità sarebbero state più forti.

Per non andare a cercare eventi troppo lontani nel tempo che diano una valore storico a questa azione di unità nella diversità (ma potremmo ricordare almeno che nel '43, sotto il fascismo, le nazionalità dell'arco alpino rivendicarono l'autonomia e spazi istituzionali simili ai cantoni svizzeri; che nel '47 nella nascente democrazia italiana post-fascista le nazionalità proposero di trasformare lo Stato in senso federalista, ecc.) è dal 1970 che bisogna cercare i primi momenti di una fattiva cooperazione tra sardi, friulani, sloveni, valdostani, occitani, sudtirolesi in chiave chiaramente nazionalitaria: intellettuali e rappresentanti di organizzazioni culturali si riunivano spesso a Milano, ad Aosta e in Sardegna, crearono un Movimento (il MEM, Movimento Europeo Minoranze), primo passo verso un accordo elettorale da concretizzare aggregando tutti i partiti nazionalitari per le elezioni europee. La nascita del CIEMEN diede la pennellata internazionale al movimento delle nazionalità in Italia ed evidenziò che non erano più accettabili le contraddizioni e le confusioni tra autonomismo, regionalismo, federalismo, confederalismo, indipendentismo, separatismo che spesso caratterizzavano il linguaggio del progetto politico delle diverse organizzazioni nazionalitarie, quasi non sussistessero sostanziali differenze nel significato di quei termini.

Il CIEMEN mosse i primi passi in una Italia e in nazionalità che avevano un gran bisogno di capire; i libri di Sergio Salvi, ma anche quelli di Edoardo Ballone e di Massimo Olmi, evidenziavano che la questione linguistica, quella che aveva portato ad un interminabile dibattito sulla applicazione dell'articolo 6 della Costituzione italiana ("la Repubblica tutela le minoranze linguistiche"), non prescindeva dalla questione nazionalitaria: la definizione "minoranze linguistiche", infatti, sembrava voler tutelare più che i diritti reali delle lingue delle nazionalità all'interno di un loro territorio definito, le prerogative dell'unità dello Stato e della sua lingua, l'italiano; riconoscere l'esistenza di semplici minoranze culturali all'interno di una Stato definito nazionale ed unitario, diventava - infatti - per lo Stato un gesto democratico e meritorio, mentre riconoscere l'esistenza di minoranze nazionali identificate attraverso la lingua ed il territorio, avrebbe significato ammettere la plurinazionalità dello Stato, riconoscimento che in alcun modo né gli apparati né i partiti dello Stato potevano accettare senza che venissero meno il loro ruolo e la loro stessa legittimazione.

Per capire meglio quanto la situazione potesse essere esplosiva, analizziamo brevemente la situazione delle diverse nazionalità. l'Union Valdotaine governava una Valle d'Aosta che stava conquistando fette importanti di reale autonomia, come il riparto fiscale che attribuiva alla Regione Autonoma Valle d'Aosta i nove decimi di tutte le tasse pagate in Valle d'Aosta, preconizzando una situazione di federalismo fiscale. La Sudtirolervolkspartei governava la Provincia di Bolzano proponendo modelli di separazione tra tedeschi ed italiani che sembravano esportabili, anche perchè la qualità della vita nella Provincia tedesca di Bolzano/Bozen, confermava che l'autogoverno corrispondeva a migliori opportunità di progresso. In Sardegna il fermento politico era così forte che gruppi di estremisti ispirarono all'editore Gian Giacomo Feltrinellli l'ipotesi di poter fare della Sardegna la Cuba del Mediterraneo; Feltrinelli morì confezionando una bomba, il sardismo superò i velleitari propositi di lotta armata e sul bisogno di identità il Partito Sardo d'Azione ricostruì un consenso che lo portò ad ottenere esaltanti successi. In Friuli il Movimento Friuli si avviava a trasformare in consensi elettorali la grandissima adesione popolare a tutto ciò che dava forza e corpo alla cultura friulana, a cominciare dalla grande mobilitazione per l'Università di Udine/Udin; il Friuli, scosso da un terribile terremoto, proprio in quegli anni riscoprì il proprio orgoglio identitario; ne era convinto, in particolare Sergio Salvi che fece una scommessa intellettuale proprio sulle possibilità di riscatto nazionale del Friuli (insieme alla Sardegna). In Occitania nasceva il MAO, Movimento Autonomista Occitano che rivendicava il riconoscimento dei diritti culturali ed amministrativi rispondenti al criterio di territorialità.

Nel 1979 alle elezioni europee si presentò in tutta Italia una lista delle nazionalità che sfiorò la conquista di un parlamentare europeo, risultato che ottenne nel 1984, quando mentre i partiti nazionalitari erano saldamente legati tra loro, nasceva anche un vero e proprio coordinamento delle organizzazioni sindacali nazionalitarie e la cooperazione delle nazionalità sul piano culturale portava, propria grazie alla spinta del CIEMEN, a fervidi scambi. Di tutto ciò il CIEMEN fu protagonista e testimone con la sua rivista "Minoranze", diretta da Carlo Alberto Delfino ed alla cui redazione parteciparono tutti i maggiori studiosi del problema in Italia. Quando il CIEMEN presentò la realtà sarda, furono intellettuali come Antonello Satta, Lilliu e Spiga a firmare importanti contributi diffusi a livello internazionale.

Personalmente ritengo che il lavoro del CIEMEN in Italia sia stato di fondamentale importanza sia per giungere alla sottoscrizione, nel 1984, di quella Carta dell'Autodeterminazione che è la Dichiarazione Emile Chanoux (martire della resistenza valdostana antifascista), sia per la successiva creazione della Conseu, la Conferenza delle Nazioni senza Stato. Ma non è solo opinione personale il fatto che la ventata di entusiasmo e di chiarezza culturale che le nazionalità espressero in quegli anni in Italia, fosse dovuta proprio al ruolo che il CIEMEN seppe esercitare. Il CIEMEN influenzò effettivamente i partiti, i sindacati, le organizzazioni culturali, i media; i principali attori di questo particolare "fenomeno" (uomini politici, intellettuali, esponenti della cultura e dei media), furono tutte persone coinvolte nell'esperienza CIEMEN. In molti documenti congressuali di partiti, sindacati e di organizzazioni culturali, il ruolo del CIEMEN è chiaramente indicato e riconosciuto.

Una esperienza complessa e dalle molteplici sfaccettature quella del lavoro "italiano" del CIEMEN: dall'Italia molti partivano d'estate per seguire i seminari di Saint-Michel de Cuixà (lo ricorda anche Marras nel suo libro su Antonio Simon Mossa e il sardismo); in Italia si realizzavano attraverso il CIEMEN importanti mostre d'arte come quelle dedicate al catalano universale, Joan Mirò; su tutto l'arco alpino si realizzavano eventi musicali dedicati alle musiche delle nazionalità; vennero proposte manifestazioni internazionali dedicate al cinema delle nazionalità, ecc. L'elenco di ciò che è stato fatto sarebbe troppo lungo e servirebbe a poco proporlo in forma autogratificante e celebrativa.

Con orgoglio i militanti del CIEMEN in Italia ricordavano allora di aver espresso attenzione e solidarietà sui giornali delle diverse nazionalità, già all'inzio degli anni '60 all'abate Aureli Escarrè, quando questi fu esiliato da Franco; tutto ciò costruì quasi un mito della solidarietà internazionale, mito rafforzato dalla passione con cui venivano seguite le drammatiche vicende che interessavano, ad esempio, i Paesi Baschi e l'Irlanda prima, ma anche la Corsica e la Bretagna poi. Di lì a poco l'Italia entrò in un periodo di grave crisi istituzionale; veniva travolta da continui scandali che determinarono la morte di quella che veniva chiamata la "partitocrazia". Il momento era molto delicato e fu proprio in questo momento che le contromisure messe in atto per frenare le rivendicazioni delle nazionalità cominciarono a produrre i loro effetti.

Era nata, nel frattempo, l'esperienza del leghismo che proponeva di estendere le specificità politico-amministrative della Valle d'Aosta e della Provincia di Bozen a tutte le regioni d'Italia, e questo mentre la Lega giocava pesantemente la carta del razzismo contrapponendo il nord ed il sud dello Stato, proponendo di dividere l'Italia in due o tre macroregioni, la cui identità ed il cui ritmo di sviluppo estremamente differenziati, non impedissero al nord di entrare nelle dinamiche monetarie, commerciali e politiche dell'Europa; la Lega sosteneva che il sud costituiva una palla al piedi per lo sviluppo del nord. Poi "perfezionò" la sua rivendicazione individuando nel nord l'esistenza di una nazione fittizia, la Padania. A livello partitico, sindacale e culturale si creò una frattura pesante tra le nazionalità ed il leghismo; il CIEMEN - o quanto meno gli uomini di punta del CIEMEN in Italia in quegli anni - ne fu il protagonista, affermando che la causa delle nazionalità rischiava di esser compromessa dal razzismo della Lega che rivendicava sì il diritto all'autodeterminazione dei popoli ed il rispetto dei diritti linguistici, ma lo faceva in modo contraddittorio, confuso e razzistico.

Sulla questione linguistica si riproposero le vecchie e ben note contrapposizioni dei nazionalisti italiani che non volevano venisse riconosciuto alcun diritto alle altre lingue; i leghisti complicarono la questione chiedendo che anche le lingue regionali della Toscana, della Liguria, della Lombardia, ecc. ottenessero la stessa tutela che la Costituzione aveva almeno formalmente garantito alle lingue delle nazionalità; e quando a livello europeo si concretizzò la possibilità di sostenere le lingue delle nazionalità (definite "meno diffuse"), la prima applicazione di questo proposito fu affidata ad una organizzazione controllata da esponenti della partitocrazia di lingua e cultura italiane. Sulla questione politica fecero presa, poco a poco, le strumentalizzazioni e l'azione di criminalizzazione messe in atto nei singoli Stati: definirsi nazionalitari e proporre la costruzione di una Europa dei Popoli al cui interno le nazionalità potessero autodeterminarsi, sembrò una azione antidemocratica ed antieuropea. Oggi è l'Unione Europea, con la sua Costituzione, a sancire definitivamente l'impossibilità per i popoli di accedere alla autodeterminazione. E, in proiezione, tutti coloro che contrastano la costruzione di un assetto continentale e mondiale ispirato al più egoistico dei liberismi, diventano dei teroristi e dei nemici della libertà e dei diritti dell'uomo.

All'interno dei partiti nazionalitari bastarono, così, qualche insuccesso elettorale e qualche gelosia (il sardista eletto nel Parlamento Europeo per due legislature successive non consentì anche ai portavoce dei partiti nazionali alleati di sedere nel Parlamento Europeo attraverso la rotazione) per frantumare gli accordi e rimettere in gioco il leghismo che spopolò in Friuli, tentò di sbarcare in Sardegna con Miglio invitato da Melis, cancellò la rivendicazione occitana e tentò di mettere in crisi l'autonomismo politico in Valle d'Aosta, conquistando tre dei 35 seggi nel Consiglio regionale della Vallée con una lista contrapposta a quella dell'UV (al cui interno molti si interrogavano se era opportuno andare a braccetto con Bossi, oppure se era meglio scaricarlo chiaramente). Una cosa è certa: Bossi ed il leghismo rivendicarono il diritto alla autodeterminazione dei popoli in modo così razzista e pasticciato che divenne impossibile proporre su un tema già così difficile da far passare nella cultura e nell'opinione pubblica, i necessari distinguo. E quando la lotta armata di alcune nazionalità venne indicata come una delle tante forme di un indiscriminato terrorismo (la criminalizzazione dei baschi, degli irlandesi e, oggi, dei bretoni, ha radici lontane), il gioco contro la rivendicazione nazionalitaria toccò il suo apice.

Perchè il CIEMEN non seppe reagire? Credo che non avrebbe potuto reagire in nessun modo poiché le modificazione della situazione politica italiana ebbero un carattere epocale e complessivo. Certo è che da quando il CIEMEN poté insediarsi nella sua sede naturale, Barcelona, la sua voce in Italia si affievolì e, poco a poco, divenne la voce soltanto di alcuni intellettuali che non riuscivano neppure più a farsi sentire. Al CIEMEN venne così meno la presa all'interno delle forze politiche, di quelle sindacali e di quelle culturali; anche il confronto e la collaborazione con le istituzioni divennero precarie; poco a poco anche quando in Italia nuovi spazi si aprivano per discutere ed affrontare le problematiche nazionalitarie in convegni, congressi, manifestazioni e studi, gli organizzatori si rivolgevano sì al CIEMEN, ma alla sede di Barcelona, tanto che oggi del CIEMEN in Italia si ha una immagine personificata nel suo segretario generale fondatore, Aureli Argemi, la cui risposta positiva ai diversi inviti che gli vengono rivolti, purtroppo non aggiunge nulla alla storia del CIEMEN in Italia e, soprattutto, non contribuisce a rilanciarlo: così personificato il CIEMEN non fa più paura.

Si è persa a tal punto la coscienza di cosa sia stato il CIEMEN, che a Cagliari durante i recenti lavori della CONSEU, ci sono state delle contestazioni anche pesanti rivolte alla segreteria del Congresso, quasi che il tema prescelto per i lavori, la Costituzione Europea, permesse di produrre uno sforzo giuridico del tutto inutile, mentre - si diceva - è necessario rilanciare il grande tema del diritto alla autodeterminazione. E' toccato, allora, propria a chi scrive ricordare che il CIEMEN ha una sua storia e che l'incontro sardo voleva approfondire il tema della Costituzione per dimostrare la capacità delle nazionalità di essere propositive e non solo velleitariamente rivoluzionarie.

Che ne è delle organizzazioni nazionalitarie in Italia, oggi? Il quadro non sarebbe così negativo se accettassimo un metro di misura diverso da quello che abbia per riferimento la coerenza della rivendicazione nazionalitaria: l'UV è ancora saldamente al potere in Valle d'Aosta; la SVP governa sempre Bolzano; i nazionalitari friulani sono tutti parcheggiati all'interno di una Lega che non è voce di secondo piano in Friuli (stento a credere che la loro sia una scelta ideale, ma ritengo che la loro sia una scelta strategica); degli sloveni si parla poco, stranamente, ma dopo che la fine della Iugoslavia ha portato alla nascita della Slovenia, almeno sul piano culturale respirano un'aria diversa e più positiva; gli occitani sono attivi sul piano culturale e su quello di una complessa imprenditoria turistica giocata proprio sulla valorizzazione delle loro peculiarità; i sardi sono perennemente in altalena, alternano periodi di grande entusiasmo a periodi di ripiegamento che spiegano il perchè di così tante divisioni interne, eppure anche nei momenti meno positivi restano vitali e dinamici.

Per un certo periodo di tempo e da quando si è imposta in Italia, la nuova realtà politica del centro-destra di Berlusconi e dell'ex fascista Fini, alleati con il leghismo, è sembrato sussistesse per le nazionalità almeno lo spazio per presentare un progetto politico alternativo: far sentire la loro voce nel dibattito sulla trasformazione dello stato in senso federale. In realtà destra e sinistra hanno tentato di accaparrarsi del modello scozzese e di quello catalano, ma alla fin fine, hanno trasformato il discorso sul federalismo in una burla, sì che per federalismo oggi in Italia si intende solo il trasferimento di alcune competenze dallo Stato alle regioni; l'ipotesi che le nazionalità rilanciassero la questione dei loro diritti è venuta meno perchè a farsi sentire sono stati soltanto alcuni intellettuali, presto zittiti.

Ai vertici di nessuno dei maggiori partiti delle nazionalità, vengono ancora fatti dei discorsi nazionalitari; tra i sindacati solo il sindacato valdostano (SAVT) e quello sardo (CSS) si dichiarano nazionalitari; i concetti stessi di nazionalità e di diritto alla autodeterminazione restano, tuttavia, sempre più spesso sottintesi anche per queste organizzazioni, perchè ogni formulazione espressa in tal senso genera ondate di reazioni e di isterismi talora ingestibili anche all'interno di quelle stesse organizzazioni: dovrebbero orgogliosamente confermarli e rivendicarli, ma al loro stesso interno sussiste la paure di esser criminalizzati. SAVT e CSS sono, comunque le uniche organizzazioni nazionalitarie che seguono ancora concrete dinamiche internazionali e non si peritano di esprimere la loro solidarietà quando altre nazionalità (nel caso particolare i baschi, oggetto di una concreta oppressione) si trovano in situazioni di difficoltà.

Dirò, in altra parte, dei sardi, ai quali mi sento di rivolgere un appello da sardista, quale sono per sentimenti e per affetti: ho un bimbo che vive in Sardegna con sua mamma che definisco spesso "sarda, sarda"... è tutto dire; vanto un passato di vicinanza particolare al sardismo, poiché Michele Columbu mi designò come funzionario di nomina politica del Parlamento Europeo al suo fianco nel 1984.

E' molto importante, in Italia, il lavoro culturale svolto dal sito di Bolzano della Associazione per i Popoli Minacciati, che pubblica studi e documenti sulla questione nazionalitaria cui accedono diverse migliaia di persone. Segno che sopravvive un interesse culturale e che la voce di quanti ancora parlano del CIEMEN e della questione nazionalitaria non è del tutto spenta. Chi fosse interessato a ricollocarsi in una costruttiva dinamica internazionale, può leggersi i materiali di www.gfbv.it.

Negativa, comunque, almeno per chi scrive, la scelta di alcuni intellettuali nazionalitari di stare ad ascoltare le sirene del leghismo. Qualcuno intravide nel leghismo uno strumento politico capace, prima o poi, di dare una spallata allo Stato ed ai suoi centralismi ed oggi ci ritroviamo con un leghismo che sostiene un governo centralista.

Purtroppo in Italia si vanno affermando anche altri fenomeni paralleli e similari al leghismo, come la moda del celtismo, che trasformano anche il più coerente dei propositi culturali in una farsa o in un proclama carnevalesco. Credo sia questo l'errore di fondo di ogni sincretismo, da quello religioso a quello musicale. Così possiamo immaginarci una nazione celtica, una nazione etrusca, la rinascita di Atlantide, ma intanto scarichiamo scorie radioattive in Sardegna, neghiamo ai baschi che lo chiedono democraticamente di poter accedere alla autodeterminazione, ficchiamo in galera i bretoni, ecc.

Una prova che leggo bene la situazione? Nessuno si preoccupa più neppure di contrastare la rivendicazione formale di taluni diritti delle lingue e delle culture; del resto molte lingue minoritarie dello stato italiano (il grecanico, l'albanese, il catalano, i dialetti tedeschi) sono in stato di pre-morte; altre (l'occitano e il francoprovenzale si stanno trasformando in dialetti fortemente italianizzati ed italiani). La legge di applicazione dell'articolo 6 della Costituzione è stata finalmente approvata, ma più di 50 anni di ritardo son bastati per farne cadere molti dei contenuti potenzialmente rivoluzionari. Nessuno contrasta più i diritti linguistici perchè, tranne che in rari casi, non esiste quasi più la stessa questione linguistica. In Sardegna , e non solo, l'applicazione della legge ha dato vita a litigi sulla stessa natura della lingua, roba vecchia e già prodottasi ovunque si siano standardizzate le lingue. Un suggerimento: i friulani per risolvere la questione hanno patto predisporre la standardizzazione della loro lingua da un catalano, altrimenti nessun friulano avrebbe mai accettato che un friulano facesse assumere alla parlata di una Valle o di un paese, assumesse un ruolo anche solo apparentemente meno importante di altri.

Dopo le elezioni regionali di questo 2003, in Valle d'Aosta l'UV conta su 18 dei 35 seggi in Consiglio regionale e la forza elettorale dei nazionalitari, misurata alle precedenti elezioni, è dell'1%. Cito questo dato non solo perchè è quello a me più vicino, ma perchè la crisi della rivendicazione nazionalitaria è tutta nella analogia tra questo dato valdostano e quello delle altre nazionalità. E' ormai quasi passata l'idea che siamo in Europa e quindi le questioni locali siano superate (come se i diritti delle nazionalità fossero una mera questione locale interna a stati democratici); l'Europa promette di difendere lingue e identità particolari, esattamente come fece lo Stato italiano che promise tutela e rispetto, poi dimenticò per più di 50 anni le promesse e quando vi ci si applicò, la maggior parte delle lingue e delle identità erano morte.

Chi parla ancora di nazionalità oggi in Italia? Principalmente i no-global. Realtà da guardare positivamente e, al tempo stesso, con nuova preoccupazione. Negli anni nei quali il CIEMEN nasceva, facemmo non poca fatica a spiegare che per "minoranze" (termine desueto e riduttivo che tentammo in tutti i modi di superare, anche se per molti - allora e ancora oggi - identifica la realtà) non si poteva intendere tutto e niente, dagli omosessuali alle donne, dai bambini non nati agli immigrati, dai portatori di handicap alle nazionalità, perchè questa pulviscolo identitario non aveva in se una qualche unicità. Facemmo molta fatica a spiegare che, al più, si poteva parlare di minoranze nazionali nel senso numerico del termine e non in quello concettuale di minoranza applicabile a 360 gradi.

Felix Guattari litigò con me proprio su questo: lui convinto che la polverizzazione delle identità personali, collettive, psicologiche e psichiatriche, avrebbe fatto saltare il sistema ed io convinto - invece - che l'identità nazionalità sia un unicum al cui interno si producono molte diversificazioni di condizione personale, umana, religiosa, sessuale e - addirittura - politica, queste sì vere e proprie minoranze; e convinto, altresì che le regioni, la cooperazione transfrontaliera, il federalismo, l'autonomia e di tutta una lunga lista di opzioni, presentati come spazio operativo e momenti grazie ai quali l'identità può sopravvivere in attesa di potersi pienamente affermare attraverso l'applicazione del diritto alla autodeterminazione, siano sostanzialmente una fregatura. Purtroppo questa sottolineatura evidenzia che il dibattito riguarda singoli intellettuali e non più un movimento come il CIEMEN riuscì ad essere.

Un bilancio negativo per 25 anni di attività? Niente affatto. Siamo qui a scriverne e a parlarne, vuol dire che sussiste almeno una coscienza. Al CIEMEN il delicato compito di saper operare, quando opera in Italia, dandosi o un progetto che non sia di pura salvaguardia della dignità e della sopravvivenza della sua sigla, ma abbia la capacità di rimetterla concretamente in gioco.

SE POTESSI PARLARE AI FRIULANI ... ED ESSERE ASCOLTATO .: su :.

Non sono friulano e non credo vi interessi più di tanto stare ad ascoltare lontane dichiarazioni d'amore, anche se arrivano da chi, come me, ha trascorso anni e anni di militanza dalla parte delle nazioni senza Stato, trovando in Friuli qualcosa di più di una seconda patria. Devo dire che da sempre mi sorprendo del fatto che conosco le qualità del popolo friulano, ne ammiro l'orgoglio e l'onestà, eppur mi chiedo come sia possibile che questo popolo sia sempre al servizio di altri popoli e si sia sentito austo-ungarico prima e italiano poi, senza accorgersi che essere il popolo friulano doveva voler dire qualcosa di diverso. Tra l'altro doveva voler dire non andare a morire facendo le guerre di altri. Magari doveva voler dire non andare affatto a morire.

Sono valdostano, ma le mie origini familiari si perdono nel Veneto e, da parte di padre, nella parte montana del Veneto, quell'altipiano di Asiago dove vissero e si stanziarono i cimbri. La mia famiglia arriva da lì. Appartengo, quindi, per nascita e per adozione, alla grande famiglia dei cittadini dei popoli alpini e in tal senso, sentirmi vicino ai friulani ha già una sua spiegazione. Non ho mai trascurato, per questo, la dimensione alpina dei problemi e, culturalmente, ho fatto miei i valori espressi a Chivasso, a Desenzano, a Coumboscuro che difendono ed affermano la specificità dei popoli alpini.

A Desenzano, in particolare, e siamo nel 1947, insieme ai valdostani e ai sudtirolesi ci sono anche i friulani di D'Aronco, quelli che - di fatto - anticiparono la rivendicazione autonomista del Friuli e del Movimento Friuli. Dopo il terremoto in occasione del quale il centro internazionale che avevo attivato a Milano tentò di amplificare la voce del movimento delle tendopoli, diedi il mio piccolo apporto alla miglior conoscenza di questo popolo straodinario che è il popolo friulano.

Nel lavoro sindacale, in quello politico, in quello culturale tentai di tessere una rete di contatti e di rapporti con i friulani, proponendo nella mia Valle d'Aosta, eventi culturali legati al Friuli: uno scambio di corali, una mostra sul Pasolini friulano, il film di Padre Davide maria Turoldo "Gli ultimi", le iniziative teatrali e musicali del Premio Friul, l'attività di Radio Onde Furlane, i libri di Andrea Valcic, i fumetti di Sandri Di Suald, ecc. fino a spingere affinchè i friulani residenti in Valle d'Aosta si costituissero in Fogolar, cosa che fecero puntualmente. Affiancai Adrian Ceschia nel suo impegno con la LELINAMI e mi sentii enormemente lieto quando per dare una koiné alla lingua friulana, venne scelto di avvalersi di un professore catalano, amico del mio centro internazionale ...

Mille cose, passando per la condivisione del Progetto di far avere il Premio Nobel per la letteratura al poeta friulano Domeni Zannier , agli incontri con Pre Checco, al lavoro con gli sloveni e con gli slavi del Natisone, agli amori che si intrecciaro tra valdostani/e e friulani/e e che essendo legati all'insieme di queste attività, mi videro o coinvolto o testimone. Mentre scrivo, di getto, cerco di non dimenticare nulla del mia passato "friulano", ma mi basta ricordare il presente, per esser certo che se ho dimenticato di citare qualcosa non è certo perché non gli attribuisco importanza; in tempi recentissimi un mio romanzo d'amore che raconta la storia di un maturo uomo bianco ed una giovane africana, portata clandestinamente in Italia e costretta a prostituirsi, ha avuto un certo successo. Con mia sorpresa sono stato contattato da un gruppo teatrale friulano, il Teatro Incerto, che ha preso ispirazione da quel mio libro per portare in scena una pièce che si intitola "Isoke"...un successo che ha iniziato ad eser rappresentato in giro per l'Italia.

Amo, quindi, il Friuli, il mio Friuli, il vostro Friuli e non ho altra spiegazione che questo amore per prendere l'ardire di parlare ai friulani. Parlo ai friulani perché è in corso la discussione sulla riforma dello Statuto di Autonomia e perché ad esso è legato il futuro stesso del Friuli. E lo faccio come studioso delle cose internazionali e dei diritti delle cosiddette nazioni senza stato. Credo non si possa negare che il Friuli è una nazione senza stato e se affermo subito, chiaramente, che non credo ,necessariamente, al fatto che ogni nazione debba per forza avere uno stato, sarà chiaro a tutti che a me sta a cuore la vera identità del Friuli (... e della Valle d'Aosta, della Sardegna, ecc. ecc.) e poco mi preoccupo del resto.

Questa corrispondenza tra nazione e stato è un retaggio del risorgimento o del falso storico che portò alla nascita degli stati nazionali, i quali erano sì degli stati, si legittimavano sì con le argomentazioni del diritto identitario, ma non erano affatto unitari, anzi, si trattava sempre di stati plurinazionali che per eser nazionali non seppero far altro che comprimere le identità più deboli o meno numerose, trasformarle in minoranze, determinanrne - se possibile .- la scomparsa o, al più, stremarle in storici tentativi di ottenre qualche diritto in quanto, appunto, minoranze.

Il massimo della democrazia di cui gli stati nazionali si sono resi capaci, è stato promettere tutela alle minoranze e, in qualche caso, assicurare qualche tutela reale; assai poco se si pensa che uno stato legittimandosi come nazione, avrebbe dovuto affermare nel diritto che, davvero ogni nazione può e deve avere un proprio stato. Da federalista vorrei riuscire a superare la forma stato o, meglio la forma stato nazionale, per questo mi limito a chiedere per le nazioni sneza stato il diritto alla autodeterminazione, che non vuol dire darsi uno stato, ma scegliere il proprio assetto istituzionale che comprende anche la possibilità di darsi uno stato, ma non solo quella.

Credo, quindi, che lo stesso preambolo di un testo statutario dovrebbe contenere specifici riferimenti al diritto alla autodeterminazione, indicato, se non altro, come obiettivo non ultimo e non residuo, ma come principio ispiratore; uno Statuto che sia tale deve esser sritto nellpo spirito giusto e non partire da elementi di limitazione ulteriori rispetto alla limitazione, già di per se significativa, di scrivere una autonomia interna ad uno Stato, senza potersi "inventare" una forma di versa di affermazione del proprio diritto ad esisetre come popolo.

Tra i riferimenti giuridici del diritto sarà, quindi, bene non scrivere i vari riferimenti alle varie carte dei diritti dell'uomo, ecc. ecc., tutte scritte dalle maggioranze per affermare il proprio primato e per scrivere in che modo gli altri, e le minoranze in particolare, devono sottstare alle loro regole 2democratiche". I documenti di riferimento non possono essere che quelli scritti dai popoli stessi: per il Friuli penso che il riferimento alla Dichiarazione di Chivasso, sottoscritta nel 43 da rappresentanti valdostani e occitani non abbia valenza diretta; certamente, però, ha valenza diretta la Dichiarazione di Desenzano, sottoscritta nel '47, idealmente legata all'altra e, comunque, sottoscritta anche da Friuliani come il prof. D'Aronco, padre della autonomia friulana.

Penso che l'unico documento internazionale di riferimento sia la Dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli, scritta sulla spinta dell'attività del CIEMEN, un Centro internazionale che ha avuto amici e collaboratori in Friuli e che può vantare la simpatia di quel Xavier Lamuela, il linguista che ha attivamente e concretamente lavorato alla normalizzazione della lingua friulana. Inevitabilmente se il dirittto è molto più ampio di quanto il contesto statutario possa di per se riconsocere, le dichiarazioni di principio hanno doppio valore: hanno valore in se e per se, come premessa di una reale autonomia, ed un valore in prospettiva storica, legato alla suppositizone che diverse possano essere le soluzioni cui il Friuli ricorrerà in un futuro ancora tutto da disegnare.

Sarà allora opportuno che il testo dello Statuto sancisca il diritto dei friulani ad esser rappresentati nel Parlamento Europeo non in virtù di un normale conteggio numerico dei voti, ma costituendo una circoscrizione elettorale specifica, avulsa da quella delle macroregioni e di ogni altro artificio elettorale; i friulani devono entrare nel Parlamento Europeo, come rappresentnati del popolo friulano e non come parlamentare eletti in una circoscrizione articolata e composita, nella qusale, però, le identità si confondono. Sarà inoltre opportuno ed indispensabile che al Friuli sia riconsociuta libertà e diritto nella costruzione di rapporti di ogni tipo e natura (commerciali, culturali, ecc.) con la propria area culturale transfrontaliera di riferimento, cioè la realtà ladina, dando ugual titolarità di diritti e di rappresentatività alla comunità slovena e trovando gli opportuni spazi affinchè la complessa realtà slava non sia soffocata nel percorso di unifermizzazione slovena. Un'area ladina che comprenda anche il mondo romancio, costituisce un'area di cooperazione con un potenziale di sviluppo veramente straordinario.

Altra dimensione ottimale per l'affermazione dell'identità friulana è quella dell'arco alpino, essendo appunto l'intero arco alpino un'unica area con elementi di unità culturale e strutturale. Sostanzialmente l'autonomia non deve essere sancita solo nel rapporto tra Regione Friuli e Stato italiano. L'autonomia può e deve essere altro. Credo vada firmata, anzitutto, una sorta di Carta Friulana, una sorta di Costituzione che abbia valore solo per i friulano e non possa esser sogegtta ad approvazioni esterne, ma valga come patto interno al popolo friulano e sia il documento di base di tutti i rapproti che il Friuli sottoscrive con l'esterno. Sarà, quindi, necessario che il Friuli agisca con spirito sussidiario e federale sia con tutta la comunità ladina che con la comunità alpina.

Dopo sancirà i termini del suo rapporto con lo Stato che dovranno essere ispirati al principio federalista secondo il quale tutto ciò che il Friuli è in grado di affrontare da se, non dovrà esser sottoposto a vincoli e limiti da parte dello Stato, cui - di contro - saranno delegate le competenze nelle materie la cui soluzione non è possibile al solo livello locale. E dovrà restare la possibilità al Friuli di stare in Europa, di starci direttamente e non attraverso lo Stato. Si pone a questo punto, in modo inequivocabile, l'esigenza che queste proposte (ovviamente rialaborate, modifcate, integrate, ecc - insomma - una proposta friulana nuova ed orginale) siano portate avanti da una forza politica friulana forte e coerente.

Credo debba rinascere un nuovo Movimento Friuli, credo si debba far piazza pulita di movimenti e movimentini, credo si debba assumere la responsabilità politica di negare ai politici friulani l'alibi di potersi dire friulani militanto in partiti e poli stato-nazionale, credo si debbano imputare chiaramente alla lega e ai leghismi, precise responsabilità in ordine al ritardo con cui il Friuli sta assumendo in pieno la cosciente responsabilità di se stesso. Decisioni politiche pre il Friuli prse fuori dal Friuli, in dimensione italiana o in dimensione friulana, vanno contro il Friuli e la sua identità. Credo che qualunque popolo debba ormai considerare che determinati standard nella qualità delle prestazioni ad esempio scolastiche ed educative, non sono competenza di uno stato che le vuole uniformare per assicurare pari diritti a tutti i suoi cittadini; gli standar qualitativi sono relativi ai diritti fondamentali dell'uomo, quindi vanno assicurati da qualunque Stato, da qualunque regione, ecc. ecc.

Non esiste, quindi, non deve esistere il problema di uno Stato che vuol tenere la propria mano paternalistica su un dato territorio o su una data nazionalità con la scusa dell'interesse nazionale. Per interesse nazionale il Friuli ' diventato terra di servitù militari e di invasione militare; per interesse nazionale il Friuli fu terra dove si dovette e morire per la patria italiana. Ora mi sento di affermare con chiarezza una cosa che ho già urlato ai sardi: come è possibile che siate storicamente pronti a morire per una patria che non è la vosta e rispetto alla vostra fatichiate adirittura a sentirla come tale e, quindi, a porvi in sua difesa con la stessa disperata e assoluta devozione dimostrata versoun'altra patria?

Non è più epoca di confini? Bene, chi più del Friuli, che fu terra della cultura mitteleuropea, può capire e condividere questa affermazione? E come mai al posto di una cultura multinazionale come quella mitteleuropea si è voluta imporre la cultura nazionale di un'Italia che si è dimostrata spesso estranea e nemica? E perché se non esistono più i confini si continuano a proporre il Friuli il ruolo di cerniera tra i popoli e i progetti di cooperazione transfrontaliera...ma quale frontiera deve esere superata?

Certo anche il Friuli deve far conto con problemi complessi: ma la presenza slovena e slava, ad esempio, è una delle sue ricchezze, non uno dei suoi problemi; il fatto di dover avere una scuola capace non di assicurare un falso bilinguismo (italiano-friulano, italiano-sloveno) deve diventare un impegno per avere una scuola multilingue, nella quale gli studenti - partendo dalal loro lingua (che non può che essere una ed una sola), fanno propri altri codici linguistici: il Friuli, quindi, deve essere terra in cui la scuola funziona almeno in quattro lingue, oltre alla lingua italiana, comprendendo anche la lingua inglese, ormai strumento indispensabile ed utile.

Già l'inglese, maledetta lingua della colonizazione, lingua dell'imperialismo, nuova lingua che - come il latino un tempo, si sta affermando ovunque. Consideriamola nella sua atuale condizione di crisi: al pari del latino si diffonde e si differnezia già; sì che fra non molto avremo un inglese tecnico di comunicazione ed una serie di lingue neo-inglesi; fra due o trecento anni forse le difenderemo per il loro radicamento e la loro specificità, così come oggi difendiamo le lingue neolatine... Una lingua finisce col morire nel momento stesso in cui crede di potersi sovrapporre ad un'altra; anche per questa considerazione noi dobbiamo difendere con magior forza la nostra lingua, il Friulano in Friuli, il sardo in sardegna, ec. .. poiché le nostre lingue non saranno mai lingue che imporremo nella comunicazione o nei comemrci o nella politica, ad altri, mentre altri ci impongono la loro; nella scuola useranno e ci insegneranno sempre lingue altre, ma se non saremo noi ad usare edinsegnare la nostra nessuno lo farà al nostro posto.

Lo Statuto del Friuli, quindi, dovrà affermare chiaramente che nessun popolo nasce bilungue, quindi il Friuli affermerà che la lingua del Friuli è il friulano (e dovrà saper formulare adeguatamente l'esistenza e l'importanza dello sloveno e delle parlate slave...), andando oltre qualsiasi falso bilinguismo e qualsiasi affermazione del diritto della lingua friulano che non è fatto residuo, secondario o diritto che discende da altri, ma espressione diretta del diritto e dell'identità dei friulani. Questo non vorrrà dire chiusura di fornte alla relatà del ruolo e della importanza della lingua italia e della lingua inglese, ma vorrà semplicemente dire che l'omologazione non può pasare. Si badi nessuno, né l'Europa, né l'Italia, affermeranno mai l'identità del Friuli, che per loro resterà sempre e soltanto una regione più o meno speciale. Tocca ai friulani farlo.

SE POTESSI PARLARE AI SARDI ... ED ESSERE ASCOLTATO .: su :.

Lettera aperta pubblicata dalla rivista Sardinna in occasione delle elezioni regionali del 2004
Un giorno, forse, riuscirò a staccarmi da questa Valle d'Aosta dove pur son nato, ma non tornerò nelle alte vallate venete dove ancora si parla il cimbro e da dove partirono i miei migranti avi paterni; non andrò neppure a cercare quel parente britannico, scrittore e viaggiatore che nell'800 visitò Verona e fece un figlio con una dama del posto, mia lontana prozia. Andrò in Sardegna. Tornerò in Sardegna dove si sono svolti momenti importanti del mio lavoro politico e culturale a fianco delle Nazioni senza Stato. E dove, soprattutto, vive mio figlio minore, un bimbo ancora, che parla sardo e mi pone di fronte - come dico scherzosamente - non ad un problema di lingua materna, ma ad un problema di lingua filiale: capisco il sardo, ma non lo conosco ancora quanto basta per poterlo parlare con lui.

E' sufficiente tutto ciò a render credibile il mio proposito di parlare ai sardi? Credo di sì: ho dire cose con il cuore e non ho alcun interesse di parte. Per quel che ho conosciuto della Sardegna in passato - e non è poco - oggi faccio molta fatica a decifrare come e perchè alcuni personaggi abbiano cambiato collocazione politica, perchè amici di cui conoscevo la comune militanza, oggi si ritrovino su fronti opposti; e, soprattutto, come sia possibile che esponenti della partitocrazia italiana di ieri, oggi possano presentarsi e proporsi come sardisti, pur mantenendo un legame a filo doppio, con una casa madre romana, giocando su due tavoli, Roma e Sardegna, un gioco politico nel quale la Sardegna viene sempre dopo.

Vedete, miei cari lettori sardi, anche nella mia Valle d'Aosta sono successe e succedono cose di questo genere ed io ho amici tra quanti - anche con onestà - credono di poter fare questo stesso gioco e militano ad Aosta in schieramenti che definiscono autonomisti o nazionalitari, anche se tutta la loro storia dice che essi non sono davvero capaci di ragionare coerentemente in questo senso, poiché sempre e comunque guardano a Roma, dove si prendono le decisioni e dove, magari, hanno giurato fedeltà all'unità dello Stato. Il problema, allora, non è la loro qualità umana (siamo tutti uomini e donne con difetti e virtù), ma il senso del loro agire politico e l'effetto di questo sulla nostra vita come collettività.

Tutti costoro sono sicuramente valdostani e sono sicuramente sardi, e ci mancherebbe che - adesso - io volessi esser più sardo di costoro, ma ... Credo che una lezione politica sia stata chiaramente recepita in Valle d'Aosta, dove l'UV ha 18 seggi su 35 in Consiglio regionale e dove forse, presto o tardi, si spaccherà, ma dove - comunque - resterà sempre chiaro che le divisioni interne al movimento valdostano, favoriscono sempre e comunque quelli che non voglio bene alla Valle d'Aosta e quelli che antepongono al bene della Valle d'Aosta il bene dell'Italia e gli interessi romani. Leggete queste righe sostituendo i valdostani con i sardi e capirete al volo perchè io mi permetta di scrivere ai sardi!

A me interessano ben poco le ragioni di tante diversità e contrapposizioni in Sardegna e, anzi, sono convinto che nessuno ha ragione e che tutti hanno torto, perchè non hanno capito questa lezione fondamentale: l'unità è sempre indispensabile. E allora che senso ha fare appello ad una diversa concezione dello Stato e dell'Europa, rivendicando per i valdostani e per i sardi gli spazi di rappresentatività e diritto dovuti ad una concezione legata alla unità nella diversità, se in Sardegna questa stessa diversità - e se in Valle d'Aosta ... - comporta soltanto divisioni. Se c'è qualcuno che osa credere in Sardegna di essere lui nel giusto e - di conseguenza - rilegge a suo modo la storia delle divisioni e scrive le proposte del futuro contro gli altri, ebbene costui sappia - sappiate - che vista da fuori questa è una situazione assurda ed inaccettabile.

Certo capisco che mentre qualcuno sogna la rivoluzione, altri vogliono solo più potere per governare la Sardegna con piglio manageriale. So, in buona sostanza, che se le vecchie categorie destra e sinistra ancora hanno un senso, lo hanno anche nel sardismo e nel movimento valdostano, come ce l'hanno ovunque. So anche, però, che nei paesi baschi il partito moderato e quello progressista, con l'appoggio esterno di quello rivoluzionario, stanno mettendo in crisi il governo centrale di Madrid e lo fanno ben sapendo che se battaglia sarà vinta, ci sarà da scontrarsi e da confrontarsi tra baschi. su come governare il Paese Basco Libero; ma a Guernika i baschi morivano sotto le bombe e le bombe non si chiedevano quali sogni e quali idee avessero in testa i baschi che morivano. Vorrei l'unità dei sardisti, ma - in tutta sincerità - mi pare sia difficile che questa possa essere assicurata da coloro che ancora vivono rancori così vecchi da non poterne neppure più ricordare le esatte ragioni, per poter davvero superare le ragioni delle divisioni, perchè - diciamocelo chiaro - anche in Sardegna, come in Valle d'Aosta e come ovunque - le divisioni nascono prima di tutto per interesse di parte e solo dopo vengono date loro pennellate di idealità per renderle più credibili.

Non mi piacciono i vecchi litigiosi, quindi, e non mi piacciono neppure i nuovi salvatori della patria, quelli che, in tempi diversi, hanno affermato di esser disposti a scendere in campo, sì leggete bene a scendere in campo, esattamente come Berlusconi. Tutti sappiamo benissimo che quando ci si propone di scendere in campo sostanzialmente si vuol dire che ci si considera superiori e migliori; scende chi si trova in alto e visto che in basso nessuno sa combinare un gran che, giunge ad affermare adesso arrivo io. Ma che ne è della politica come servizio, della militanza come sacrificio in nome e per conto della propria Nazione. E come è possibile che il richiamo dello Stato sia sempre così forte in Sardegna, come in Valle d'Aosta e altrove, da poter esercitare un fascino tale per cui sardi e valdostani, e altri nazionalitari, son morti per una patria che non era la loro, sono morti da eroi, ma non sono capaci neppure solo di pensare che sia possibile fare altrettanto per la propria.

Beninteso è chiaro che non è necessario davvero morire, ma basterebbe vivere da sardi per la Sardegna e da valdostani per la Valle d'Aosta. Come è possibile che tanti sardi e tanti valdostani, friulani, ecc. si siano ritrovati a partecipare al governo di uno Stato che era lo Stato di quelli che negavano la loro identità, mettendo la loro intelligenza e le loro capacità al servizio di un popolo che non era il loro, esercitando - poi - potere e capacità di influenza economica acquisiti in quella dimensione, contro gli interessi del proprio popolo. Non me lo spiego e vado a rileggere la situazione sarda di oggi ritrovando uomini della partitocrazia italiana a rivendicare il proprio impegno sardista e nazionalitario con sigle nuove, parole nuove, ma contatti, amicizie e presumibilmente intenti che non sono diversi da quelli che in passato spiegarono la loro militanza in partiti stato-nazionali.

Così in Valle d'Aosta per dirla chiara, dopo che la crisi dei partiti ha spazzato via la DC, il PCI, il PSI, il PSDI, il PRI, il PLI, il MSI e altri, gli uomini che militavano in questi partiti si sono accorti che l'elettorato valdostano premiava sempre di più gli autonomisti storici così si sono improvvisati autonomisti anche loro. Il meglio che si riesce a fare quando si fanno queste operazioni è confondere l'autonomismo con ciò che loro già conoscevano come elemento di cultura politica nello loro vecchia militanza: la rivendicazione di forme più o meno ampie di decentramento di potere che, comunque, restano sempre e comunque al centro... tutte cose che non sono certo l'autonomismo. Molte di queste persone in Valle d'Aosta hanno fatto un percorso di umiltà politica, scegliendo non una copia dell'autonomismo, ma lo stesso autonomismo, scegliendo di militare nell'UV, emigrando con il proprio bagaglio di esperienze e di idee in un movimento che li accolti in un processo di reciproco arricchimento. Ma per quanti da oltre dieci anni ormai, continuano a riciclarsi in sempre nuove sigle politiche pseudo-autonomiste, litigando poi facendo pace, cambiando nome, poi trovandone un altro ancora, non c'è possibilità di ... come si dice...rifarsi una verginità. A credere nella sincerità del loro autonomismo ci possono essere solo quelli che ignorano la storia del passato.

Il problema non è rivolto, ovviamente, agli elettori i quali credono in qualcuno o in una sigla ed è il principio stesso della democrazia a permettere - anzi a richiedere loro - di cambiare liberamente idea, opinione e voto; il problema è rivolto ai politici, a quelli che assumono responsabilità e visibilità. A costoro quando mutano idea è da richiedere non una autocritica - mica siamo in un regime! - ma un ripensamento, un documentato processo di sviluppo del pensiero e della idealità; non mi accontento in Sardegna di un documento politico o elettorale dell'ultimo minuto nel quale ci si schiera dalla parte del sardismo senza avere alcuna radice nella cultura del sardismo, perchè qualche radice bisogna pur averla per andare da qualche parte e in politica questo è ancor più valido se non altro per impedire a qualcuno di farsi troppa strada grazie al trasformismo. In Valle d'Aosta negli anni 80 una forza politica che aveva radici non tanto in una ideologia, ma nel consenso che le veniva attribuito automaticamente dall'immigrazione meridionale, coniò l'idea di dar vita ad una nuova etnia, frutto del mescolamento quasi genetico tra valdostani ed immigrati; riuscì, in questo modo a rendere gli immigrati orgogliosi della loro identità, ritardando - però - un positivo e benefico processo di integrazione che doveva essere e lo fu in seguito - questo si - il risultato di un naturale mescolamento di idee e provenienze, attuato attraverso una osmosi di natura culturale e sociale.

L'integrazione fu il lavoro culturale cui si applicarono energie ed operatori che la sostennero non come strumento di successo elettorale e politico di una parte, ma come crescita dell'intera comunità; un processo che continua e che ha riguardato tutte le immigrazioni prodottesi in Valle d'Aosta, quella veneta, quella meridionale e oggi quella extracomunitaria. In Sardegna il problema non è l'immigrazione di masse di persone provenienti da altri paesi, ma l'immigrazione di interessi politici esterni al cui radicamento in Sardegna hanno contribuito troppi sardi, ancora convinti che le ragioni da far prevalere e la cultura da affermare non fossero quelle sarde, ma quelle ... italiane.

Non ho nulla contro l'Italia e contro la cultura italiana, anzi uso la lingua italiana più di quanto usi il francese della Valle d'Aosta. Non ho neppure paura della lingua inglese che, anzi, esattamente come avvenne per il latino, si sta già creolizzando e ci sono nel mondo tante diverse lingue inglesi che, nell'arco di 20 o 30 anni, daranno vita ad altrettante nuove lingue neo-inglesi, come tutte le nostre lingue sono definite neo-latine... la storia si ripete. Non ho paura di nulla.

Ma so che un fatto sono gli eventi della storia e la loro incidenza su tutto il mondo nella dimensione macro ed in quella micro, un altro fatto è la scelta di cavalcare i fenomeni negativi che si ripercuotono sul nostro popolo, neppure tentando di affermarne la dignità, anzi sostenendo - quasi vergognandosene - la condizione minoritaria in tutti i sensi, compreso quello del suo valore, decidendo di stare dalla parte dei più, delle maggioranze. Chi ha fatto questi errori e questi percorso, deve mostrarsi capace di una rilettura della propria esperienza quando e se vuol fare passi indietro. Gli autonomismi, i federalisti, gli indipendentisti dell'ultima ora non possono certo insegnare qualcosa a quanti hanno sempre combattuto per quelle idee, dovendo scendere a compromessi e subendo sconfitte dolorose proprio da quelli che oggi vogliono appropriarsi, dopo di averlo fatto con il passato, anche del futuro. Vorrei dire ai sardi e ai sardisti di avere fiducia nelle vecchie coerenti bandiere del sardismo, di pretendere che le nuove bandiere si dimostrino umili e non vogliano vantare primogeniture o diritti, e che è assolutamente necessario comporre tensioni e motivazioni di divisione interna legate ad interessi e a antipatie.

Visto da fuori il sardismo non può tollerare diatribe e litigi, non può esser diviso in una isola al cui interno oggi tutti, come in Valle d'Aosta, tutti si dicono autonomisti. Se così fosse perchè così poca autonomia, perchè così tanti problemi, perchè così tanto Stato? Non esistono modelli in politica e nella storia; neppure quello valdostano è un modello; ma è una verità quella che oggi in Valle d'Aosta perfino i DS si chiamano Gauche Valdôtaine, gli ex DC-PSI-PRI-PLI-PSDI si chiamano Stella Alpina, gli ambientalisti si definiscono Arcobaleno ed hanno al proprio interno una componente nazionalitaria e a rappresentare lo Stato è rimasta Forza Italia, non a caso impegnata ad immaginare che grandi opere siano realizzate in quella che già chiama la Regione Piemonte-Valle d'Aosta, non a caso d'accordo con i progetti della Fondazione Agnelli e, in strano parallelo da Bossi, di creare una macroregione che comprenda Piemonte, Lombardia, Liguria e Valle d'Aosta, non a caso impegnata a cercare di definire tutto ciò come ... scelta autonomistica!

L'isola: difficile fare discorsi di questo genere rispetto ad una isola. E' sufficiente lasciarla a se stessa ...isolata, tagliata fuori, ancora condizionata da progetti di sviluppo esterni, ma attuati sul territorio e con le risorse dell'isola stessa, a beneficio di altri. Già, ma perchè dire queste cose ai sardi? Semplicemente perchè le vedo, le vedono tutti e tutti dicono, "ma i sardi perchè non si fanno sentire, perchè si lasciano fare tutto?". Già. Perchè?

SE POTESSI PARLARE AGLI SLAVI DEL NATISONE ... ED ESSERE ASCOLTATO .: su :.

LA LINGUA COME DNA DEI POPOLI
Appunti per una conferenza in terra slava

Nelle Valli del Natisone della Regione Friuli-Venezia Giulia, vive una popolazione slava la cui identità è talmente particolare e specifica da non poter esser considerata semplicisticamente "slovena"; anzi, come spesso avviene in situazioni analoghe, il presumere che una lingua culturale forte, di riferimento apparentemente naturale per una lingua/parlata locale, possa rafforzare quest'ultima, può rivelarsi errato.

Realtà inquietante questa, poiché mentre la standardizzazione appare come un processo inevitabile ed auspicabile per dare ad ogni lingua, la dignità e lo status - appunto - di lingua, nel rapporto tra lingua e parlata può anche avvenire che la prima soffochi l'altra e sia addirittura percepita come lingua imposta o estranea. Nella situazione del rapporto tra francoprovenzale e francese in Valle d'Aosta; nel rapporto tra parlate germaniche (walser, mochene, cimbre) e lingua tedesca; nel raffronto tra parlate slave e lingua slovena nel Natisone, questa situazione si produce concretamente.

Perchè è così difficile tutelare le parlate/lingue? Semplicemente perchè il quadro politico, culturale e giuridico nel quale questi problemi si pongono, non sono affatto rispondenti ai bisogni delle comunità locali e perchè le stesse normative di tutela sono riferite a situazioni per certi versi analoghe a quella dello Stato: senza ammetterlo apertamente si presume - cioè - che meritino tutela le lingue parlate da comunità nazionalmente diverse da quella italiana e si pretende che queste abbiano tutte le caratteristiche di essere una lingua nazionale, uniformata, standardizzata.

Se il rapporto fosse invertito, le lingue, ma anche le istituzioni, nascerebbero dal basso e si armonizzerebbe una situazione di unità nella diversità che, invece, viene negata, poiché tutto discende da un centro che, quando non è lontano come lo è lo Stato, è comunque legato ai limiti posti dallo stesso. Sarebbe opportuno, quindi, far riferimento al vero quadro linguistico-culturale ed individuare per gli slavi, per i valdostani, per i germanici, specificità che non possono essere tutelate affermando la loro parentela linguista con lo sloveno, con il francese, con il tedesco che - tuttavia - rappresentano lingue tanto forti da esser spesso utili alle suddette comunità per contrapporsi allo strapotere della cultura e della lingua italiana.

Per indagare e meglio conoscere questa realtà, un Forum per la Slavia ha realizzato a Cividale del Friuli, il 10 novembre scorso, un seminario al quale ho partecipato tentando di portare elementi nuovi di dialogo, confronto e proposta. Il testo che segue è la trascrizione dell'intervento, appena ritoccata per dare continuità linguistica al fluire di parole, perfettamente comprensibili all'uditore che ne ha percepito i toni e le sottolineature, ma non al lettore che si trovasse di fronte ad un testo appiattito da una forma scritta per la quale non era stato concepito.

Qualche tempo fa sono incappato nella lettura di due articoli di cui ho smarrito, purtroppo, la copia; il primo era la dissertazione di un esperto del settimanale "Famiglia Cristiana" riguardo a quale fosse la lingua di Gesù; detto dell'importanza a quei tempi del latino come lingua dell'impero romano, e del greco come lingua di cultura e come lingua franca ("un po' come l'inglese dei giorni nostri", commentava il redattore), la conclusione portava a rispondere che la lingua di Gesù era l'aramaico, nella versione di quei tempi e di quella zona, una lingua di cui oggi non consociamo praticamente nulla.

Il secondo articolo dietro ad intenti scientifici, mi parve nascondere qualcosa di fantascientifico: il redattore osservava che la parola, come qualsiasi suono, è un insieme di onde sonore che si diffondono...nell'infinito; già, ma dove vanno a finire le onde sonore, le parole, i suoni dell'uomo? Per assurdo l'articolo ipotizzava la possibilità di recuperare i suoni dispersi, ma non scomparsi, e - magari - di poter riascoltare la voce di Gesù, ecc. ecc.

Vi ho proposto due "curiosità", come introduzione di questo nostro incontro, legate ad una figura importante per la nostra cultura, giusto per poter dire che anche la lingua di Gesù è morta. Quindi il destino delle lingue non è necessariamente quello di vivere, neppure quando sono così grandi ed importanti da essere portatrici di qualcosa che non ha uguali nella storia dell'umanità, come l'insegnamento di Gesù. Oggi sono molto preoccupato per il futuro della lingua inglese... si sta affermando in tutto il mondo a rimorchio di un imperialismo economico ed a traino di una globalizzazione culturale, ma già presenta segni di una mortale creolizzazione. Insieme ad un sociologo e ad un linguista di prestigio, De La Pierre e Canciani, constato che fra poco esisteranno nel mondo molte lingue inglesi o neo-inglesi, come un tempo esistettero le lingue indeoeuropee e neo-indoeuropeee, poi le lingue latine e neo-latine.

Si innescherà, ben presto, un fenomeno inarrestabile di evoluzione linguistica: la diversificazione di queste lingue neo-inglesi, al punto che per capirsi, le popolazioni parlanti queste lingue avranno bisogno dell'interprete ... come succede oggi con le nostre lingue neo-latine. Ovviamente esagero, ma ... Certo è che mentre muoiono lingue come quella degli Inuit, che aveva molti termini per definire la neve, si afferma una lingua che ne ha una sola, si afferma una lingua che è più povera delle altre perchè non ha né una storia, né una tradizione, né un territorio da rappresentare. E' la lingua dei nuovi dominatori, barbari in doppio petto, integralisti travestiti da difensori dei diritti dell'uomo, assassini con una stella da sceriffo che li esalta come difensori della giustizia, ecc. ecc. suicidi della cultura poiché la lingua inglese originaria ha tutt'altra dignità e tutt'altro spessore di quelli che essi rappresentano.

Questo è, comunque, più o meno a lungo termine, il destino della lingua inglese...e poiché i fenomeni di ogni tipo si producono ai tempi nostri con una eccezionale accelerazione rispetto al passato, non dovremo aspettare dei secoli perchè questa accelerazione abbia effetto. Torniamo a noi, alla nostra lingua, alle nostre parlate.

Io sono tra quanti ritengono che l'origine dell'umanità sia una sola, tra quanti prendono atto di ciò che la scienza - più che la religione - ci dice in tal senso e, cioè, che l'umanità, con i primi esseri umani coscienti, appare in Africa da dove prende avvio una inarrestabile migrazione che ha reso possibile il popolamento del mondo intero. Oggi questa migrazione ancora si produce, ma ha assunto una dimensione ed una accelerazione che sembrano inarrestabili.

Credo, di conseguenza, ci sia stata anche una lingua prima, o ci siano state alcune lingue originarie, molto più importanti di quanto sia oggi il mio fp o il vostro dialetto, molto più importante di quanto sia - oggi - la stessa lingua inglese. Non c'è traccia di tutto ciò nelle lingue conosciute e nelle lingue parlate, ma c'è una traccia indelebile - di natura psicologica - in quanti, partendo da questo assunto, affermano i diritti delle cosiddette minoranze, dei popoli, delle nazioni senza stato, con una prospettiva disincantata, ancora coltivando utopie e sogni, pur restando con i piedi per terra.

Noi non abbiamo perso di vista la relatività della importanza di ciò che ci sta a cuore: nel mondo fame, guerre, malattie sono la prova di un disastro umanitario di fronte al quale la morte del patois del mio villaggio valdostano, dove vivono d'estate 100 persone e d'inverno 22, è poca ed irrilevante cosa. Per questa ragione le nostre ragioni sono inserite in una contesto diverso, devono essere inserite in un contesto diverso da quello della semplice rivendicazione culturale. Sviluppando le mie argomentazioni, vi dirò anche qualcosa a proposito del federalismo, per evidenziare come dinamiche linguistiche possano/debbano trasformarsi in dinamiche politiche; come la forma dello Stato sia da superare, stravolgendo l'organizzazione del mondo, i suoi falsi equilibri e le sue logiche di dominio e di potere.

Il valore che noi diamo alle nostre lingue è il valore che diamo all'uomo ed alla comunità nella quale egli si realizza. Solo su questi principi si costruisce un mondo di pace e di solidarietà, di equilibrio e di rispetto degli altri. Il contrario di quanto è avvenuto nella storia ed ancora avviene, facendo delle identità differenziate, alibi per conflittualità linguistiche, culturali, nazionali, etniche, religiose, economiche, ecc. sempre innescate per poter sfruttare le risorse del territorio nel quale queste diversità sono insediate, mai perchè le diversità producessero automaticamente conflitti. Quando noi affermiamo i diritti della nostra lingua, non lo facciamo perchè la consideriamo migliore delle altre, ma solo perchè è la nostra, non ne possediamo altre, è diversa dalle altre, come ogni uomo è diverso dagli altri. Dobbiamo difendere questa nostra diversità perchè in essa sopravvivono segni antichi del passato, sono la prova di una continuità, nel bene e nel male.

In VdA il francoprovenzale, lingua che sta tra la lingua d'oc e la lingua d'oil, porta segni dell'antica parlata celto-ligure e - addirittura - delle precedenti parlate della valle. La nostra lingua è una sorta di DNA del nostro popolo, l'unico DNA che abbia un senso sussista e sia ricercato, poiché quello genetico ci porterebbe inevitabilmente a concludere che tutti i nostri popoli sono il risultato di qualche migrazione. Per alcuni le tracce genetiche possono essere più lontane e la chiusura ambientale può aver preservato una certa unità etnica: si dice che i baschi siano identificabili proprio in virtù di una loro unità genetica, ma la loro battaglia politica e la difesa della loro lingua e dei loro diritti, fanno giustamente riferimento a tutt'altro, lasciando che l'aspetto genetico sia soltanto un segno atavico di tempi nei quali il mondo era assolutamente diverso da quello nel quale oggi tutti viviamo.

Il francese che dovrebbe essere la lingua standardizzata dei valdostani, non porta nessuno di quei segni riconoscibili nel francoprovenzale. Noi valdostani ci troviamo nella situazione singolare di considerare come nostra una lingua, il f., che non è realmente nostra in quanto è una lingua che si è affermata e diffusa per la mancanza di una standardizzazione della vera parlata valdostana, il cui carattere montano ed agricolo le ha impedito di superare un gap culturale e letterario di cui ha sempre sofferto. E' come se i sardi parlassero spagnolo o considerassero lo spagnolo come la loro lingua; avrebbe potuto esserlo, più dell'italiano. Il fatto è che in Sardegna c'è il sardo e in Valle d'Aosta c'è il francoprovenzale nella cui caratteristiche è insita la traccia di tutta la storia, anche delle dominazioni subite, ovviamente.

Certo il francoprovenzale è più latino di quanto fosse celtico un tempo e questo succede perchè fallì il tentativo dei Salassi (valdostani celtici) di resistere ai romani. Oggi può fallire la resistenza all'italiano, può fallire la resistenza all'inglese, ma se non si resiste si corre il rischio di perdere una battaglia non ancora del tutto perduta e si perde la possibilità di lasciare un segno, una eredità linguistica, una continuità della lingua. Continuità possibile se crediamo che perfino la lingua inglese non ha futuro. A che serve la lingua? Io credo che se consideriamo la lingua qualcosa di riferito solo a noi stessi ed alla nostra comunità, compiacendoci di preservarla quanto più possibile uguale a se stessa, noi stessi la condanniamo a morire.

Mi viene in mente uno studio sulla lingua francese, una lingua forte che resiste addirittura all'imperialismo della lingua inglese: su un totale di 4200 voci di uso corrente (tralasciando, quindi, le parole troppo arcaiche, troppo regionali o troppo specialistiche), 1054 sono anglicismi (25%), 707 italianismi (13%), mentre alta è la percentuale dell'influenza di altre lingue: arabismi (5,1%), germanismi (4%) ispanismi (3,7%)... e - lo ripeto - stiamo parlando di una lingua di Stato, diffusa in tutto il mondo. Le lingue devono essere dinamiche: Marco Polo fece del veneto una lingua importante per i commerci perfino con la Cina. E durante la seconda guerra mondiale i tedeschi non riuscirono a decriptare i messaggi segreti degli alleati solo quando questi si decisero ad utilizzare le lingue dei nativi pellerossa. Vi propongo - ovviamente- solo esempi di un certo effetto immediato per dire le immense ed inattese possibilità di uso delle lingue.

Quando la lingua è solo dialetto? Divisione sottile e per certi versi inutile. Basta avere uno Stato che lo scelga ufficialmente e un dialetto diventa lingua? O basta una rivendicazione politica ed un dialetto diventa lingua minoritaria alla quale applicare le pur riduttive tutele possibili attraverso gli strumenti della democrazia? O bastano una forte letteratura e un dialetto diventa lingua, come è avvenuto per il toscano in Italia? Vedremo, poco a poco, che nulla di tutto ciò è vero. Fermiamoci ad una definizione di carattere generale: la lingua ha determinate caratteristiche e determinate normative, il dialetto, mentre in parte ha contribuito alla costituzione di quella lingua, ne resta espressione correlata e - in qualche modo secondaria - per effetto di una sua mancata standardizzazione e, quindi, della assenza di strumenti ufficiali per utilizzarla ed insegnarla, lasciandola, quindi all'uso orale, espressione di una tradizione e del passato, priva di una dinamica o - meglio - espressione di una dinamica che si è fermata nel tempo ad un dato periodo.

In Valle d'Aosta basterebbe una standardizzazione del francoprovenzale a farne una lingua? La complessità del problema valdostano evidenzia che la risposta non è semplice. In Valle d'Aosta il f diventa lingua ufficiale nel 1536, addirittura prima che in Francia, soppiantando il latino, perchè il f. era "la lingua più comune e diffusa, tra quelle in uso". Il f. di allora non era certo quello letterario dei secoli seguenti, era più vicino alle parlate in uso tra la popolazione, era davvero una lingua che collegava le diverse parlate di una Valle d'Aosta geograficamente aspra, nella quale da vallata a vallata poteva essere difficile comprendersi.

Il f. si è poi evoluto come lingua atta a rappresentare problemi ed identità diversi da quelli valdostani e mentre il f. si evolveva, la parlata francoprovenzale restava ferma o faceva passi indietro ...così le due lingue si allontanarono. I linguisti dell'800 ritrovarono diversità sostanziali e strutturali nelle due lingue, classificandole come lingue diverse, neo-latine e gallo-romanze, ma diverse. La lingua francoprovenzale era presente, con le sue parlate, nell'area storica francoprovenzale, burgunda e savoiarda, fino a quando, con la scomparsa della Savoia e la nascita dell'Italia, questa unità venne meno e per i valdostani iniziò il processo di italianizzazione. La peste del 600 era stata meno devastante ... la popolazione fu decimata, ma nuove ondate immigratorie si integrarono anche dal punto di vista linguistico; l'Italia, invece, forzò i processi di disidentificazione, negando che qualsiasi altra lingua, oltre all'italiano, avesse diritto di vivere in VdA.

Impedì, così, si producesse quella dinamica storica e culturale che sarebbe stata la presa di coscienza di un problema di classe: in VdA borghesi, notabili, nobili e clero - francofoni - dominarono una popolazione di montanari, allevatori e agricoltori - francoprovenzali. La loro sudditanza poggiava su quella culturale; non c'era analfabetismo, ma scuola ed istruzione erano impartite in f., mentre la lingua popolare veniva definita patois, lingua delle pattes, lingua dei piedi. Questa presunta inferiorità, accentuata dalla politica italiana che insinuò l'esistenza tra i valdostani di problemi sociali e sanitari legati alla consanguineità (il cretinismo) o alla scarsa alimentazione (il gozzo) fu così palese che mentre i valdostani cominciarono a vergognarsi della loro identità e della loro lingua francoprovenzale, il fascismo si preoccupò di negare i diritti della lingua f., ma si disinteresso del francoprovenzale.

Il popolo valdostano (o, meglio l'élite culturale ed economica che lo guidava) accettò o subì senza opporvisi subito, il fascismo e quando si oppose, contrapponendosi complessivamente all'Italia, fece della lingua f. il segno forte della propria diversità, trovando la Francia di De Gaulle, una Francia da sempre ostile ed estranea alla Valle d'Aosta, pronta ad annettere la VdA. Il francoprovenzale fu considerato un dialetto francese, quindi tutti in Valle d'Aosta erano da considerare francofoni. In tempi a noi vicini, la VdA vive il suo 68, rilegge la propria storia e scopre che i detentori del potere locale e statale, hanno tenuto sottoposto un piccolo popolo ricco di acqua e di ferro, posto in situazione geografica strategica per gli interessi dei tempi. In questo 68 i valdostani smettono di vergognarsi del loro francoprovenzale. e scoprono tutto ciò che del francoprovenzale è stato negato nel passato, compresa una qualche letteratura. Il f. in Valle d'Aosta non si è evoluto grazie al francoprovenzale e viceversa, entrambe si sono snaturate: il francese scomparendo pian piano, pur essendo lingua ufficiale di pari diritto dell'italiano in una regione autonoma nata dalla Resistenza al fascismo; il francoprovenzale. italianizzandosi.

Alla forza della lingua italiana sarebbe stato impossibile contrapporre il francoprovenzale., mentre il f., lingua con un ruolo storico, lingua ufficiale e di cultura, sembrò essere il giusto contraltare. Del resto se anche il f. non è la vera lingua della Valle d'Aosta, non è certo una lingua straniera come l'italiano. F. e francoprovenzale:, inoltre, sono e restano lingue sorelle. Tutto ciò ha reso possibile quel che è successo in Valle d'Aosta dove, oggi, solo l'1% della popolazione ha come prima lingua il francese (meno della percentuale degli arabofoni), il 60% ha come prima lingua una variante francoprovenzale, tutti hanno una discreta conoscenza del francese come lingua scolastica, ma tutti conoscono e parlano italiano, anche gli africani immigrati da paesi cosiddetti francofoni. In Valle d'Aosta, 120 mila abitanti in tutto, ci sono mille problemi linguistici; sono italianizzati perfino i circa mille europei (francesi, albanesi, inglesi, rumeni, ecc.) che vi si sono installati ed i mille abitanti di una zona dove anticamente si parlavano dialetti germanici. E in VdA abbiamo anche 4 o 5 mila persone che usano abitualmente il piemontese. Ultimo dato, una inchiesta poco nota dimostra che la lingua inglese è più diffusa del f. come prima e seconda lingua di comunicazione.

Il f. vive soprattutto di vita ufficiale ed istituzionale, visto che tutta l'attività amministrativa della Regione è in doppia lingua, italiano e francese, e per accedere al pubblico impiego bisogna superare prove di conoscenza della lingua francese. I dati che vi ho fornito dimostrano che il francoprovenzale. ancora vive ed ancora vive l'implicita ricchezza di una sua diversificazione da zona a zona. Negli ultimi dieci anni, tuttavia, ha innegabilmente perso forza e questo è un pessimo segnale. Quando ci si pone il problema se standardizzare oppure no una lingua e si afferma che non è necessario se la lingua continua a sopravvivere oralmente, bisogna ricordare che senza standardizzazione la lingua non può essere usata in tutte quelle sedi che la rendono davvero viva: il culto, la giustizia, la scuola, l'organizzazione sociale, i media, senza i quali, inevitabilmente, si affermano lingue ufficiali e standardizzate, oltre che più diffuse.

Non facciamoci illusioni quando la nostra lingua, nella variante che ci sta a cuore, trova qualche spazio in chiesa, nei giornali, a scuola ... è tutto illusorio ed estremamente occasionale: anche io nelle scuole elementari ho svolto una lunga ricerca sui pellerossa, ma questo non ha contribuito neppure un po' a renderli più liberi. Non ci inganni, allora, lo spazio e l'attenzione che le parlate sembrano talora ottenere: ci si preoccupa dei panda perchè scompaiono e ci si occupa delle lingue che stanno scomparendo, quasi solo se riescono ad avere un interesse folkloristico (ancora non in funzione di se stesse, ma in funzione di fruitori esterni, interessati allo spettacolo della cultura, alla rappresentazione della tradizione, ecc.) e quasi solo quando si è certi che infine moriranno davvero.

Indiscutibilmente i valdostani sono più forti politicamente in quanto francesi e in quanto minoranza, ma questo significa accettare categorie e logiche che dovrebbero esserci estranei: dobbiamo vivere per ciò che siamo e non nasciamo minoranza, "diventiamo" minoranza perchè nascono Stati ed organizzazioni statali che ci rendono numericamente tali. Ma se ci fermiamo a rivendicare spazi e diritti in quanto tali, significa che accettiamo questa logica e ciò che, in qualche modo, può darci come compenso per la mancata applicazione di altri diritti, o come privilegio che otteniamo per togliere lo Stato dall'imbarazzo di dover temere qualche revanscismo separatista. Reazione legittima questa, e anche realistica, ma culturalmente mortale, psicologicamente mortale, perchè cancella in noi la stessa coscienza di appartenere ad un popolo e di esser portatori di un progetto culturale, sociale e politico che non è quello altrui. Se non abbiamo la coscienza di essere un popolo e che tutti i popoli hanno gli stessi diritti, allora è giusto che nelle dinamiche della politica, nelle logiche degli Stati, negli interessi dell'Europa e nella dimensione della globalizzazione, noi si scompaia. Se da soli ci infiliamo nella trappola di essere una minoranza e di rivendicare qualche diritto come tali, vuol dire che siamo compartecipi della nostra morte in quanto popolo.

Torniamo al tema. Personalmente ritengo che una corretta standardizzazione di una parlata colga gli elementi sostanziali di unità linguistica trasfondendoli in norme e regole che la rendano utilizzabile, trasmissibile, insegnabile ed apprendibile oltre le possibilità dell'uso orale. A torto si crede che la standardizzazione incida sulle diversità e le uccida. E' di immediata comprensione il fatto che le parlate di due comuni vicini possono essere diverse, ma sostanzialmente lo sono sempre meno di quanto possano esserle parlate lontane; allora se nella standardizzazione può sembrare prevalgano le caratteristiche di una variante rispetto ad altre - facendo credere che la standardizzazione ne punisca qualcuna - questo è valido solo quando le diversità sono sostanzialmente troppo considerevoli dal punto di vista linguistico anche in ragione di una discontinuità territoriale e di una lontananza geografica tra le varianti. Un esempio: il toscano ed il napoletano sono molto diversi, eppure il loro codice linguistico è italiano; la diversità è forte, tanto da far pensare a due lingue diverse. E allora? E allora forse possiamo ammettere che toscano, napoletano e italiano sono tre lingue diverse, perchè no, ma allora non mi spiego perchè f. e francoprovenzale debbano essere considerati la stessa lingua.

Succede che l'unità nella diversità deve ancora essere un valore di imprescindibile riferimento; a me interessa molto poco sapere quali problemi si pongano della difesa delle diversità dell'italiano e dei suoi dialetti, delle sue parlate, delle sue lingue che dir si voglia; e mi interessa ancor meno fare io le battaglie politiche necessarie ad affermare che quella parlate identificano popoli diversi. So che solo la storia dice che cosa è una lingua e cosa è un dialetto e che questa affermazione non ha mai un valore assoluto, corrisponde solo alle contingenze del momento e della storia stessa. So che in Italia per alcune parlate o lingue la vita è difficile: friulani, valdostani fp, occitani, sardi, hanno parlate che nella loro diversità non hanno nessun riferimento né con la lingua italiana, né con una lingua esistente oltre i confini dello Stato italiano.

Per questo mi dispiace constatare che sloveni, valdostani f. (giusto o sbagliato che sia considerarsi tali) e altri, che pur avrebbero una lingua forte di riferimento, italianizzano la loro lingua invece di esaltare le loro varianti in un progetto linguisticamente comunque unitario e non italiano. Credo nella standardizzazione per chi non ha ancora una lingua standard di riferimento. Non credo sia possibile standardizzare lo sloveno parlato nella valli, in Italia, ma credo si possa e si debba mantenere il riferimento allo sloveno ufficiale; ciò che perderemo in questo è comunque meno di quando perdiamo quotidianamente trasformando la nostra parlata in un dialetto sempre più italianizzato, sempre più italiano. Per chi, invece, ancora deve procedere alla standardizzazione si presenta la difficoltà di tener presenti le complessità delle varianti: non si può standardizzare una lingua in una zona soltanto del suo territorio, altrimenti la lasceremo sempre in balia del confronto con la lingua dominante (per noi l'Italiano) e spezzeremo l'unità culturale e linguistica del nostro popolo.

Il fatto è che le lingue oggi hanno bisogno di essere utilizzabili un'area più vasta del proprio territorio, talora ridottissimo, per poter vivere. Standardizzare il francoprovenzale per la sola VdA significherebbe creare una lingua creola che non corrisponde ad altro che alla parlate della Valle d'Aosta, mentre l'area francoprovenzale è molto più vasta. Se, tuttavia, in quest'area il francoprovenzale è morto, allora meglio salvare il salvabile, ma questa lingua non deve essere salvata per metterla in un museo e se a parlarla, a fruirne, continueranno ad essere solo i valdostani, allora stiamo solo ritardando la morte di questa lingua, con la scusa - da me stesso addotta inizialmente - di voler almeno salvare qualcosa per dare una continuità, qualunque cosa avvenga. Noi dobbiamo far vivere le nostre lingue per porle in positivo confronto con le altre. Sono cosciente dei problemi, certo.

Penso, ad esempio, all'isola linguistica walser della VdA, mille persone, con pochissime persone ancora parlanti, eppure con la voglia diffusa di far morire quel patrimonio. Oggi si insegna il tedesco e questo pare dare una botta finale alla vecchia parlata. E questo è successo perchè i walser sono in un cul de sac, non hanno più un retroterra, non hanno quasi più parlanti; l'evoluzione demografica ha fatto sì che vi si insediasse una grande maggioranza di non nativi ai quali è sembrato opportuno salvaguardare la tradizione in senso moderno, insegnando - appunto - il tedesco, insegnarlo a partire dall'italiano, perchè neppure era più possibile fare almeno lo sforzo di insegnarlo valorizzando al tempo stesso la parlata locale. E allora per fortuna sono stati fatti due dizionari per raccogliere le peculiarità di due diverse parlate, così almeno sarà sempre possibile recuperare, se non la parlata, almeno una qualche caratterizzazione del tedesco locale. L'alternativa? Insegnare solo l'italiano, o il francese. Mi stanno bene i sardi che litigano su come scrivere la loro lingua, purché continuino a scriverlo come hanno fatto fino ad ora e la mancanza di una standardizzazione non impedisca di renderlo fruibile ad altri che non hanno potuto apprenderlo oralmente. Noi dobbiamo salvare le nostre lingue con tutte le loro particolarità perché
1- non lo farà nessun altro
2- la tendenza del nostro mondo è lasciar morire le lingue.

E' sciocco pretendere che lo Stato (articolo 6 della Costituzione) o l'Europa (la Costituzione) si facciano carico dei nostri problemi, non possiamo delegare ad altri la tutela della nostra identità. Nasceranno - l'ho affermato - le lingue neo-inglesi e la diversità linguistica avrà sempre spazio, ma noi siamo chiamati a far crescere la nostra identità in un processo sempre più ampio e dinamico. E' chiaro che dobbiamo rifiutare l'oppressione linguistica, che dobbiamo pretendere che la nostra lingua viva nella scuola, nei media, ecc. ma gli strumenti per fare tutto ciò dobbiamo averli noi, non può averli lo Stato, non può darli l'Europa, perchè altrimenti avremo solo l'applicazione di un generico diritto alla scuola per tutti che significa scuola in italiano per tutti. Una cosa sono le politiche di italianizzazione poste in atto dalla Stato, purtroppo largamente vincenti, un'altra è scoprirci privi degli strumenti anche quando ci viene lasciata la possibilità di utilizzarli.

Lo Stato ha fatto di tutto per farci morire, oggi ci lascia morire... se comprendiamo questo passaggio allora capiremo anche quanto sia importante avere un progetto politico veramente federalista che tenterò di chiarirvi proprio attraverso il problema della lingua. Parlare una lingua a livello individuale non ha nessun senso, per questo il diritto linguistico non è un diritto individuale, ma un diritto collettivo. E' stupido rivendicare il rispetto dei diritti dell'uomo nella dimensione dell'uomo in quando individuo. Quale lingua, quale religione, quale sessualità, ecc, possono essere espresse individualmente? Quando ci parlano, quindi, di diritti umani ci fregano, ci fregano perchè non è chiaro come questi siano effettivamente applicabili a livello comunitario se le comunità non sono quelle liberamente costituite dalla libera aggregazione di individui, ma sono gli Stati e gli imperi nati da guerre e dalla spartizione di uomini e territori o dalla aggregazione di uomini e territori (come è il caso dell'Europa) voluta da Stati e mercanti, escludendo da ogni decisione i popoli.

La nostra prima comunità è il villaggio, o il Comune; se nel villaggio non riusciamo ad organizzarci per avere la scuola, lo faremo nella dimensione del Comune e poi, via via, in dimensioni sempre più grandi alle quali si acceda come somma di aggregazioni e di diversità. Se, allora, il mio problema è preservare una cultura, una lingua, una tradizione, una storia, sarà del tutto normale che io mi aggreghi con realtà simili alla mia: è in questo che le diversità trovano una loro composizione: l'insieme della varianti linguistiche, ad esempio, troverà sbocco naturale in una lingua che possa fornire a tutte gli strumenti di sopravvivenza e, insieme, rappresenti gli elementi di unità strutturale. Saranno poi l'uso, la letteratura, la scuola a determinare l'evoluzione di questa lingua. Se io sono valdostano e la scuola che frequento è italiana o francese, quella scuola mi sarà sempre imposta; forse mi darà un diploma, forse farò carriera, ma la mia identità verrà meno, io stesso porterò a compimento il mio processo di disidentificazione linguistica.

Il problema è individuare nella costruzione degli stati e delle identità nazionali, la totale assenza di un processo di siffatta progressiva integrazione: l'Italia comprende tedeschi, sloveni, sardi, francesi/francoprovenzali, ecc. ed è quindi uno stato plurinazionale al cui interno una nazione prevale e detta le regole .... Mi pare chiaro che il problema dei diritti linguistici passa inevitabilmente attraverso il rispetto dei diritti collettivi. Qual è la nostra collettività? La logica degli stati oggi vede la nostra collettività spezzata in due o tre parti appartenenti a stati diversi. I baschi sono divisi istituzionalmente in due all'interno dello Stato spagnolo e in altra parte con un gruppo interno allo Stato francese. I livelli di diffusione e di sopravvivenza della lingua sono diversi, per effetto di questo disarmonico sviluppo; e succede che quando risulti inevitabile assicurare una qualche tutela, si voglia strumentalmente contrapporre le parlate tra loro, rendendo indecifrabile l'esistente di una dimensione collettiva più ampia. Nei Paesi Catalani alcuni difendono il valenziano giungendo a sostenere che valenziano e catalano sono due lingue diverse; nelle valli provenzali o occitane del Piemonte italiano, la battaglia è addirittura interna, basata sulla diversità politica di chi difende il provenzale rispetto a chi difende l'occitano, lingua e parlata entrambe in via di disfacimento.

Se continuiamo a non poter costruire la nostra collettività, subiremo sempre le politiche di disidentificazione dello Stato e ne saremo complici. La dimensione del confronto non è più soltanto linguistica, ma è politica. Il nostro nemico non è lo stato che ci opprime, e neppure lo Stato che ci può essere amico e ci attribuisce autonomia e libertà culturale, è lo Stato in se. Ecco perché non credo che il futuro delle nostre collettività che chiamo nazioni senza stato, sia necessariamente quello di darsi uno stato. Noi viviamo spesso in piccole dimensioni nelle quali ci sentiamo dimenticati dallo Stato. Magari fosse, non sappiamo quanto saremmo fortunati ... niente Berlusconi e Fini, niente Grande Fratello, niente veglie per il calcio e per la Formula 1. E tutto il resto...

Se il nostro obiettivo è darci uno Stato affinché la nostra identità sia rappresentata nel consesso degli Stati stiamo costruendo un mondo nel quale Mussolini invece che essere italiano possa essere sloveno, stiamo prendendo il peggio di ciò che il diritto internazionale offre, alimentando gli egoismi nella costruzione di collettività che se ne alimentano. Si perché le nostre collettività hanno alla propria base quel piccolo principio di base che è la solidarietà, mentre gli Stati non hanno questo obiettivo primario, anche se lo enunciano. Guardiamo a cosa ne è del Sud Italia, un tempo collettività florida economicamente e culturalmente, poi impoverito irrimediabilmente. Se sogniamo uno Stato vuol dire che abbiamo accettato la cultura politica basata sul fatto che qualcuno domina e gli altri sono minoranza e che non ci interessa costruire un mondo diverso, ma solo passare dall'altra parte. E' chiaro che non succederà mai che tutte le nazioni senza stato possano diventare uno Stato allo stesso momento, quindi, il meccanismo perverso della negazione delle collettività continuerà a prodursi da qualche parte.

Perchè - allora - a tutti noi sembra tanto difficile accettare quella che sembra essere una forzatura culturale - la standardizzazione della lingua - ma siamo disposti ad accettare tutto il resto attuato e voluto contro di noi, cercando solo di trovare spazi minimi di sopravvivenza concessi dallo Stato, solo perchè non può annientarci in quattro e quattro otto? Dobbiamo capire che l'italiano ha avuto Dante e Manzoni, il che vuol dire che una lingua deve essere in grado di comunicare, di commerciare, ma anche di produrre un plusvalore, un valore aggiunto culturale e intellettuale. Nel mondo di oggi è necessario conoscere e praticare più lingue; la scuola deve darci queste conoscenze linguistiche diffuse e questo non è assolutamente in contrasto con la nostra lingua. Torniamo al federalismo...a quello che costruisce le collettività sempre allargando l'ambito naturale di sviluppo e di affermazione delle collettività primarie. Questo presume non accettare che per federalismo si intendano i patti raggiunti tra Stati perchè questo è, in realtà, il confederalismo; e non accettare che per federalismo si intendano le competenze che lo stato attribuisce alle regioni, alle proprie regioni, quelle che lui stesso ha costruito dall'alto, perchè questo è, il realtà, il regionalismo.

Ho una buona pratica dell'italiano e lo considero una lingua importate, capace di esprimere un grande plus-valore linguistico, a patto che ci sia corrispondenza tra termini e loro significato. Le lingue, le nostre lingue sono concrete, non lasciano spazio ad equivoci di significazione; una lingua deve sempre rispondere di se ai suoi locutori; le lingue degli Stati sono lingue di false comunità e, come dicevano i pellerossa parlando dei bianchi, sono lingue biforcute. Alcune delle nostre lingue oggi sembrano immobili, belle e orgogliose, ma questa sarà la causa della loro morte. Senza dinamiche interne ed esterne, moriranno. Per colpa nostra. Come sono difesi in VdA lingua a dialetto (francoprovenzale detto anche patois)? Ad esempio:

Quali sono le posizioni politiche e culturali rispetto a lingua e dialetto?

Entriamo nella politica regionale per vedere quali conseguenze scaturiscono da queste posizioni. Da uomo dell'UV so che il francese è più forte del francoprovenzale contro l'Italia e l'italiano. Tuttavia il francoprovenzale è vivo anche senza il f, mentre il f è in crisi; il f è così debole che non alimenta il francoprovenzale che si italianizza, segno che l'influenza dell'italiano è più forte; il f è così debole che non si alimenta neppure della grande diffusione e forza della lingua francese nel mondo, malgrado molteplici occasioni di contatto con il mondo della francofonia. Il legame tra francese e francoprovenzale è debole o non c'è. Allora sarebbe auspicabile un legame o almeno un contatto con la realtà provenzale, ma:

Vi propongo tutte queste complicazioni non certo per farvi schierare da una parte o dall'altra in VdA, ma per rendervi partecipi di una complessità che - vista da fuori, non ha senso, perchè il solo risultato che ha prodotto è l'affermazione dell'italiano, la scarsa diffusione del f e la vita sempre più difficile del francoprovenzale per il quale si fa apparentemente molto, ma non quel che è necessario per evitarne il crollo che i sarà.

Per questo credo dobbiamo avere:

Rispondiamo anche al quesito non so quanto significativo per, ma certo importante per i valdostani, se i mutamenti demografici ci dicano qualcosa: emigrazione, immigrazione, fuga dei cervelli, ricchezza e povertà, villaggi dormitorio, villaggi ferie ma vita altrove.... Io sono di origini cimbre, ma mi sarà difficile imparare il cimbro perchè non vivo il territorio e, del resto, non è quasi più parlato: nell'arco di due/tre generazioni la mia famiglia paterna è diventata da cimbra germanofona - veneta poi valdostana immigrata, quindi valdostana....il destino dei migranti è quello di perdere la propria identità nell'arco di qualche generazione, ma quale nuova identità assumono? ha forse senso che uno sloveno o un sardo che arrivano in Valle d'Aosta diventino solo italiani, finendo col contrapporsi ai valdostani per rendere italiani anche loro così che tutti avremo una identità che non è quella di nessuno?

Che dirvi del cimbro ... forse che il governo danese sta cercando prove scientifiche per verificare se tra la sua popolazione, gli inuit, i pellerossa, i cimbri ed i celti c'è un legame che taluni segni rimasti nella lingua e talune caratteristiche genetiche parrebbero affermare. Vorrei dirvi qualcosa sul ruolo degli emigrati, ma credo che allargheremmo troppo il campo: tenete solo conto che hanno un ruolo e che è ingiusto costruire un futuro nel quale essi ritornino al paese per qualsiasi ragione, per visitarlo, per morirci, e non lo riconoscano più, vi si sentano stranieri. Del cimbro restano alcune parole che dicono un mondo, una vita, una economia che non ci sono più; non potrei parlarvi in cimbro come potrei farlo con il f, magari contando su di un interprete: fuori da quel mondo chiuso il cimbro non ha mai avuto vita.

Certi dizionari linguistici, quindi, come quello cimbro e quello walser, sono una pietra tombale; del resto, lo abbiamo visto, è morto l'aramaico di Gesù, è morto il latino, il greco lingua di grandissima influenza in tutto il mondo è usato solo in Grecia; è morto il sanscrito ... perchè mai non dovrebbero morire le nostre parlate? Noi abbiamo ancora gli strumenti per consegnare al futuro qualcosa di esse, chi più chi meno. E sappiamo che se le chiudiamo in un museo presto moriranno. Non sarà colpa dello Stato o dell'Europa, ma colpa nostra perchè avremo rinunciato spontaneamente a dotarci degli strumenti di cui tutte le lingue vive si sono dotati. A Barcelona un tempo si parlava occitano, oggi il catalano è molto forte, mentre l'occitano, che pur ha dato al mondo una scrittore Premio Nobel, Mistral, ancora si interroga su quale è la sua forma scritta e, in Piemonte, litigano addirittura coloro che tra concezione tradizionalista e concezione innovativa, litigano mentre fanno il funerale della lingua.


Il libro 'AKARA-OGUN E LA RAGAZZA DI BENIN CITY', 2002Vedi anche di Claudio Magnabosco:
> "Sono nessuno o sono una nazione", > su evolutionbook.com, versione .rtf zip 55KB
> Akara-Ogun e la ragazza di Benin City
> La ragazza di Benin City
> Decine di africane sono state assassinate in Italia. Le altre Amina: ogni giorno le africane sono "lapidate" in Italia
> Identità nazionale e minoranze nello Stato italiano
> Indipendentismo sostenibile, Nazione inclusiva, moltiplicatore. Tre teorie tra storia del federalismo e attualità del dibattito sul micronazionalismo
> Celtismo, New Age, Sindacalismo: Tre problematiche a confronto con l'idea di nazione e con il rischio di fascistizzazione delle nazionalità
> Nazioni senza Stato e diritti collettivi
> Per una storia della Valle d'Aosta dal 1945 al 2000
> Le chemin du S.A.V.T. 1952-2002

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