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Indipendentismo sostenibile, nazione inclusiva, moltiplicatore.
Tre teorie tra storia del federalismo e attualità del dibattito sul micronazionalismo

di Claudio Magnabosco

Gennaio 2001

INDICE

1 - IL FEDERALISMO | 2 - LA TEORIA DEL MOLTIPLICATORE FEDERALISTA | 3 - IL MICRONAZIONALISMO | 4 - ARGOMENTI A FAVORE DEL MICRONAZIONALISMO | On ne peut construire le Pays Basque qu'avec une vision de gauche | 5 - L'INDIPENDENTISMO | 6 - L'IMPOSSIBILITA' DELL'INDIPENDENTISMO

1 - IL FEDERALISMO .: su :.

1 - PER UNA STORIA DEL FEDERALISMO IN ITALIA

Scenari dal Risorgimento ai giorni nostri

Per capire il dibattito in atto sui temi del federalismo e della trasformazione dello Stato italiano in Repubblica federale, dobbiamo aver chiaro lo scenario delle posizioni che dal Risorgimento ai giorni nostri si sono presentate in Italia. Lo scenario ci presenta l'esistenza di sei "gruppi", di sei tendenze politiche generali.

I Nazionalisti italiani
I nazionalisti italiani il federalismo proprio non lo hanno mai accettato e mai lo accetteranno; lo hanno osteggiato in tutti i modi e continuano ad osteggiarlo, anche seminando confusione su cosa esso sia; da sempre insistono sull'idea di unità della patria come valore che spiega l'unità dello Stato, la sua indissolubilità e quindi l'impossibilità di qualsivoglia federalismo, considerato l'anticamera del separatismo.
Per i nazionalisti italiani neppure la costruzione dell'Italia che hanno sempre vagheggiato (quella che avrebbe dovuto comprendere tutti gli italofoni del Canton Ticino, della Corsica, di Malta, dell'Istria, ecc.) e per costruire la quale avrebbero voluto italianizzare le zone "straniere" (francesi, tedesche, slave ecc.), avrebbe dovuto o potuto comportare un'organizzazione federale dello Stato.

I Democratici italiani
I Democratici italiani, nazionalisti moderati, sono eredi di una scuola che, pensando al miglior funzionamento dello Stato centrale, è capace di concepirne un'organizzazione decentrata che non vada, tuttavia, oltre il regionalismo; beninteso si tratta di un regionalismo che, concettualmente e sostanzialmente, continua ad affermare che il potere viene sempre dallo Stato che ne delega l'esercizio parziale ad istituzioni minori. I democratici italiani non amano il federalismo ma, per contrastarlo in modo efficace, ne adottano il linguaggio, spacciando per federalismo ciò che federalismo non è.

I Federalisti europei
I Federalisti europei, quelli della scuola dì Spinelli. evitano di pronunciarsi sui problemi interni allo Stato per mirare diritto verso la costruzione di una federazione degli Stati Europei; il loro risultato - indiretto - è indebolire la pressione dei centralismi statali attraverso il ridimensionamento della loro stessa sovranità, determinato dai livelli sempre più articolati di integrazione continentale. Preoccupati delle difficoltà dell'Unione Europea, nei federalisti italiani vedono un alleato e, più spesso, uno stretto collaboratore.

I Federalisti italiani
I Federalisti italiani, eredi del più autentico federalismo risorgimentale ed antifascista, per costruire l'Europa federale ritengono di dover costruire prima lo Stato federale in Italia (e, ovviamente, in tutti gli Stati europei che federali non sono ...). Autentici federalisti sanno bene come il federalismo sia stato più volte tradito e strumentalizzato, ma sono troppo deboli per non finire - a loro volta - facilmente manipolati.

I Nazionalitari
I nazionalitari sono gli italiani per forza, quelli che fanno parte dello Stato italiano ma, appartenendo ad un'altra Nazione o nazionalità, prima che all'Italia ed all'Europa pensano al modo migliore per ottenere l'applicazione del diritto alla autodeterminazione che consenta al loro popolo di scegliere le proprie istituzioni (all'interno dello Stato o fuori di esso) e la propria collocazione internazionale (in Europa oppure no).

I Federalisti etnici
I Federalisti etnici pur affermando la loro appartenenza ad una nazionalità diversa da quella italiana, di fatto hanno adottato la scelta federalista come una sorta di opzione spontanea di autodeterminazione. Trasformando lo Stato italiano in senso federale credono di innescare un automatismo europeo che porterà alla costruzione dell'Europa dei Popoli.

Questo lo scacchiere italiano. Lasciando ad altre occasioni l'approfondimento delle vicende che ciascuna di queste "tendenze" ha cercato di determinare a detrimento delle altre, passiamo in rapida rassegna i momenti nei quali la trasformazione dello Stato in senso federale è stata ipotizzata, dal Risorgimento ai nostri giorni.

Risorgimento
Tralasciando le posizioni di quanti ritenevano si dovessero salvare, magari sotto la guida del Papa, gli Stati prerisorgimentali, il federalismo italiano guarda alle "regioni naturali" che non corrispondono ai disegni burocratici dell'ordinamento provinciale dello Stato, ma alle specificità storiche, geografiche, culturali, etniche e linguistiche dell'Italia.

Fine secolo
Lo Stato italiano è nato centralista, ma subito dopo la sua nascita alcune riflessioni di carattere economico portano i repubblicani lombardi a proporre una secessione tra nord e sud "contro lo sfruttamento del lavoro di Milano da parte dei ladri meridionali e romani"; all'opposto, per rispondere ad una troppo profonda diversità antropologica, nasce l'idea meridionalista di dividere lo Stato in due Italie federate.

Due federalisti
A inizio secolo e, praticamente, fino al fascismo, due federalisti si distinguono in modo particolare: Salvemini propone un federalismo che dal basso arriva a costruire le Regioni negando che queste possano essere identificate o costruite attraverso una volontà del centro; Zuccarini parla di Regioni con specifica identità, configurazione geografica, personalità propria, lingua.

Gli anni del fascismo
Contro il fascismo, la Resistenza propone non poche riflessioni federaliste Libertari come Trentin lanciano l'appello "Liberare e federare", mentre sardi e valdostani individuano nel federalismo la. sola via di libertà: il più attivo è Lussu, con un Partito Sardo d'Azione che mira alla costruzione di una Repubblica federale; il più lungimirante è Emile Chanoux che con la Dichiarazione di Chivasso costruisce la solidarietà dei popoli alpini: solo insieme è possibile costruire una Repubblica federale di Cantoni o Regioni.

Anni 50
Tra a fine della guerra e il momento della ricostruzione postbellica, le idee federaliste contraddistinguono molti progetti: il PCI propone di suddividere l'Italia in 4 Repubbliche federate (Nord, Sud. Sicilia e Sardegna); la DC è su posizioni regionaliste; il Cisalpino (c'è Miglio!) propone la creazione di un Cantone dell'attuale Padania; Olivetti lancia dal Piemonte il suo progetto parafederalista con le Regioni che nascono dal basso attraverso le Comunità; a Desenzano i popoli alpini creano una federazione nello spirito della Carta di Chivasso; la Costituente, mentre affronta il problema generale delle Regioni, si rende conto (ma non me tiene conto!) che il bisogno di regionalismo, autonomia e/o federalismo non viene solo da Sicilia, Sardegna. Friuli, Sud Tirolo, zone Slave e Val d'Aosta, ma anche dalle zone intemiliane, umbra, sannita, veneta e retica.

L'inganno regionalista
Lo Stato italiano si definisce regionalista, ma attuerà molto più tardi, addirittura nel 1970, le Regioni che ha individuato sulla carta senza tener conto delle loro reali identità; inganna il Sud Tirol promettendogli un'autonomia specifica, tipo Valle d'Aosta, per inserirlo poi in una Regione trappola con il Trentino; anche il Friuli non avrà un propria Regione e sarà legato alla Venezia Giulia.

Gli anni 60
Mentre le Regioni a Statuto Speciale sono chiamate a gestire le pur ridotte forme di autonomia che hanno conseguito, le Regioni "ordinarie" non sono neppure istituite!

Prime collaborazioni
Per le elezioni del '68 i Trentini propongono accordi elettorali tra autonomisti, regionalisti e federalisti, costruendo una Federazione di partiti e movimenti: nasce un federalismo che non articola una progetto specifico di trasformazione dello Stato ma consente di individuare chi intenda partecipare a tale costruzione: trentini, triestini, friulani, sloveni, valdostani, ecc.

L'articolo 6
Nel dibattito sull'applicazione dell'articolo 6 della Costituzione si rafforza il senso di identità che caratterizza tutti i progetti federalisti: dal '67 l'AIDLCM individua lingue e culture etniche e regionale; dal '75 il CIEMEN spingerà sulla questione nazionalitaria; a scavalco tra le due esperienze, la LELINAMI afferma che per tutelare le lingue è necessario riconoscerne la territorialità; nasce un coordinamento delle organizzazioni sindacali etniche in Italia (ed in Europa).

Seraratezza culturale
Gli anni 70 propongono un aspetto particolare del modo con cui le identità si esprimono: mentre l'on. Fanti propone di accorpare le Regioni della Padania, si impongono con energie le "identità", alcune recuperando importanti elementi del loro retroterra storico e psicologico, altre evidenziando la loro separatezza culturale: si afferma un movimento multinazionale che fa riferimento alla "civiltà mitteleuropea"; i "Quaderni del mezzogiorno" propongono una rilettura della questione meridionale e della cultura meridionale; attorno al Monte Bianco si torna a parlare di "Nation Savoyarde"; la Sardegna si scopre "Cuba del Mediterraneo" e progetta un federalismo dei popoli, appunto, mediterranei. Posizioni inevitabilmente radicali poiché il modello autonomista e quello regionalista hanno perduto la poca credibilità di cui godevano: le Regioni a Statuto ordinario sono senza potere, mentre il Ministro Aniasi propone l'abolizione delle Regioni a Statuto Speciale.

Le prime elezioni europee
Le elezioni europee del 1979 rappresentano la chiave di volta per il federalismo in Italia. I partiti italiani, al cui interno militano gli impotenti federalisti italiani, inventano le macroregioni elettorali che non corrispondono a nessuna identità. Si realizza, così, ciò che Lussu aveva invano tentato di fare nell'immediato dopoguerra: far collaborare, nel nome del Federalismo e delle Autonomie, le forze delle nazionalità, i regionalisti, i federalisti non partiticizzati. Non c'è ancora un progetto vero di trasformazione dello Stato in senso federale, progetto che viene auspicato, ma la somma delle forze in campo evidenzia quali sono le identità di cui il progetto federalista dovrà farsi portatore.

Epopea nazionalitaria
Per le seconde elezioni europee, quelle del 1984, dopo aver preso le distanze dal leghismo, 1'UV e PSdAz portano avanti una linea "nazionalitaria", linea che si sta affermando in tutta Europa. Gli studi di Sergio Salvi, Guy Héraud, Andrea Chiti-Batelli, Aureli Argemi portano ad un'individuazione delle identità che dovrebbero partecipare alla costruzione di uno Stato federale. La proposta viene pubblicata dal Peuple Valdôtain e viene presentata in occasione del raduno europeo ad Aosta per la firma del Document Emile Chanoux sulla autodeterminazione depositato all'ONU; il documento corrisponde alla riflessione che dà corpo a numerose Carte Documenti internazionali; l'UV non ne fa ufficialmente proprio lo schema, ma afferma che fin quando l'Italia resterà uno Stato sovrano. la sua forma istituzionale dovrà essere federale e dovrà articolarsi attraverso queste identità:
1. la Romandie, con la Valle d'Aosta e le valli francoprovenzali del Piemonte.
2. l'Occitania.
2 la Slovenia, con le valli intorno a Gorizia l'est di Udine e I'interland della costa di Trieste.
4. il Sud Tirol
5. la Ladinia comprendente il Friuli (senza la Venezia Giulia), tutti i territori di lingua ladina, la circoscrizione di Porto Gruaro (oggi Veneto).
6. La Padania comprendente la Liguria, il Piemonte (senza le zone francoprovenzali e occitane), la Lombardia, l'Emilia, la Romagna, il Veneto.
7. La Toscana senza la provincia di Massa Carrara (è emiliana).
8. Il Meridione
9. La Sicilia.
10. La Sardegna.

La Lega
I partiti italiani, messi alle corde dal fenomeno tangentopoli, si sentono in pericolo anche per effetto dei crescenti successi della Lega; sì sforzano, quindi di affrontare le tematiche federaliste, dapprima timidamente, poi facendosi addirittura portavoce di un qualche federalismo considerato - ormai - una scelta obbligata. La Lega sforna dapprima alcuni progetti federalisti (suddividere lo Stato in tre Italie, poi in due, poi articolarlo in una Padania ed un'Italia) ma, poco a poco, è imbrigliata dai giochi dei partiti (il Polo recupererà Miglio ed altri leghisti a posizioni più moderate) che cercano di spaccarla e di indebolirla; infine Bossi opera la scelta secessionista.
Se oggi in Italia tutti si dicono federalisti è sicuramente merito della Lega che ha imposto in Italia una problematica altrimenti relegata ai margini del dibattito politico; se il dibattito sul federalismo è così approssimativo e contraddittorio, è colpa della Lega che, con la sua approssimazione e contraddittorietà, ha consentito che il federalismo potesse essere considerato tutto e il contrario di tutto.

Il quadro odierno
I federalisti europei e quelli italiani sono piuttosto annacquati, privi di incisività e pur recuperando spazi sono, di fatto, 'garanti' formali di un federalismo che i partiti italiani faticano a comprendere e, soprattutto. ad accettare davvero, chiamando "federalismo" ciò che federalismo non è. L'UV, spaventata dalle sue stesse scelte nazionalitarie, elabora e propone un vero e proprio progetto moderato di trasformazione dello Stato in senso federale: chiama Repubbliche le attuali Regioni e le federa insieme. La sinistra non pare contraria a questo progetto e, udite udite, perfino la Fondazione Agnelli che - a tutta prima - aveva ritenuto di dover propone un accorpamento delle Regioni più piccole e la cancellazione dei "privilegi" fiscali per alcune di esse, torna sui suoi passi e adotta la proposta unionista.

Presidenzialismo
I nazionalisti italiani hanno una trovata di genio: il federalismo va bene, ma deve esser attuato contestualmente alla conferma della centralità dello Stato con l'introduzione del Presidenzialismo.

Il federalismo fiscale
E per complicare ulteriormente le cose intervengono gli economisti, i quali ammoniscono che in Italia non si può fare un federalismo completo perché, ad esempio, il sistema fiscale ha tali e tanti complicazioni che coinvolgono l'intero paese da non poter immaginare un sistema fiscale per ogni Repubblica dello Stato federale. Ciascuna di esse, quindi, dovrà fare necessariamente dei sacrifici per poter gestire la propria autonomia, pur tenendo conto che esiste pur sempre un potere centrale a cui demandare l'equilibrato sviluppo complessivo del paese. Siamo sulla strada di un central-federalismo. Contraddittorio? No, in Italia abbiamo avuto un socialista che ha creato una dittatura, abbiamo avuto i nazi-maoisti ed un capo di stato accusato di essere anche capo mafia.

Tutti contenti
A fronte di alternative quali la spaccatura del paese o il ritorno del centralismo che qualcuno vagheggia, l'ipotesi di un 'federalismo all'italiana" (miscuglio di federalismo autentico, autonomismo, regionalismo e centralismo, istituito attraverso le Regioni) pare piacere a molti.

Le attuali Regioni a Statuto speciale si sentono rassicurate: non scompariranno come il pericolo neocentralista fa tenere, ma diventeranno un modello per la ridistribuzione di competenze dallo Stato alle Regioni/Repubbliche. E se questo non è proprio il Federalismo, pazienza.

Le attuali Regioni a Statuto ordinario vedono comunque potenziate le loro competenze e, quindi, i loro spazi di gestione del potere locale.

I nazionalisti, italiani ed i democratici italiani constatano che, sostanzialmente, non cambia nulla e se tempi sono favorevoli a forme di decentramento a loro poco gradite, l'importante è che non si arrivi davvero al Federalismo e che il potere resti sempre una prerogativa del centro nei confronti delle Regioni.

I federalisti italiani sono troppo deboli per poter davvero influire sostanzialmente sulle trasformazioni in atto; quelli europei si compiacciono che, comunque, un'Italia un po' federale cerchi dì andare in Europa.

I federalisti etnici neppure si accorgono di aver sacrificato sull'altare della Realpolitik la possibilità di alcune nazionalità (gli occitani, i friulani, ecc..) di avere almeno una propria istituzione regionale autonomistica.

I nazionalitari restano fuori da ogni prospettiva politica immediata, avendo davanti a se soltanto la strada del radicalismo o quella degli indipendentismi, strada difficile e pericolosa perché la guerra nella ex Jugoslavia ed il conflitto irrisolto nei Paesi Baschi e nell'Irlanda del Nord, portano l'opinione pubblica ad associare l'idea di rivendicazione etnica a quella della violenza e della guerra.

E l'identità?
In questa situazione la problematica identitaria, così cara ai veri Federalisti, scompare: si pensa ad un federalismo che ha alla propria base le attuali Regioni le quali, come abbiamo visto, non corrispondono a nulla, sono nate da un progetto organizzativo e migliorativo della propria funzionalità voluto dal potere centrale.
Diventa ridicolo, allora, trovare alle elezioni, movimenti come quello che rivendica l'istituzione di una Regione Autonoma Toscana. o quello che prospetta una separazione dell'Emilia dalla Romagna, o ancora quello che su Trieste elabora progetti di autonomia ed indipendenza; come già successo per il federalismo, anche queste identità resteranno ridotte al rango di campanile, di liste civiche, di velleitarismi da convogliare nei progetti del polo di centro-sinistra o in quello di centro-destra italiani.

Di quale federalismo stiamo parlando oggi?
Nell'Italia di oggi sarebbe tutto più facile se le coalizioni, i poli contrapposti, la smettessero di litigare e di scontrarsi sulle riforme del lo Stato ed ammettessero che tutte chiamano federalismo qualcosa che non è il federalismo.
Ma è vera anche un'altra cosa: poiché nessuno si fa portavoce di cosa sia davvero il federalismo, anche l'uso distorto di questo principio sociale, politico ed economico è, in qualche modo, legittimato dal fatto che in sostanza si parla di "federalismo all'italiana".
Per ragioni economiche, le aree ricche del nord del paese, le regioni ricche del nord del paese, ritengono che avere più autonomia e tenersi una parte degli introiti delle tasse le possa rendere più ricche; le Regioni povere o impoverite del sud, per ragioni inverse, ma analoghe, ritengono che una maggior autonomia regionale consenta loro di raggiungere quello sviluppo che ancora non hanno conosciuto.
Le Regioni a Statuto speciale rischiano di venire appiattite: se la Valle d'Aosta, la Sardegna, il Tirol e le altre regioni "Speciali" hanno solo gli stessi diritti e le stesse caratteristiche di tutte le altre Regioni italiane, la loro 'specialità" perde connotazione e le loro ragioni storiche, culturali, linguistiche, etniche e geografiche vengono cancellate: il federalismo doveva unire le diversità, non cancellarle.

2 - LA TEORIA DEL MOLTIPLICATORE FEDERALISTA .: su :.

L'idea di costruire l'Europa sulla base di un'Unione Federale che avrebbe allontanato per sempre gli spettri della guerra e del fascismo caratterizzò molti movimenti della Resistenza: il Movimento Federalista Europeo (sorto a Milano nel '43), la Rosa Bianca tedesca (i cui animatori furono trucidati dai nazisti nel '43), il Comité Français pour la Fédération Européenne (sorto a Lyon nel '44), i Popoli Alpini (i cui rappresentanti si riunirono a Chivasso nel '43), e altri. Non si trattò di un fenomeno unitario: su quale tipo di unione europea si dovesse puntare non c'era una convergenza di vedute: è però a questi movimenti che dobbiamo la nascita di uno spirito europeista in senso moderno.

Un editoriale di "Le Monde" constatava, un paio di anni or sono, che "un'Europa senza memoria o, soprattutto, con la memoria confusa, sarebbe disarmata di fronte a un ritorno di vecchi demoni, specie se questi assumono il volto affabile e seducente dell'estrema destra cortese ed educata". Con quella che definisco "teoria del moltiplicatore federalista" intendo contribuire alla ricerca filosofica e politica tesa ad armonizzare i federalismi partendo dalla drammatica constatazione che nella società europea si stanno affermando nuove forme di fascismo. A proposito dell'ascesa al potere del centro destra in Italia, il filosofo Norberto Bobbio scrisse: "il governo Berlusconi rischia di avere davanti a sé e dietro di sé soltanto il fascismo"; palesemente fascista (o postfascista se vogliamo ammettere qualche distinzione!) è una componente del suo governo, quella del Movimento Sociale Italiano che veste "il volto affabile" del suo leader Fini ed ha assunto la denominazione di Alleanza Nazionale.

Il fenomeno italiano è emblematico di una realtà europea dove forze di destra stanno conquistando importanti spazi; del resto il sociologo Nolte interpreta il fascismo ed il nazismo come una risposta al comunismo, legittimando - in qualche modo - gli orrori della storia e riscoprendo i "valori" della società occidentale anticomunista. Oggi in Italia i "campioni" del federalismo mistificano non solo il significato del termine, ma anche e soprattutto il significato politico della vera rivendicazione federalista.
Al crollo del nazifascismo le aspirazioni di libertà non andavano oltre forme più o meno accentuate di decentramento amministrativo; in parte si trattava di un rinnovato interesse per la tesi della separazione verticale dei poteri che il federalismo avrebbe potuto permettere. Il problema pareva essere quello della efficacia: è meglio, da un punto di vista pragmatico, vivere in uno Stato centralizzato o in uno Stato decentralizzato? A piccoli passi gli Stati europei si sono avviati verso una forma di gestione decentrata del potere che non mette totalmente in discussione la sovranità dello Stato centrale, come invece farebbe il federalismo.

Alla fine degli anni 60, però, ha ripreso vigore, la rivendicazione delle Nazioni senza Stato all'interno dell'Europa occidentale, rivendicazione che ha messo in discussione la legittimità degli Stati e la credibilità di una costruzione dell'Europa basata su di essi. Con la caduta del muro di Berlino e del comunismo è iniziato un processo di liberazione anche presso i popoli dell'est. Lo sfascio orientale si è prodotto proprio in tre Stati definiti "federali": l'URSS, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia. Nell'URSS il federalismo era nato come una forma di libertà; il comunismo voleva erigere un sistema di libertà, un sistema di unione aperta di popoli ove sarebbero potuti entrare tutti quegli Stati nei quali il proletariato avrebbe preso il potere e, naturalmente, come si legge nei primi documenti rivoluzionari, uscirne quando l'avrebbero desiderato. Così Lenin si guadagnò l'assenso dei paesi asiatici; quando Stalin capì che questo federalismo libertario avrebbe portato alla disgregazione dell'URSS, centralizzò la gestione del potere e ridusse il federalismo ad una mera facciata. Tito ha imposto un centralismo analogo nella Jugoslavia, a vantaggio esclusivamente della Serbia. In Cecoslovacchia il diseguale sviluppo economico a danno della Slovacchia ha determinato il crollo del sistema "federale".

Si spiega, così, la tendenza - molto attuale benché mascherata - a preferire al "federalismo" classico (che determina una perdita di buona parte della sovranità degli Stati che fanno parte della federazione), il "confederalismo" (nel quale gli Stati membri non effettuano alcuna cessione di sovranità, l'esempio concreto l'abbiamo nell'O.N.U.).
Gli inglesi che non sono favorevoli al federalismo, sono aperti al discorso della 'casa comune europea', cioè ai popoli dell'est, proprio perché questi condividono la loro avversione all'idea di un federalismo europeo, avendo conosciuto del federalismo soltanto la mistificazione. Eppure é chiaro che neppure le Confederazioni funzionano automaticamente: né il Commonwealth britannico né l'Unione francese, né le varie associ azioni di Stati arabi hanno mai funzionato. Neppure l'impero austro-ungarico che è stato l'esempio più classico di "confederalismo" nel secolo scorso, ha funzionato appieno: nell'impero vigeva solo un positivo decentramento, ma la diplomazia autro-ungarica. retta dagli ungheresi, preoccupati della avanzata degli slavi nei Balcani, non seppe evitare la Prima Guerra Mondiale. Una diplomazia federale probabilmente avrebbe potuto evitare il conflitto, ma la suddivisione di compiti e competenze in realtà confederali non fa gli interessi di tutti i confederati.
Guy Héraud, uno dei massimi esperti di federalismo in Europa, evidenzia come in quello che è considerato il federalismo classico, gli Stati federali - membri cioè della federazione - non sono definiti necessariamente dal criterio nazionale, ma anche da altri criteri: geografico (è il caso delle isole), economico (come nel progetto delle cosiddette macroregioni europee), storico.

Gli "States" americani, i "lander" tedeschi, le "province" canadesi e australiane sono entità che procedono essenzialmente dall'evoluzione storica; i casi dell'Alaska e delle Awai dimostrano il ruolo della geografia; la religione spiega la scissione del Cantone svizzero Appenzel in mezzi cantoni; la lingua spiega la creazione del Cantone del Jura. L'Europa sta nascendo soltanto attraverso un criterio economico e storico. Essa produce, in questa dinamica, gli stessi fenomeni che già si sono prodotti dalla nascita dei singoli Stati e, cioè, l'oppressione delle Nazioni senza Stato, la creazione di minoranze. L'inclusione di queste in uno Stato o in un'Europa non ne cancella la dipendenza. Per il Jura francofono inserito nel cantone tedesco di Berna, il fatto che la federazione fosse costituita anche da cantoni italofoni e francofoni non diminuiva la dipendenza dalle leggi emanate dalla maggioranza germanofona. Per la Valle d'Aosta francofona il fatto di appartenere ad uno Stato che sta costruendo l'Europa insieme, tra gli altri, ai francesi, non muta più di tanto la situazione linguistica e nazionale. Per catalani l'ingresso nell'Unione Europea di Andorra rappresenta soltanto un appiglio giuridico per il riconoscimento della propria lingua. Ritorniamo allora alla domanda pragmatica che federalisti si ponevamo nel dopoguerra: "è meglio vivere in uno stato centralizzato o in uno stato decentralizzato?".
Negli Stati "democratici" che sono sorti nei dopoguerra, dopo la caduta del nazismo del fascismo e del franchismo, alcune Nazioni senza Stato si sono viste "octroyer" forme più o meno ampie di autonomia, in virtù di una concezione politica regionalista e del timore che potessero affermarsi rivendicazioni indipendentiste. Oggi all'interno del loro territorio "regionale" (spesso ritagliato lasciandone fuori aree significative, spesso dividendolo in più realtà regionali, sempre comunque non riconoscendone l'unità) esercitano una autonomia politica ed amministrativa limitata e delimitata. Si confrontano con lo Stato e con i suoi partiti ricercando un potenziamento delle proprie posizioni attraverso la forza (più o pieno preminente nelle diverse occasioni elettorali) di partiti politici nazionalitari. Al di là dei principi li fondo da questi stessi espressi, nella quotidianità le loro energie sono quasi interamente assorbite dall'amministrazione e dalla ricerca del consenso: lo spazio a cui mirano è quello del potere locale (spesso gestito in consorzio con partiti stato-nazionali) e quello della rappresentatività nelle istituzioni dello Stato o dell'Europa. L'autonomia di cui godono consente, talora, un certo sviluppo, ma il fatto negativo che accompagna questo stato di cose è la rinuncia, che l'accettazione del sistema stesso della autonomia regionale comporta implicitamente, alla rivendicazione della autodeterminazione. I confini degli Stati non possono essere messi in discussione; la crescita del consenso interno, quindi, non va oltre se stesso: del resto neppure con una adesione di massa alle proposte più radicali si determinerebbe l'accesso alla autodeterminazione, la cui semplice postulazione teorica costituisce un reato.

L'ipotesi di una Europa a due velocità che affianchi alla federazione degli Stati un momento aggregante delle Regioni (il Comitato delle Regioni di oggi, qualcosa di più domani) è accettata come il massimo dei risultati possibili. Nella trappola del regionalismo si spengono, così, diritti dei popoli; nella rivendicazione del regionalismo europeo si frantuma e diventa utopia la speranza di un nuovo diritto dei popoli. Il fallimento del federalismo classico, il crollo di quello concretizzatosi nei paesi dell'est, la soluzione confederale che salva ali Stati, le trappole del regionalismo, i limiti del consenso autonomista, le strumentalizzazioni ideali del federalismo ci pongono di fronte a due considerazioni: non possiamo immaginarci di costruire in Europa federale dei Popoli senza l'affermazione del diritto alla autodeterminazione degli stessi; non possiamo immaginare di costruire un Europa federale dei Popoli se non superiamo il concetto e la forma istituzionale dello Stato. L'Europa dei Popoli non si costruisce con gli Stati, né con quelli vecchi, né con quelli nuovi che potrebbero nascere grazie all'esercizio della autodeterminazione.

Il rischio che nasca una Europa guidata dalle forze di destra e, se non fasciste certo para fasciste; il fatto concreto che, comunque, l'Europa che sta nascendo è quella degli Stati, sottolineano nella nostra rivendicazione del diritto alla autodeterminazione anche il diritto, la libertà ipotetica a non costruire affatto l'Europa, ma altre forme di aggregazione, magari tra altre realtà. Resta, quindi, una sola strategia percorribile per contrapporsi a questa perversa logica: quella delle obiezione di diritto, la negazione, cioè, delle regole vigenti nel diritto internazionale in quanto regole scritte dagli Stati.
Del resto la crisi della forma statuale è riconoscibile, ai giorni nostri, anche nella diversificazione delle forme di oppressione che esercita sulle Nazioni per quanto attiene alla lingua e alla cultura; l'omogeneizzazione culturale di cui sono responsabili li sta progressivamente privando della loro stessa identità culturale, linguistica, "nazionale", a vantaggio di quell'esperanto tecnologico che è la lingua inglese, a vantaggio delle leggi di mercato determinate principalmente dai paesi leader del mondo moderno. Paradossalmente l'Europa si salva da questa disidentificazione più grazie alla pluralità delle Nazioni che ha fin qui oppresso che grazie alla forza delle sue Nazioni dominanti. Torno all'esempio italiano dove le forze politiche di destra, ancorate all'interesse del vecchio nazional-statalismo, sono molto forti, hanno già avuto accesso al potere, presumibilmente torneranno presto al potere. E' quello che potremmo chiamare "autofascismo", cancro del centralismo che colpisce chi lo ha scelto come strumento di dominio e di oppressione. La crisi delle forze politiche storiche, travolte in Italia come altrove, da gravissimi fenomeni di corruzione ne è testimonianza. Alcuni elementi inoltre, ricorda Paolo Di Nicuolo che cito quasi testualmente, dimostrano il fatto che il pluralismo politico, assicurato attraverso i partiti e la sovranità del popolo esercitata attraverso le elezioni, non corrispondono a nessuna realtà. Il suffragio universale richiederebbe il rispetto di tre condizioni:
1 - la perfetta informazione degli elettori (ma sappiamo, soprattutto in Italia, quanto la manipolazione dell'informazione sia importante per costruire e gestire il consenso; Berlusconi più che ex capo del governo e probabile futuro capo del nuovo governo italiano, è leader di un impero telematico e telecratico);
2 - la razionalità delle scelte dell'elettore (ma ciò è possibile soltanto a livello locale dove candidato ed elettori sono vicini, altrimenti nessun correttivo tecnico, neppure i collegi uninominali, può consentire il superamento di questo gap democratico);
3 - il rispetto da parte degli eletti della volontà degli elettori (condizione che, in assenza del rispetto delle due condizioni precedenti, è lasciata all'arbitrio degli eletti).

I partiti politici definiscono arbitrariamente i loro programmi, scelgono preventivamente i loro candidati, agiscono in un intreccio di situazioni nelle quali forti sono le influenze lobbystiche le quali mirano ad assicurarsi potere ed influenza anche nei settori nei quali non hanno un interesse diretto. Il sistema statuale della formazione delle volontà superiore non riveste i canoni della democraticità. Lo Stato ha assunto perfino competenze nel campo sociale che dovrebbero essere basate sull'iniziativa privata, sulla famiglia, sul volontariato.

Il parlamentarismo è in declino: i parlamentari sono sempre più esautorati nelle loro funzioni legislative da un esecutivo invadente e dalle decisioni assunte a livello "tecnico". Una delle preoccupazioni che accomuna tutti gli europei è, oggi, quella di ricostruire una democrazia che sia vicina all'uomo.

Ora per arrivare, finalmente, alla nostra proposta di Europa federale dei Popoli dobbiamo ricapitolare le condizioni, necessarie per una buona federazione.
La nostra federazione dovrebbe raggiungere quattro obiettivi:
1 - far scomparire la condizione minoritaria delle Nazioni;
2 - istituzionalizzare le Nazioni;
3 - assicurare un buon equilibrio tra i componenti la federazione;
4 - avvicinare la democrazia all'uomo.

La Federazione degli Stati attuali non soddisfa nessuna di queste quattro esigenze: non sopprime la condizione minoritaria, spezzetta le Nazioni, è segnata da una grande disuguaglianza dei suoi membri, non dà soddisfazione alle esigenze di una nuova democrazia. Una federazione di Stati che comprenda anche alcune Nazioni assurte, grazie all'esercizio del diritto alla autodeterminazione, a istituzione statuale, non sopprime tutte le condizioni minoritarie, non istituzionalizza tutte le Nazioni, non soddisfa neppure le due ultime esigenze. Una federazione di tutti gli Stati ottenibili attraverso esercizio complessivo della autodeterminazione, mentre risolve ipoteticamente le prime due esigenze non dà automaticamente risposta alle altre.

Una federazione di Regioni può deminorizzare le Nazioni, ma non le istituzionalizza e non può neppure riequilibrare il peso dei suoi componenti: quanto peso politico avrebbero le Nazioni estone o slovena a confronto con quella italiana, tedesca, ecc.? Di contro potrebbe soddisfare l'esigenza di avvicinare la democrazia all'uomo, il potere al cittadino. Ci troviamo, quindi, di fronte al problema teorico assai complesso di definire il nostro moltiplicatore federalista. Riccardo VuilIermoz nel suo studio inedito sul federalismo di Alexandre Marc ci aiuta ad essere sintetici: ci sono due tipologie di trasformazione che conducono alla costituzione di un sistema politico federale, quello di federalizzare e quello di federare. La federalizzazione consiste nella trasformazione di un sistema centralizzato (i singoli Stati in Europa) in un sistema federale. La Federazione aggrega più realtà per costruire una entità sopranazionale.

La nostra problematica si risolve qui: contro la federalizzazione (benché in Italia la trasformazione dello Stato centralista in stato federale sia considerata una tappa importante) e contro il falso federalismo (il confederalismo), il federalismo delle Nazioni senza Stato si pone l'obiettivo di superare gli stati sovrani sia verso il basso che verso l'alto, costruendo l'Europa attraverso il principio che Guy Héraud chiama "esatto adeguamento": dal livello più basso (cioè dai Comuni) si arriva all Europa passando attraverso le Regioni (non concepite in quanto strutture del decentramento statale, ma in quanto realtà territoriali) e fino alle Nazioni, senza intervento dello Stato che - di fatto - non deve più esistere.

Inevitabilmente la difficoltà a concretizzare questa teorizzazione comporta un blocco politico: fino a quando la forma dello Stato sussiste, è inevitabile che le Nazioni senza Stato possano e/o debbano pensare che costruire un proprio Stato sia la soluzione ottimale, prima e indipendentemente da qualsiasi altro ragionamento: l'indipendentismo diventa, così, una semplificazione della rivendicazione della "libertà", considerando che tutto il resto non sarebbe altro che ostacoli frapposti al suo esercizio ed al suo godimento.
Il moltiplicatore entra in funzione, quindi, solo quando il problema della sovranità sia chiarito e definito affermando che l'esistenza degli Stati va superata, anche se poterlo decidere bisogna essere degli Stati.

3 - IL MICRONAZIONALISMO .: su :.

Argomenti contro il micronazionalismo etnico
Articolo di Roberto MANCINI pubblicato sul numero 20 di "Informazione" (2a quindicina, novembre 1999), organo valdostano del MAV (Movimento Verde Alternativo).

Il problema politico fondamentale per chi non abbia rinnegato completamente il marxismo è quello di ricordare il vecchio Karl Marx di Treviri applicando creativamente le parti non caduche del suo pensiero. Cosa significa ad esempio l'affermazione secondo cui "la storia si manifesta prima in tragedia e poi si ripete in commedia"?

Il razzismo riciclato del dopoguerra
Il pensiero razzista europeo non è morto nel 1945, quando sono stati sconfitti gli stati guidati dai partiti fascista e nazista. Il razzismo è sopravissuto alla sconfitta di Hitler e Mussolini e si è riciclato, presentandosi in forme storicamente nuove e differenti. Ecco il significato dell'affermazione di Marx: ricercare i neo-razzisti moderni pensando che essi si aggirino nella società come un tempo, vestiti in orbace e con la svastica al braccio, è ingenuità incredibile. Se questo è l'approccio della Sinistra valdostana al problema, si tratta di un atteggiamento dilettantesco, frutto di ritardo intellettuale e culturale,
Come riconoscere dunque i neo-razzisti contemporanei? Come snidarli? Come individuarli non in Alabama o in Ucraina ma qui, sotto i camuffamenti che adottano a Introd oppure ad Arnaz, o a Jovençan (tre Comuni della Valle d'Aosta, ndc) memori del vecchio proverbio norvegese secondo cui "se ognuno pulisce il marciapiede davanti casa sua, la città è pulita"?

Le teorie etnoculturali del pensiero "völkisch"
Un utile criterio può essere la conoscenza del pensiero völkisch, che si sviluppò nelle università tedesche tra gli anni 20 e 30, confluendo successivamente nel nazismo, La teoria "völkisch", termine che in italiano si traduce in "etnoculturale", sostiene la prevalenza di una concezione della cittadinanza che contrappone "das völk" a "the people", e fa sì che in Germania si sia applicato (e si applichi tuttora!) lo "jus sanguinis", il diritto del sangue: cittadino tedesco è solo chi discende da genitori tedeschi, parla tedesco e propaga la cultura tedesca.
Un lavoratore turco che lavora da 30 anni alla Mercedes non sarà mai un cittadino germanico a pieno diritto, dal momento che conserva le sue racines, la sua cultura turca, la sua lingua. Al massimo sarà un ospite (gastarbaiter, ossia lavoratore ospite) oppure un "tedesco d'adozione", come si usa dire in VDA, suggerendo così l'idea che "chez nous" giungano dall'Italia e dal mondo solo trovatelli, orfani o figli di ballerine di malaffare. Ricordate il consiglio comunale di Saint-Christophe (Comune della Valle d'Aosta, ndc) che nega la commemorazione di Falcone? Al povero giudice italiano venne negata la cittadinanza in omaggio allo ius sanguinis, non era figlio di valdostani e nemmeno "valdostano di adozione"!

La reciprocità del diritto di cittadinanza
La notazione interessante è la seguente: l'etnonazionalismo culturale del neo-razzismo non conosce la reciprocità dei diritti, per cui concede l'integrazione solo a chi abiura le proprie origini. Richiede ed alimenta il culto delle radici, ma nega agli altri la memoria delle proprie. Propaganda per sé l'orgoglio della nazionalità, lo vieta agli altri: guai a dichiararsi italiani in VDA! Al massimo ci si può dichiarare veneti, calabresi, lombardi, piemontesi., ma italiani mai! In soldoni: il diritto di cittadinanza, nelle repubblichine etniche, spetta solo a chi nega la propria nazionalità statuale.
The people significa invece "ius soli", diritto del suolo: la cittadinanza si acquisisce semplicemente risiedendo in un posto, e questa è la concezione tipica dello stato nazionale multietnico nato dalla Rivoluzione Francese. Secondo Bruno Luverà, " un valido indicatore per riconoscere i movimenti regionalisti etno-nazionalisti è fornito dal neo-razzismo differenzialista. L'importanza del fattore territoriale, coniugata alla tendenza ad assolutizzare l'identità collettiva, la difesa del "noi" contrapposto agli "altri"... caratterizza le teorie etno-nazionaliste in chiave differenzialista.Il rivendicato diritto alle differenze, attraverso la sacralizzazione delle diversità, produce meccanismi di segregazione ed esclusione". Conclusione: "il neo-razzismo ha mutuato alcune delle argomentazioni democratiche dell'antirazzismo, ed è proprio in nome del diritto alla differenza culturale o del diritto all'identità etnica che attualmente il nazionalismo xenofobo si manifesta e si legittima".
Insomma la modernizzazione del razzismo avviene spostandosi dalla biologia (razza) alla cultura (etnia), assolutizzando il "diritto alla differenza" o sacralizzando " l'elogio delle differenze". Non più affermazioni tipo "i negri sono scemi e puzzano", ma razzismo soft, contemporaneo e moderno: "i bianchi profumano a causa della loro storia e cultura".

Il micronazionalismo, una visione irrigidita e bloccata dell'identità
Secondo Claudio Magris, anziché di etnofederalismo è più opportuno parlare di micro-nazionalismo, poiché "esso implica una visione irrigidita, bloccata dell'identità, mentre essa è qualcosa di mobile, di fluido, che va costruito, smontato e ricostruito di continuo". Ancora Magris: "il micro- nazionalismo esiste......laddove l'ossessione della propria identità diventa predominante ed assorbe in misura esorbitante le energie individuali, immiserendo ed immeschinendo le persone in questa preoccupazione unilaterale".
La teoria volkisch insomma pone un'enfasi speciale sulla supremazia della nazione rispetto all'individuo, accentua la radicata convinzione che razze, nazioni e tribù siano le categorie umane fondamentali, rifiuta il concetto che le popolazioni siano flessibili e mutevoli, senza correlazione fra caratteristiche fisiche e culturali. Da qui nasce la disinvoltura culturale con cui il fascismo, in omaggio al "continuismo" della storia, dichiarava le camicie nere dirette discendenti della X legione di Cesare, ed i soldatini analfabeti di Puglia eredi dei pretoriani di Augusto. Metodo analogo usano Lino Colliard e Roberto Nicco, alfieri del continuismo valdostano.
Allievo delle teorie volkisch, avendo studiato in Germania negli anni 20, fu Hendrix Frensch Verwoerd, primo ministro del Sudafrica dal 1958 al 1966 e ministro degli affari indigeni dal 1950 al 1958, che introdusse nello statuto del suo Paese la parola apartheid, o "sviluppo separato". Secondo costui "nell'attuale contesto sudafricano i bianchi... hanno la missione di preservare la loro specificità, la loro cultura, la loro storia, la loro identità".

Le analogie di pensiero tra nuova Destra völkisch e federalismo etnico
Sempre secondo Bruno Luverà "tra il pensiero del federalismo etnico e quello della nuova Destra völkisch si possono individuare le seguenti idee-guida, assolutamente parallele:
a) il federalismo basato sul criterio etnico quale elemento costitutivo di un nuovo ordine europeo ("L'Europa delle regioni"), in cui alla disintegrazione degli Stati nazionali etnicamente eterogenei corrisponda la nascita di una federazione di Stati regionali ("pays d'état") etnicamente omogenei; il federalismo quale forma istituzionale che consenta l'esercizio del diritto all'autodeterminazione.
b) La richiesta di una nuova mappa politica dell'Europa, con la modifica degli odierni confini, considerati artificiali; la revisione dei confini (magari mascherata da euro-regione del Monte Bianco! ndr ) si configura come esplicito obbiettivo politico.
c) La priorità assegnata ai diritti collettivi, di gruppo, ("I diritti del popolo valdostano nei secoli"! ndr) rispetto ai diritti fondamentali dell'individuo; l'avversione verso l'universalismo.
d) Il rigetto della società multiculturale, considerata fonte di conflitti interetnici, la teorizzazione di forme di razzismo differenzialista.
e) L'esaltazione di comunità naturali e omogenee ("i popoli di montagna", ndr) contrapposte all'idea di nazione nata dalla rivoluzione francese.
f) La relativizzazione della democrazia liberale, che necessita di correttivi etnici.Un esempio recente di tali correttivi? La nefanda e felicemente abortita legge Cottino, Fiou, Martin (Consiglieri regionali valdostani) sul referendum dichiarava, al terzo comma dell'articolo 1, "non essere soggette a referendum... le leggi e disposizioni che riguardino la tutela di una minoranza" e al quarto comma "le leggi di organizzazione interna del Consiglio Regionale". Così ogni materia ( dall'indennità dei consiglieri alla produzione dei campanacci) sarebbe divenuta "blindata" in quanto attinente alla "difesa di una minoranza etnica".

Conclusioni: la Sinistra impotente contro gli "estremisti di centro"
Il concetto di "estremismo di centro" è stato riproposto dallo storico Giovanni de Luna per analizzare l'azione della Lega Nord, i cui princìpi e la cui tattica non hanno trovato spazio politico in VDA, per la semplice ragione che esso era occupato dall'UV.
Estremista di centro è colui...." che è stato capace di trasformare gli interessi in valori". Nota Luverà che "questi interessi diventano valori importanti nella misura in cui devono essere difesi contro gli altri. Con una forte aggressività. Con accanimento. Proprio osservando questa aggressività possiamo individuare il connotato più significativo di questo estremismo: una concezione perennemente conflittuale della politica". Non sembra il ritratto della VDA, regione ricchissima che si lagna di "genocidio culturale" dichiarandosi perennemente minacciata dal "risorgente centralismo dello Stato"? D'altra parte l'espressione in questione indica anche la capacità di diffusione e di sconfinamento nel centro politico da parte delle tesi della nuova Destra, fenomeno evidentissimo in VDA dove almeno 30 consiglieri su 35 si definiscono "centristi", pur ispirandosi ( o adeguandosi per inconsapevole opportunismo) alle teorie del separatismo etnico.

I pericoli della rimozione storica
La Sinistra valdostana è squassata da un temibile problema: fino a quando non cancellerà le censure e le rimozioni storiche del primo dopoguerra, non riuscirà a capire ciò che succede in VDA. Già in campo nazionale si è visto come la Resistenza, per comprensibili esigenze collegate alla Guerra Fredda, per anni sia stata presentata solo come guerra di liberazione nazionale. C'è voluto, nei primi anni 80, oltre ad un più generale processo di distensione, il coraggio di uno storico quale Claudio Pavone per delineare gli altri due aspetti della lotta armata: la guerra civile e quella di classe.
Solo queste due altre chiavi di lettura consentono di capire pienamente il fenomeno Resistenza, che non si esaurì nel solo moto contro l'occupazione straniera.
L'omertosa Sinistra valdostana mantiene il più rigoroso silenzio sul triennio 1943-46, quando forze secessioniste foraggiate dalla Francia gollista tentarono il colpo dell'annessione a Parigi. Già allora parte del fenomeno non era giustificato dalla sacrosanta avversione al Fascismo (che peraltro aveva seminato maggiori lutti e rovine in altre regioni d'Italia), ma dal semplice calcolo opportunistico di schierarsi con i vincitori della guerra. L'operazione consentiva un duplice risultato: dare voce al tradizionale sentimento xenofobo del localismo etnico e contemporaneamente ricreare una verginità politica alla VDA, sopravvalutandone la partecipazione alla Resistenza., Al Fascismo veniva così attribuita la caratteristica di un movimento "italiano" di importazione, estraneo alla società valdostana che vi si sarebbe mantenuta estranea.. Si tratta di una evidente menzogna razzista, facilmente smentibile dalla sola pubblicazione dei nominativi dei podestà di Aosta, quasi tutti valdotains doc.
In questo contesto storico di partenza si colloca l'ultimo ventennio, in cui la VDA diviene il laboratorio privilegiato dell'applicazione delle teorie separatiste espresse dalla nuova Destra europea. Una cosa sono le regioni negli stati, un'altra le regioni contro gli stati., E se la chiave di lettura della recente storia politica di Deffeyes'square (il riferimento ironico è al Palazzo della Amministrazione regionale della Valle d'Aosta, sito in Piazza Deffeyes, ndc) fosse quella di una minuziosa, intelligente, accurata guerra etnica combattuta con armi soft contro gli italiani e contro la Repubblica? E se noi italiani, per ignoranza e per opportunismo, non ce ne fossimo nemmeno accorti?

L'internazionale etnonazionalista, sigle e uomini della secessione leggera.
Intereg: (Internationales Institut fur Nationalitatenrecht und Regionalismus, ossia Istituto Internazionale per il diritto dei gruppi etnici e il regionalismo). Finanziato attraverso la Bayerische Landeszentrale fur Politische Bildungsarbeit (ente centrale bavarese di istruzione politica), fino alla sua scomparsa è sostenuto caldamente da Franz Joseph Strauss. Nella dichiarazione istitutiva dell'Intereg si precisa l'obbiettivo di una " relativizzazione degli stati nazionali", al fine di conseguire "l'affermazione di un diritto dei gruppi etnici e dei princìpi dell'autodeterminazione e dell'autonoma stabilità delle regioni".
BdV: (Bund der Vertriebenen), è l'associazione regionale dei tedeschi espulsi dopo il 1945 dai territori orientali del Terzo Reich.
Intereg nasce grazie al land della Baviera e su iniziativa dei profughi dei Sudeti, la regione popolata da tedeschi grazie a cui Hitler invase la Cecoslovacchia. Il BdV non riconosce gli attuali confini della Germania
SL: (Sudetendeutsche Landsmannschaft), è la lega dei profughi dei Sudeti.
Fuev: (Foderalistiche Union Europaischer Volksgruppen), Unione federalista delle comunità etniche in Europa. Per gruppo etnico, secondo la Fuev, si intende una comunità che si definisce "attraverso caratteri che vuole mantenere come la propria lingua, cultura e storia".
Nel 1961 il Ministero degli esteri di Bonn attribuiva a questa organizzazione "l'intento di alimentare artificialmente questioni delle minoranze lì dove non erano presenti, al fine di provocare disordini". Dopo la caduta del muro di Berlino e dell'Urss, tre milioni di cittadini di origine tedesca sono presenti negli stati post sovietici, per cui Bonn, dopo il 1989, ha iniziato a finanziare la Fuev.
VdA: ( Verein fur das Deutschum in Ausland), associazione per la germanità all'estero
Alain de Benoist: è il massimo teorico del razzismo differenzialista.
Guy Héraud: coeditore di Europa Ethnica, organo ufficiale della Fuev e di Intereg, figura nel comitè de patronage della "Nouvelle Ecole, la rivista della nuova Destra francese.E' il padre del federalismo etnico (pudicamente chiamato "integrale") , la dottrina istituzionale che presenta le "piccole patrie", nate dalla secessione dallo Stato nazionale multietnico, come l'estremo bastione contro la globalizzazione. Si tratta di comunità locali in cui la gente si sente protetta da vincoli di omogeneità innanzitutto culturali e linguistici, appunto perché secondo Héraud l'etnia è definita in base alla lingua, criterio principale e giustificazione della nazione. A più riprese ha insegnato in VDA durante i corsi estivi del "Centre d'Etudes Federalistes".

Ma l'Italia esiste?
"Ma questo Paese, oggi così incerto di sè, non è nato con Cavour e Garibaldi. C'era già prima, e da tempo immemorabile, dato che lo si vede correre, con una sua precisa fisionomia, sugli accidentati percorsi della storia da almeno 2500 anni. Ci doveva essere, eccome, nel Duecento, se ha unificato la lingua (letteraria, certo, come tutte le altre) ben sette secoli prima della sua unificazione politica, amministrativa e militare: evento unico nella storia d'Europa."
Saverio Vertone. Prefazione a" Il carroccio tradito" di Enzo Carnazza, Edizione Bietti. Milano 1998.

"E' presente ... una cattiva tendenza a creare unità più piccole, che si vorrebbero omogenee ... La peggiore delle prospettive è la cosiddetta Europa delle Regioni, in cui unità nazionali omogenee - e quindi intolleranti - si uniscono con una formazione sovranazionale retorica e debole".
Ralf Dahrendorf

4 - ARGOMENTI A FAVORE DEL MICRONAZIONALISMO .: su :.

(Risposta inedita)
Agli "argomenti contro" proposti sul numero 20 di "Informazione" (2a quindicina, novembre 1999), contrappongo questi "argomenti a favore", non tanto perché io ritenga che le argomentazioni di Roberto Mancini, autore delle due pagine in questione, siano del tutto errate, ma perché egli mescola considerazioni culturali oggettivamente valide e strumentalizzazioni passionali delle stesse. E soprattutto perché in queste ultime settimane intorno alla questione del micronazionalismo austriaco è stato sollevato un dibattito deviante e bugiardo. Tanto per sgombrare subito il campo da ogni possibile sospetto circa la possibilità che anche miei intendimenti vogliano essere - come i suoi - strumentali, dico subito che riconosco la precisione ed il rigore dell'analisi che caratterizza abitualmente gli scritti di Roberto Mancini (è la scuola marxista che porta a questi risultati?); proprio per questa ragione, però, stigmatizzo le imperfezioni del suo lungo articolo "contro", frutto non di un'incapacità di documentarsi correttamente, ma del gioco scorretto che gli fa scegliere referenti e riferimenti culturali chiaramente faziosi.

I libri che Mancini cita e da cui attinge a piene mani, sono quanto di più nazionalista sia stato scritto in questi ultimi anni; questo non mi scandalizza affatto, quindi non criminalizzo gli autori, perché anch'essi - come tutti - hanno diritto alle loro opinioni; mi infastidisce, però, che si tenti di presentare opinioni ed idee come verità oggettive e scientifiche.

Il loro nazionalismo che, per intenderci, chiamerò qui di seguito "macronazionalismo", nasce come inevitabile risposta ai successi del "micronazionalismo" che ha messo in crisi la cultura dominante, ne ha evidenziato l'inadeguatezza. E il "micronazionalismo", a sua volta, è nato per rispondere agli eccessi del macronazionalismo. L'uovo e la gallina ... Il vero problema, a mio avviso, è che restano inspiegabili le ragioni per le quali alcune Nazioni hanno il loro Stato, altre Nazioni no e - addirittura - ci sono Stati che o non hanno nessuna identità nazionale o, al proprio interno, ne hanno più di una.

Indipendentemente da come si reggono questi Stati, quale è la fonte e quale è il diritto che consente tutto ciò? Se sono le ragioni della storia a prevalere, allora dobbiamo osservare che la storia non é finita e che, quindi, ciascun micro o macronazionalismo può ritenere (a torto o a ragione non importa, la storia non si fa problemi etici o di giustizia e verità assolute) di aver diritto ad assumere una propria forma istituzionale e a vederla riconosciuta nel contesto internazionale. Se sono le ragioni dell'identità a prevalere, allora è ancor maggiormente inevitabile che chi ha o crede di avere un'identità, possa ritenere che ciò gli dia dei diritti, ad esempio quello ad accedere alla autodeterminazione politica.

Purtroppo le ragioni della storia portano a considerare che, se necessario, la violenza può diventare uno strumento di liberazione e di affermazione del micro o del macronazionalismo; le nazioni senza Stato hanno imparato da quelle che uno Stato ce l'hanno, che il ricorso alla violenza diventa esecrabile soltanto se non accompagnato dal successo della lotta intrapresa: storicamente, il terrorismo che determina la nascita di uno Stato diventata gloriosa epopea di liberazione nazionale, mentre quello che non approda a nessun risultato resta inaccettabile scelta sanguinaria.

E le ragioni dell'identità portano a fornire un alibi culturale e nobile, vero o falso che sia, alla lotta politica che i micro ed i macronazionalismi portano avanti per tentare di modificare la storia a loro favore. Personalmente non ho avuto nessuna difficoltà ad andare ben oltre quanto affermato da Mancini: mentre egli accusa il micronazionalismo di esser responsabile, anche in Valle d'Aosta, dei guasti causati da una "nuova destra" e da una sorta di "estremismo di centro" valdostano, evidenzio il rischio che il micronazionalismo produca addirittura quello che ho chiamato "fascismo nazionalitario", qualcosa di ben diverso e ben più grave delle semplici strategie politico-amministrative per conquistare spazi di potere. Il fatto è che il macronazionalismo italiano non ha messo l'Italia soltanto a rischio di diventare fascista, ma ha portato il fascismo al potere per oltre un ventennio: inoltre i prodromi e le conseguenze di tale macronazionalismo e di tale fascismo hanno pesantemente e negativamente caratterizzato l'intera storia italiana di questo secolo.

Nelle due pagine di Mancini, quindi, stonano le foto di D'Annunzio e Corradini (l'articolo di Mancini è stato pubblicato corredato di foto e cartine geografiche, ndc), portavoci del macronazionalismo italiano, perché nulla hanno a che fare con le ragioni addotte dai micronazionalisti; questi, tutt'al più, se un riferimento possono avere avuto nella cultura italiana, è stato un riferimento libertario e l'hanno trovato in Salvemini e in Gramsci, tenaci oppositori del macronazionalismo e coerenti sostenitori di una diversa concezione dei diritti dell'identità. Stonano, quindi, anche le citazioni tratte da Luverà, Dondi e Rumiz: che siano dei macronazionalisti a smentire le ragioni dei micronazionalisti non può essere un fatto culturale, è pura contrapposizione. Potrebbe aver ragione, Mancini, soltanto quando insinua (ma gli accenni in tal senso sono troppo deboli ed incerti) che è il nazionalismo ad essere un fatto negativo in se, nella dimensione micro o macro, nella prospettiva economica come in quella identitaria. Potrebbe soltanto, perché - in realtà - il senso di appartenenza ed il senso della identità collettiva, sono presenze costanti nell'umanità, e solo nella scelta del tipo di lotta da portare avanti possono diventare negative o positive. L'esaltazione dei diritti collettivi che Mancini critica definendoli un assurdo regressismo ed un atteggiamento di sostanziale rifiuto dei diritti dell'uomo, è patrimonio della sinistra che lottò per l'emancipazione degli oppressi descrivendo, nella "Carta di Algeri", i diritti dei popoli: era la sinistra di Lelio Basso.

L'affermazione dei diritti collettivi è patrimonio di un'altra sinistra che lottò per la liberazione del terzo mondo descrivendo ne "I dannati della terra" un nuovo sogno libertario: era la sinistra di Franz Fanon. L'affermazione dei diritti collettivi è patrimonio di un'altra sinistra ancora, quella che nella "Dichiarazione Universale dei diritti collettivi dei Popoli" esprime l'esigenza di costruire un'Europa ancorata a valori sociali e socialisti: è la sinistra Gallega, Basca, Irlandese che, attraverso formazioni politiche micronazionaliste, rappresenta i diritti dei lavoratori, dei proletari, dei lavoratori. Al senso di identità ci si può contrapporre, considerandolo un retaggio scomodo-inutile e pericoloso del passato e, in nome dell'uomo nuovo (libero - cioè - da tutti questi retaggi) inventato dal marxismo, auspicare che nella storia e nella società, altre e non quelle nazionali siano le aggregazioni solidaristiche tra i gruppi umani; ma poiché, piaccia oppure no, quell'uomo nuovo non esiste, la contrapposizione si riduce ad esser null'altro che contrapposizione.

Nella società moderna e contemporanea la tipologia delle contrapposizioni più diffusa risulta legata a due diversi modelli di gestione del potere: il potere lontano e centralistico e il potere vicino e localistico. Se in questa contrapposizione evidenziamo la ragioni economiche che caratterizzano i contendenti, magari l'uno arricchito perché sfruttatore e l'altro impoverito perché sfruttato, torniamo ad un problema di contrapposizione di interessi di classe. Se in questa contrapposizione evidenziamo che i contendenti parlano lingue diverse ed hanno una storia diversa, torniamo ad una contrapposizione nazionale. Se le ragioni economiche e quelle identitarie si propongono contemporaneamente, la contrapposizione finisce col diventare conflitto, perché è in gioco la sopravvivenza. Non sono poco i marxisti di grande prestigio che hanno studiato queste problematiche, giungendo a far propria la rivendicazione dei diritti delle nazionalità e dei micronazionalismi, pur collocandola in una visione paradigmatica incentrata sulla solidarietà tra gli oppressi, classi-popoli o gruppi sociali che siano.

Ed è proprio dal pensiero di costoro che possiamo trarre utili considerazioni sul fatto che il micro ed il macronazionalismo, ispirati da criteri di privilegio, di vantaggio, di mantenimento di posizioni di superiorità su altri, o di conquista di tali posizioni, diventano ingiusti ed ingiustificati. Il micronazionalismo, comunque, non è necessariamente di destra, così come non è il macronazionalismo. C'é addirittura il "paradosso Vertone", citato da Mancini: Saverio Vertone ex comunista, transitato a Forza Italia, scrive dell'Italia: "c'era ...da tempo immemorabile, ci doveva essere nel 200 se ha unificato la lingua..."; paradosso perché ciò che scrive Vertone, e Mancini approva, non è diverso da ciò che scrive Héraud, e Mancini stigmatizza; la sola differenza è che Vertone difende il diritto storico ed identitario di una nazione che è riuscita a darsi uno Stato, mentre Héraud difende il diritto storico ed identitario di Nazioni che non hanno o non hanno più uno Stato.

Potrebbe aver ragione, Mancini, a questo punto, se riportasse i termini della contrapposizione ad un problema di confronto sociale e politico tra destra e sinistra, per contrastare gli egoismi della prima e ridare respiro ai valori dell'altra. Potrebbe soltanto, perché dovrebbe fare i conti con il micronazionalismo di sinistra che, per restare in Italia, ha avuto nei sardisti, nei friulani, negli occitani personaggi significativi, con i quali Mancini finirebbe per risultare contrapposto per via del suo provocatorio e continuo ribadire la propria italianità. Potrebbe soltanto, perché un esponente di spicco come Luciano Caveri (Deputato della Valle d'Aosta, ndc), è addirittura diventato membro del Governo italiano, un Governo di sinistra-centro, deviando il micronazionalismo valdostano fino a farne una delle componenti del macronazionalismo, riproponendo la vecchia formula di convivenza della "petite" e della "grande Patrie".

Potrebbe soltanto, perché dovrebbe fare i conti con un documento del 1919, "il comunismo e la Valle d'Aosta" che la tradizione politica attribuisce a Gramsci e che la sinistra ha completamente dimenticato anche in questo anno di singolare e significativo anniversario: Gramsci vi afferma il diritto e l'importanza della lingua francese in Valle d'Aosta e testimonia della sensibilità che una parte della sinistra ha sempre mostrato per il ... micronazionalismo valdostano. In Valle d'Aosta è successo, così, che i difensori del micronazionalismo di destra e di centro si sono arroccati ed hanno costruito un'area monolitica, finendo coll'attirare in questa anche la sinistra; tutti gli altri o sono rimasti rappresentanti del macronazionalismo italiano, o sono risultati incapaci di proporre un modello diverso, essendo tradizionalmente legati a principi e concezioni sì di sinistra, ma superati come il vetero internazionalismo che intende la solidarietà tra i popoli come solidarietà tra gli Stati costituiti. Personalmente credo che le ragioni della storia e quelle dell'identità vadano mediate e riformulate attraverso la pratica di un nuovo diritto internazionale. E credo che questo diritto internazionale non debba essere applicato a favore di quelle Regioni per le quali l'egoismo economico è l'unica connotazione storica-identitaria-politica che possono addurre: è il caso della Padania.

Molti dei contenuti solidaristici e progressisti cui Mancini fa riferimento denunciando che mancano completamente nei progetti del micronazionalismo, sono - in realtà - adeguatamente considerati nel progetto di "nazione inclusiva" che ambienti indipendentisti (quindi micronazionalisti) portano avanti in alternativa all'egoismo regionalista italofilo di una parte dell'U.V in Valle d'Aosta, della SVP in Sud Tirol, del PsdAz. In Sardegna. Mancini potrebbe scoprire allora che tra il suo provocatorio dichiararsi italiano "contro" i valdostani ed il servilismo valdostano che perpetua volontaristicamente un sistema di dipendenza dall'Italia, c'è poca differenza: se lui parlasse e scrivesse in francese, o l'U.V. lo facesse in italiano, non emergerebbero sostanziali divergenze: tra macro e micronazionalismo così concepiti c'è un sottile collegamento, c'è un'incredibile ma reale complicità: nessuno sopravvive senza l'altro! Preferisco, quindi, restare in attesa di un Mancini rivoluzionario, capace di nuovi gesti di generosa rivolta, ad esempio a fianco dell'indipendentismo e della sua genuinità, per riconoscere che nel vero continuismo della storia e dell'identità dei valdostani (non in quello istituzionalizzato) nessuno è escluso, a patto che non lo siano per primi i valdostani stessi; credo non sia difficile per nessuno constatare che nella realtà valdostana debbano convivere componenti sociali ed etniche diverse (è questa la società multietnica?), ma che sussista il diritto dei valdostani di più lunga origine, ad esistere, ad esprimere la loro cultura, a parlare la loro lingua (a proposito, é il francoprovenzale!), ad ambire alla assimilazione spontanea e reciproca con gli immigrati.

In fondo la Valle d'Aosta non potrà mai essere altro che valdostana anche se la valdostanità crescerà e cambierà: la Valle d'Aosta non potrà tornare ad essere Tir Na Mor Arch, la Valle della Grande Orsa di celtica memoria, ma neppure potrà mai essere un territorio d'oltremare del Mahgreb, come la Guadalupa e la Martinica lo sono della Francia. Resta evidente che sussiste una collusione tra certe organizzazioni del micronazionalismo e la nuova destra europea, ma anche su questo ci sono alcune cose da precisare; anzitutto che non si tratta affatto di una novità: in epoche non lontanissime si verificarono tentativi di coinvolgere i movimenti micronazionalisti nelle strategie del terrorismo nero internazionale; questi tentativi furono messi in moto da nostalgici postcollaborazionisti del nazismo tra i bretoni, i fiamminghi ed i croati e furono smascherati dai micronazionalisti di sinistra, impegnati dall'accordo e dalla Carta di Brest a realizzare un'Europa socialista dei popoli. E resta evidente che molte delle organizzazioni micronazionaliste di destra o di centro estremo, si sono collocate nelle diverse organizzazioni internazionali, ivi compresa la FUEV, contestatissima da Mancini, il quale dimentica di sottolineare che fu addirittura presieduta da Severino Caveri (leader storico valdostano, zio dell'attuale deputato, Luciano, ndc) le quali non hanno davvero il coraggio di portare avanti un progetto "rivoluzionario"; queste si riconoscono in quel progetto di "Europa delle Regioni" che, non si dimentichi, é un progetto gradito agli Stati: se si farà l'Europa delle Regioni, infatti, consegnando loro briciole di potere, nessuno contesterà più la legittimità degli Stati costituiti e nessuno chiederà più l'autodeterminazione per le Nazioni senza Stato. Quello stesso Severino Caveri, inoltre, mentre attuava queste scelte internazionali, governava la Valle d'Aosta forte di un accordo tra UV e partiti di sinistra, in un periodo nel quale al PCI era preclusa qualsiasi possibilità di accedere al potere non solo nazionale, ma anche locale, e nel quale la Chiesa addirittura scomunicò quanti si resero complici di una simile alleanza politica.

E, per capirci fino in fondo, tra i micronazionalisti c'è chi non crede affatto che questa Europa sia un obbligo e che la si debba fare perché l'ha ordinato il dottore; c'è chi non crede affatto che la mondializzazione e la globalizzazione siano inevitabili e siano, invece, il risultato della dominazione americana su gran parte del mondo, della affermazione - cioè- di un ipernazionalismo. Propongo, in conclusione gli estratti di due documenti che corredano questa mia analisi e sostengono queste mie posizioni dimostrando, ad esempio, che "la costruzione del paese basco può avvenire solo con una visione di sinistra" e che "l'ondata di contestazione radicale degli anni 60 e 70 imprime una improvvisa svolta a sinistra alle rivendicazioni regionali che a lungo erano rimaste legate alla destra tradizionale". Sono così smentite le affermazioni di Mancini secondo le quali la difesa del micronazionalismo connota l'azione politica ed il pensiero della nuova destra.

4a - On ne peut construire le Pays Basque qu'avec une vision de gauche .: su :.

L'offensive que le Capital a lancé contre le travail est telle que des droits fondamentaux obtenus par les travailleurs, après des années de lutte, sont remis en cause. Le droit à un emploi et à une vie digne sont reconnus pour tous les citoyens comme des éléments de base pour que toute personne puisse s'intégrer dans une société. Pourtant la triste réalité nous démontre que même si l'économie croît à un rythme important et que beaucoup d'entreprises et de banques obtiennent des bénéfices toujours croissants, les poches des pauvreté augmentent et le chômage se maintient de façon structurelle à des niveau importants. Par ailleurs, la précarité dans le travail augmente de façon alarmante, les entreprises de travail temporaire en font leur choux gras et des secteurs entiers de la population comme la jeunesse, les femmes ou les handicapés subissent les conséquences de cette situation.

Il existe aujourd'hui au Pays Basque assez de richesse pour que tous les citoyens puissent vivre dignement, malheuresement cette richesse est mal repartie. Le patronat et l'administration ont refusé ces dernières années de faire le nécessaire pour résoudre le chômage et l'exclusion sociale en réduisant par exemple la semaine de travail à 35 heures et à établir un salaire social. Le syndacalisme basque ... a appelé à la lutte générale pour faire avancer cette revendication.

Si les organisations syndicales ont été le fer de lance de cette grève, les forces politiques et autres mouvements sociaux qui souhaitons construire un Pays Basque plus juste et solidaire avons pris part à la mobilisation... Il a étè mis en évidence que le processus politique qui démarre avec l'Accord de Lizarra-Garazi ... se base sur la nécessité de construire une sociétè intégrée pour tous les citoyens basques à partir des valeurs de la gauche... La rupture du blocage informatif entre les pays, l'internationalisation des conflits, la coopération entre les organisation en lutte pour la liberté de leur pays, la coordination de l'Internationalisme Solidaire pour former un front mondial de luttes dignes et justes contre la globalisation capitaliste, gênent le système. C'est pour cela qu'il réagit par la répression ...

Nous pouvons aujourd'hui affirmer avec fierté que nous avons été et que nous continuons de l'être un des pays les plus solidaires et internationalistes... Celà répond à la nouvelle conception de la solidarité basque avec les peuples du monde et aussi des autre peuples du monde avec le Pays Basque.
Euskal Herria


Stato e nazione: verso il divorzio?
Lo Stato nazionale sembrava ormai un dato acquisito, storicamente irreversibile. Eppure oggi è in crisi e proprio in quei paesi in cui sembrava aver le radici più profonde. In Europa sono ormai molte le popolazioni minoritarie fra cui si assiste ad un risveglio di identità, cui si accompagna spesso la contestazione dei tradizionali apparati statali ... Secondo queste popolazioni va data priorità all'affermazione della loro identità collettiva che ha come elemento essenziale la lingua, anche nel caso in cui questa sia parlata solo da una minoranza della minoranza ...

Questa identità collettiva è inoltre cementata da un vivissimo senso del passato ... L'evoluzione dell'Europa moderna si è rivelata spesso per questi popoli una minaccia mortale. E' stata brutalmente erosa la loro base economica ... la corsa alla risorse naturali ha accentuato ancor più questo effetto negativo ... Il declino delle varie lingue è stato radicale ... Negli anni 60 e 70 si è avuto un improvviso rovesciamento di questa tendenza negativa. Le lotte di liberazione del terzo mondo, dal Vietnam alla Guinea Bissau, da Cuba alla Palestina, affermavano in modo dirompente la capacità di resistenza dei popoli dominati e la loro eco risuonava anche nella vecchia Europa ...

I fatti del maggio '68 sono stati l'espressione spettacolare di nuove idee e di nuove sensibilità... L'ondata di contestazione radicale imprime un'improvvisa svolta a sinistra alle rivendicazioni regionali che erano rimaste legate alla destra tradizionale. Oggi dopo alterne vicende ci sono filoni del pensiero di orientamento socialista che ritengono di difendersi contro l'egemonia capitalistica mediante un rafforzamento dello Stato; altre, invece, mettono sotto accusa direttamente lo Stato nazionale in quanto struttura di massificazione ...

Mentre la crisi dell'Europa orientale ha posto l'accento sui diritti individuali, dei dissidenti prima, dei cittadini poi, le dissidenze regionali dell'Europa Occidentale portano avanti, in primo luogo, una lotta per i diritti collettivi.
Jean Chesnaux

5 - L'INDIPENDENTISMO .: su :.

I PERCORSI DI UN INDIPENDENTISMO SOSTENIBILE
Documento presentato alla Conferenza delle Nazioni senza Stato (gennaio 2000, Barcelona)

La cultura dell'Autonomia come cultura della minorizzazione e della dipendenza
Nel corso dei 50 ultimi anni di storia vissuti in regime di dipendenza dalla Stato italiano, le nazionalità non hanno saputo produrre altra cultura politica che quella più congeniale al miglior funzionamento dello Stato, la cultura dell'autonomia amministrativa: lo Stato funziona meglio quando è amministrativamente decentrato e consente la sopravvivenza di istituzioni locali più vicine ai cittadini di quelle centrali che pur continuano a detenere e ad esercitare il vero potere; lo Stato, inoltre, è governato con più libertà di manovra per i detentori del potere, se le tensioni sociali che potrebbero prodursi al suo interno, sono sopite, controllate, gestite con forme di autogoverno locale più o meno ampie, concesse e permesse ad istituzioni attraverso le quali lo Stato continua ad amministrare il "suo" territorio.

La "specialità"
Lo Stato italiano rispetto alle nazionalità comprese e compresse nel suo territorio, ha agito ancor più subdolamente: il decentramento e l'autonomia hanno avuto una connotazione "speciale" ed una connotazione "ordinaria"; il trattamento "speciale" equivale al riconoscimento dell'esistenza di una situazione pericolosa per lo Stato e, per questo, opportunamente imbrigliata: ci sono - cioè - in Italia nazionalità che, senza forme di decentramento e di autonomia "speciali", potrebbero legittimamente affermare che i loro diritti sono violati e che, senza autogoverno, potrebbero considerare del tutto ingiustificata la loro collocazione all'interno de confini dello Stato italiano e sotto la sua sovranità.

Il soffocamento delle questioni nazionalitarie
Il sistema della "specialità" ha apportato un certo benessere ed una qualche ricchezza ad alcune nazionalità che hanno ottenuto un riconoscimento statutario e sono - oggi - delle Regioni Autonome a Statuto Speciale, ma è valida per tutte le nazionalità una considerazione espressa nel 1948 dai più accesi sostenitori della "question valdôtaine": il sistema delle autonomie speciali ha portato alla "endroumia", ha - cioè - addormentato e sopito le tensioni, proprio come lo Stato desiderava.

Per essere più italiani
Le forze politiche nazionalitarie hanno amministrato le loro Regioni esattamente come lo Stato voleva facessero; il fatto che negli ultimi tempi queste stesse forze politiche abbiano sottoscritto alleanze politico-elettorali organiche con partiti italiani, dove militano esponenti della partitocrazia che governa da 60 anni un'Italia centralista, significa che l'assimilazione alla logica politica italiana si è davvero completata.

Piccole patrie per rispettare un "equivoco" storico
Questo perverso legame con l'Italia, del resto, ha avuto un precedente ideologico nella considerazione delle nazionalità come "piccole patrie" all'interno della "grande patria", l'Italia. L'equivoco ha avuto un peso particolare poiché l'oppressione subita dalle nazionalità da parte del nazionalismo fascista, ha portato a considerare che ogni nazionalismo è negativo, mentre sarebbe positivo il "patriottismo" interno ad un sistema democratico Stato-nazionale.

Dipendenza psicologica
La questione nazionalitaria si è arenata a causa della incapacità o della impossibilità per le nazionalità, di uscire da una logica di dipendenza psicologica, prima ancora che politica ed istituzionale; quella stessa incapacità che ha determinato l'accettazione della autonomia e della specialità come progetti ultimi e non come punti di partenza verso la conquista di una sovranità vera e propria.

Il processo di liberazione nazionale delle nazionalità
Il processo di liberazione di cui le nazionalità hanno bisogno diventa, quindi, prima di tutto un processo di liberazione da se stesse, dalle stratificazioni di una cultura della dipendenza che si sono sovrapposte sul loro stesso tessuto culturale e sociale.

La consapevolezza dell'identità collettiva
Questo processo di liberazione deve essere, quindi, precedente a qualsivoglia strategia volta a proporre e rendere possibile l'esercizio del diritto alla autodeterminazione e, quindi, l'indipendenza e/o la costituzione di un proprio Stato. E' un processo difficile poiché non mira a restaurare un presunto passato bucolico ed armonioso, ma punta ad affermare una consapevolezza: all'esercizio del diritto alla autodeterminazione si può giungere solo riaffermando il dovere di preservare, insieme all'uomo, il suo rapporto con il territorio nel quale egli, insediato da secoli o giunto da poco (quindi autoctono o immigrato), può continuare ad essere valdostano, sardo, friulano, occitano, sudtirolese, ladino, ecc. Ben al di là, quindi, di una concezione del popolo come etnia e della etnia come razza!

Le certezze della lingua
Le parole delle apparentemente povere lingue delle nazionalità, non sono parole vane ed equivoche: ad ogni termine corrisponde qualcosa di preciso, di specifico, di indiscutibile; ed anche i concetti, le idee, l'elaborazione poetica e quella culturale che solo apparentemente non sono producibili nelle lingue delle nazionalità" (perché si ritiene siano soltanto delle parlate incapaci di andare al di là delle espressioni legate alla cultura materiale), corrispondono sempre ad un dato reale.

Il progresso come spoliazione o come valorizzazione dell'identità?
Lo scontro che ha visto le nazionalità perdenti dal punto di vista politico, è stato lo scontro con il progresso? E' stata l'industrializzazione, è stato il turismo, sono stati i media a mettere in crisi l'identità delle nazionalità? L'identità collettiva delle nazionalità è entrata in crisi per un'intrinseca arretratezza e per la conseguente incapacità di assorbire il nuovo, uomo o tecnologia o idea che fossero? La salvezza dell'identità sta nel suo vivere in se stessa e di se stessa, chiusa al mondo, impenetrabile, imperscrutabile nel suo conservare caratteristiche ataviche al limite del tribalismo?

L'humus dell'identità
Non abbiamo mai saputo davvero evidenziare il fatto che la dimensione del rapporto con il proprio territorio è stata l'humus dell'identità e della lingua delle nazionalità: quindi non il progresso ha sottomesso le nazionalità, ma il progresso concepito come sviluppo culturale che non le riguardava. Questa è stata la logica di chi ha voluto sfruttare le ricchezze delle nazionalità, sottomettendole; questa è stata la logica delle nazionalità stesse che non sono state sempre capaci di opporsi davvero allo sfruttamento che subivano. Quando le nazionalità perdono la loro capacità di autoaffermazione perdono parte della loro anima. Quando le nazionalità non sanno difendere il loro territorio, perdono parte della loro identità. Quando le nazionalità perdono la loro lingua, perdono l'unico modo per potersi rapportare al proprio territorio in modo autentico.

Le altre culture autoctone
Non è sciocco proporre riguardo alle nazionalità dello Stato italiano ed alle nazionalità europee, osservazioni analoghe a quelle che oggi vengono fatte nei confronti dei Pellerossa degli States, degli Aborigeni dell'Australia, ecc.

I pericoli della new age
Oggi le culture autoctone, infatti, sono tutte oggetto di grande attenzione da parte dei fautori della cosiddetta new age che altro non è se non un sincretismo religioso e culturale. Le culture dominanti hanno ormai esaurito i valori/disvalori con i quali hanno giustificato la loro assunzione di potere e la costruzione di un sistema mondiale basato sul rapporto tra dominio e minoranza che è risultato loro favorevole. Nel momento in cui i fenomeni economici, sociali e politici paiono assumere una dimensione mondiale (e da qui la mondializzazione), la new age costruisce una cultura universale, apparentemente buona per tutte le stagioni e per tutti gli angoli del mondo.

Un altro mondo è possibile
Con l'affermazione della new age non solo si crea una nuova cultura, ma si cancella l'autenticità delle ultime culture autoctone sopravvissute. Le culture autoctone paiono rappresentare l'antitesi della mondializzazione, poiché prefigurano la possibilità di una concezione diversa del mondo e di un diverso rapporto fra uomo e territorio, tra uomo e natura, rispetto a quelli che - invece - si affermano come prodotto di una civiltà che ha generato i genocidi, il rischio atomico, l'alterazione degli equilibri ecologici, ecc. La sacralità con cui il rapporto con la terra è vissuto dalle popolazioni autoctone, è un qualcosa di sconosciuto alle culture dominanti, tutte improntate sull'ipersfruttamento delle risorse, culture che mirano oggi ad impossessarsi di riti, credenze, usi, costumi, abitudini, riciclandoli a proprio uso e consumo, ottenendo due risultati: darsi un contenuto e far morire la prova che un'altra concezione del mondo è possibile.

Il rifiuto della mondializzazione
Come nazionalitari, dobbiamo convincerci di essere depositari di una visione del mondo diversa da quella che ha prodotto la mondializzazione; ancora una volta non perché il progresso ci debba allarmare, ma perché una certa concezione dell'uomo lo disumanizza: l'uomo delle culture dominanti non ha più risorse culturali, nel senso che ha perduto, sposando una concezione economica dello sviluppo inteso come sfruttamento delle risorse e degli altri uomini, la percezione del mito, della continuità della storia, della possibilità di una miglior utilizzazione non speculativa delle risorse che la terra ci fornisce.

La concezione dinamica della vita
Senza questa concezione "dinamica" della vita, l'uomo continuerà a giustificare ogni nuova guerra come se fosse l'ultima, mentre invece dovrebbe redistribuire la ricchezza in tutto il mondo e costruire un vero diritto internazionale che metta fine alla possibilità stessa dei conflitti. Solo con una concezione identitaria della vita (nel senso che l'uomo può vivere davvero soltanto se vive in una comunità in cui si riconosce, e nel senso che solo possedendo ed essendo partecipe di una identità collettiva può comprendere e rispettare le identità altrui) l'uomo non avrà bisogno di partire alla ricerca di una new age: l'umanità è - originariamente - una soltanto sulla terra e se di differenziazioni culturali ha avuto bisogno per vivere ai quattro diversi angoli del mondo, vuol dire che la diversità è una caratteristica imprescindibile affinché l'uomo possa continuare a vivere in qualunque angolo della terra ed in tutti. Il "popolo mondo" di cui si parla in questi tempi è il popolo della unità nella diversità.

La concezione dinamica dell'identità
Se nel suo territorio l'uomo delle nazionalità ha potuto vivere e vive da millenni, noi nazionalitari di oggi siamo chiamati ad esser testimoni di come nel corso dei secoli, anche quando le nostre nazionalità sono state dominate, anche quando non siamo stati liberi, abbiamo - almeno in parte - conservato la nostra identità; la concezione dinamica della storia comporta il rendersi conto che nulla nella storia è definitivo e che l'identità collettiva dei popoli o vive o sopravvive oppure scompare, come scompaiono le specie animali e le varietà vegetali. Certo anche quando vive o sopravvive l'identità si trasforma: ciò che è importante, tuttavia, è che le trasformazioni siano il frutto di una normale evoluzione storica e non la risultante di una dipendenza; ciò che è importante è rendersi conto che quando una identità scompare, le cause non sono mai naturali, ma indotte da altri uomini.

Il diritto degli Stati poggia sulla logica della sovranità
Nell'epoca in cui i sistemi politici sono retti dalle logiche della sovranità su cui poggia il diritto degli Stati, le nazionalità non possono rinunciare a rivendicare il diritto alla sovranità sul proprio territorio; e questo non per una adesione assoluta e teleologica al principio di sovranità e all'idea di Stato, ma perché altrimenti è un altro Stato ad esercitare la sua sovranità sul loro territorio.

I mutamenti tecnico-scientifici nuovo strumento di alienazione?
In condizione di dipendenza, lo abbiamo visto, l'identità riesce a sopravvivere ugualmente, e le nazionalità sono sopravvissute fino ad oggi. I mutamenti in atto per effetto della mondializzazione sono, però, più rapidi e più profondi di qualsiasi altro mutamento prodottosi nei secoli precedenti: noi non possiamo essere certi che questi mutamenti ci portino davvero da qualche parte e, soprattutto, non si capisce per quale ragione debbano portarci fuori da noi stessi.

Una logica distruttiva
Temiamo fortemente che l'umanità stia correndo verso il baratro della distruzione della natura e della vivibilità stessa sulla terra; la scienza medica, è in grado di intervenire su molte delle più gravi malattie che affliggono l'uomo, ma nessuna scienza risolve la fame ed il sottosviluppo che sono la malattia della società dello sviluppo, più interessata a progetti di modificazione genetica dell'essere umano che solo il nazismo avevo fino ad ora osato ipotizzare, che a salvare i propri simili dalla fame e dall'impoverimento.

La sovranità é irrinunciabile
In questo mondo, in questa epoca, quindi, per le nazionalità l'esercizio della sovranità è irrinunciabile, la costruzione di un proprio Stato è irrinunciabile, l'affermazione della propria lingua è irrinunciabile.

Una azione politica nata da una filosofia della vita
Se tutto ciò basta a spiegare l'esigenza di un movimento che si faccia portatore di una filosofia della vita stessa, dobbiamo tornare ad alcune considerazioni iniziali per evidenziare che le nazionalità dello Stato italiano, cresciute in condizione di dipendenza, e talora in una dipendenza dorata (dalla quale - cioè - hanno tratto ricchezza apparente), hanno perduto gran parte della capacità di dare alle parole un significato reale.

Liberarsi dalle parole della dipendenza
La potenza di una lingua/espressione, di una cultura materiale è proprio quella di poter dar concretezza alla immaterialità, al pensiero, all'idea; parlando di indipendenza noi dobbiamo liberarci della crosta di "parole" che si è formata sulle ferite delle battaglie delle singole nazionalità senza guarirla: autonomia, regionalismo, federalismo, Europa ed un vocabolario di mille parole della politica utilizzate quotidianamente, sono prive di significato o, peggio, significano tutto e il contrario di tutto, riuscendo a costruire il più perverso dei sistemi della dipendenza, la dipendenza intellettuale e culturale nel nome dell'autonomia.

No ai compromessi
Il primo richiamo è, quindi, ad una "liberazione nazionale" tutta interna alla nostra cultura, alla nostra politica, alla nostra religiosità, ai nostri sentimenti; l'obiettivo non è certo quello di vivere un periodo di ascetismo intellettuale per "purificarci", ma quello di non accettare alcun compromesso intellettuale, evidenziando che le parole della autonomia, la cultura della autonomia di cui si è alimentata la stessa battaglia politica che ci è stata trasmessa come un valore positivo, sono false e straniere. In un certo senso dobbiamo prepararci ad un periodo di clandestinità culturale, ben sapendo che non saremo capiti, ma - più facilmente - saremo fraintesi.

L'uomo
Ridare il giusto significato alle parole, significa ridare un significato ai rapporti tra gli uomini: quando si dice che la parola data è sacra non si fa solo riferimento ad un detto popolare, ma ad una saggezza popolare. Ridare significato ai rapporti tra gli uomini significa ricostruire un sistema di vita "insieme" nel quale, "insieme", è possibile riconoscere quella "dinamicità" della storia che ci fa affermare - oggi - il diritto delle nazionalità all'indipendenza.

I primi passi dell'indipendenza
Se il processo di indipendenza parte, quindi, da una particolare dinamica di "liberazione nazionale", vissuta tutta al nostro interno, come sorta di resettazione culturale, il secondo passo riguarda le azioni da mettere in atto perché l'indipendenza sia possibile e possa essere attuata.

Le fonti del diritto
Prima di individuare le fonti del diritto e di pensare, quindi, di farvi ricorso, bisogna affermare che accedere all'indipendenza comporta l'acquisizione piena e totale della sovranità; attualmente la sovranità è esercitata dallo Stato italiano ed è allo Stato italiano che bisogna strapparla; l'obiettivo apparentemente chiaro risulta, in realtà, complicato dal fatto che lo Stato italiano ha delegato parte della propria sovranità all'Europa.

Fuori dall'Italia
Da questa considerazione nasce la constatazione che il nostro indipendentismo non può pensare ad un distacco delle nazionalità dall'Italia per restare automaticamente in Europa, poiché, ormai, l'Europa sta alle nazionalità esattamente come lo stesso Stato italiano sta in rapporto ad esse: l'Europa esercita sulle nazionalità, e sempre più la eserciterà, una parte della sovranità un tempo gestita dallo Stato italiano; è come se, invece di dipendere da uno Stato, le nazionalità dipendessero da uno Stato e un sovrastato. Il nostro indipendentismo, quindi, deve fare i conti con quella che potremmo chiamare la teoria della doppia dipendenza, teoria che individua nei meccanismi di costituzione dell'Europa, una complicanza ed una ulteriore difficoltà frapposta alla realizzazione di quel sogno che abbiamo chiamato Europa dei Popoli.

Fuori dall'Europa
L'Europa dei Popoli è, però, solo una alternativa ipotetica alla doppia dipendenza: è la ripetizione della ideologia (falsa filosofia) che ha legato le "piccole patrie" alla "grande patria" italiana. Ne consegue che il nostro indipendentismo si deve contrapporre, contemporaneamente, allo Stato italiano ed alla Europa e, ciò facendo, deve proporre un quadro diverso da quello europeo, uno scenario istituzionale diverso al cui interno le nazionalità che lo desiderano si possano collocare come Stati indipendenti.

Costruire uno Stato
Questo che può apparire un puro esercizio filosofico (nel senso che nella improbabilità di deprivare lo Stato italiano della propria sovranità sulla nazionalità e nella improponibilità di riuscire a star fuori dal mercato europeo, noi ci immaginiamo addirittura di costruire una Europa che dovrebbe essere il risultato del contemporaneo accesso alla autodeterminazione da parte di tutti i Popoli europei, o - addirittura - di non costruire affatto neppure l'Europa dei popoli, ma altre aggregazioni di popoli) è, in realtà, una proiezione nella storia della utopia indipendentista. Chiarita la contestualizzazione storico-politica, possiamo più agevolmente indicare le fonti del diritto in nome del quale si potrà accedere all'autodeterminazione e, quindi, all'indipendenza ed alla costituzione di uno Stato per ciascuna nazionalità che lo desideri.

Il diritto alla Autodeterminazione
Il diritto internazionale riconosce, sulla carta, il diritto dei popoli alla autodeterminazione, ma non chiarisce quali siano i popoli; questo non costituisce implicitamente il riconoscimento del diritto alla autodefinizione, da cui potrebbe derivare la possibilità di applicare effettivamente il diritto per quanti si definiscano un popolo; né sancisce l'esistenza di una autorità internazionale cui i popoli possano rivolgersi quando intendano risolvere il problema del loro status di dipendenza, liberandosi e rendendosi indipendenti. Poiché questo diritto è stato disegnato dagli Stati costituiti, esso non potrebbe in alcun modo comportare l'accesso alla autodeterminazione da parte di tutti e di chiunque, in quanto ciò costituirebbe una destabilizzazione degli Stati stessi: il diritto internazionale formula, quindi, un principio generico che fissa - in sostanza - l'applicabilità della autodeterminazione solo quando i popoli abbiano la forza di imporla.

Il diritto internazionale come legittimazione del dominio degli Stati
Il diritto internazionale e il diritto interno ai singoli Stati, hanno - tuttavia - sopito le tensioni indipendentiste, applicando le regole del rispetto e della tutela delle minoranze etniche le quali, altro non sono - come abbiamo già visto - che popoli senza Stato ai quali pur di non riconoscere il diritto a diventare Stati, si applicano norme speciali di autonomia, di autogoverno, di decentramento, di tutela linguistica preservando, tuttavia, ad un centro l'esclusivo esercizio del potere. A tal punto il diritto internazionale si è fatto perverso da aver promosso una cultura della pace che criminalizza le rivendicazioni indipendentiste, considerando le loro rivendicazioni destabilizzanti di un equilibrio apparentemente "democratico". Poiché lo Stato applica o promette di applicare norme "democratiche" di tutela delle minoranze, se le nazionalità chiedono di più, diventano nemiche dell'ordine costituito e della legalità.

La criminalizzazione degli indipendentismi
I popoli senza Stato hanno sviluppato, per questo, loro documenti, loro Dichiarazioni Universali, nelle quali rifiutano di esser considerati delle minoranze alle quali un potere estraneo ed esterno applica o non applica, a suo piacere, norme di tutela parziale, senza riconoscere mai il diritto di tutelarsi e rappresentarsi da se. Questa azione a livello internazionale deve continuare ed accentuarsi non perché, così facendo, si afferma automaticamente un diritto diverso da quello concepito dagli Stati, ma piuttosto perché si afferma una diversa cultura del diritto: partendo dal rifiuto della criminalizzazione degli indipendentismi, si dimostra che la mancata applicazione del diritto alla autodeterminazione secondo modalità pacifiche, determina il ricorso ad una diversa strategia che i popoli senza Stato sono talvolta costretti ad adottare per avere un futuro.

Diritto alla violenza?
Sembra, infatti, che il diritto internazionale alla autodeterminazione entri in funzione solo quando, in virtù di tensioni e situazioni fortemente conflittuali, l'esercizio della stessa viene imposto o con le armi o con forme articolate e decise di disobbedienza civile delle cosiddette "regole democratiche". Se la criminalizzazione di queste rivendicazioni non ottiene effetti, per risolvere tali tensioni il diritto internazionale si limita a prendere atto della situazione e a riconoscere il nuovo Stato, i nuovi Stati che ne scaturiscono.

Genocidio
Ciò che deve crescere ed affermarsi, anche sulla base di corrette riflessioni su ciò che nella storia si è prodotto e si produce in merito alla tensioni indipendentiste, è - quindi - una nuova diffusa cultura: o il diritto alla autodeterminazione diventa un diritto che può essere concretamente esercitato in modi non violenti e veramente democratici, oppure le tensioni nel mondo non finiranno, oppure ancora se finiranno, sarà perché si sarà completato il genocidio dei popoli senza Stato.

Nazioni senza Stato
Per le nazionalità dello Stato italiano il diritto alla autodeterminazione deve, quindi, essere esercitato, in primis, rispetto all'Italia. Ed è rispetto all'Italia che il percorso indipendentista attua i suoi primi passi di "liberazione nazionale", rifiutando tutto il linguaggio autonomista e regionalista, rifiutando che le nazionalità vengano considerate delle minoranze, delle comunità, ecc., affermando che ogni nazionalità identifica un popolo, un popolo cosciente della propria identità e, quindi, una Nazione, una Nazione senza Stato poiché, la storia gli ha negato, fino ad oggi, l'accesso alla autodeterminazione.

Rifiutare il (falso) federalismo
Il rifiuto più difficile, almeno dal punto di vista psicologico, da frapporre alla cultura autonomistica è il rifiuto del federalismo, un rifiuto da esprimere non come rinuncia aprioristica al federalismo stesso, ma come necessità di chiarire che cosa sia il federalismo: il federalismo cui le nazionalità pensano, ipotizzando la trasformazione dello Stato italiano, oggi non ha più lo stesso significato che aveva quando venne formulata dalla Dichiarazione di Chivasso (Dichiarazione dei popoli alpini, dicembre 1943); oggi il federalismo di cui si discute in Italia non è altro che una proposta neoregionalista per far funzionare meglio lo Stato italiano e per consentire allo Stato di conservare l'esercizio del potere

Alexandre Marc contro gli Stati
Il rifiuto del federalismo, inoltre, evidenzia un problema di carattere ideale se non ideologico: il federalismo integrale o globale, quello - per intendersi - che si rifà ad Alexandre Marc, non concepisce la nozione di Stato come noi la percepiamo e cerchiamo di realizzare; il suo federalismo supera, scavalca, nega lo Stato e la sovranità; é un sistema teoricamente perfetto, nel quale ogni decisione viene assunta al livello che è in grado di assumerla, senza sovrapposizioni. Possiamo noi accettare questa analisi? Se le nazionalità si trovassero in un'altra situazione e non nella situazione di dipendenza in cui si trovano, senz'altro sì. Noi non possiamo considerarci paladini dell'idea di Stato in senso assoluto, ma - piuttosto - dobbiamo chiarire che avere un proprio Stato è l'unico strumento che può consentire ad un popolo di sedere liberamente nel Consesso delle istituzioni internazionali che sono formate da ... rappresentanti di Stati. E se anche la logica dello Stato non è ottimale, non si può rinunciare ad adottarla, perché, così facendo, si rimane sostanzialmente dipendenti da un altro Stato.

Gli Stati sono superati?
La logica secondo la quale gli Stati sarebbero, ormai, superati sembra risultare valida solo per i popoli/Nazione senza Stato e questa è una beffa: ora se per un "miracolo" della storia la sovranità degli Stati attuali venisse meno, anche noi potremmo rinunciare all'obiettivo di costruirci uno Stato; ma il superamento degli Stati è soltanto presunto e viene ipotizzato unicamente per impedire a chi non ha un proprio Stato di conquistarselo.

Guy Héraud e l'Europa dei Popoli
Potremmo, allora, seguire l'altra corrente del pensiero federalista globale o integrale, secondo le linee tracciate da Guy Héraud; ma qui interviene un altro equivoco, quello di ipotizzare che questo federalismo integrale trovi attuazione nell'Europa. Anche l'Europa è un sogno, o forse addirittura un mito: così come dobbiamo rinunciare al federalismo, dobbiamo pure rinunciare all'Europa in quanto tappa obbligatoria della nostra storia. Anche quando le singole nazionalità diventassero indipendenti, se rimanessero automaticamente legate ai meccanismi dell'Europa; o se diventassero indipendenti solo nel momento in cui tutti i popoli lo diventano e nascesse l'Europa dei popoli, non potremmo, in nessun modo, dirci davvero indipendenti. Esercitando la nostra sovranità, infatti, dovremmo poter decidere come e con chi percorrere nuovi cammini della storia: se sarà con l'Europa e nell'Europa, e se questa Europa sarà l'Europa dei Popoli tanto meglio, ma altri sono gli scenari, almeno ipotetici che non dobbiamo precluderci di poter realizzare: per i valdostani la costruzione della Nazione francoprovenzale, ad esempio, dando vita ad istituzioni che governino quella che, per secoli, è stata l'ampia area geopolitica di cui il francoprovenzale era la lingua.; per i sardi la nascita di una Sardegna collegata ad istituzioni di cooperazione mediterranea, come prefigurato fin dagli anni 20 e 30 del secolo che si è appena chiuso; per gli Occitani la nascita, a scavalco delle Alpi, di una Nazione che non ha mai avuto un proprio Stato o proprie istituzioni vere e proprie, ecc.

L'essenzialità della rivendicazione indipendentista
Ciò che gli indipendentisti devono, quindi, apprestarsi a concretizzare è una semplificazione del linguaggio politico ed una nuova metodologia del pensiero, secondo la quale l'obiettivo è uno solo: l'indipendenza Questo obiettivo diventa l'elemento primario, sostitutivo di qualsivoglia ideologia, analisi sociologica, altra proposta politica, considerazione etica, sovrastruttura culturale, impegno elettorale. Tutto il resto deve avere per gli indipendentisti il ruolo che hanno le lingue straniere: servono per parlare con chi non conosce la nostra, ma non sono la nostra: possiamo, quindi, parlare di autonomia, di federalismo, di regionalismo, di bilinguismo, di unione europea ecc. ma dobbiamo farlo con il necessario distacco, sapendo che, nel farlo, ci poniamo sul piano di un dibattito politico diverso da quello che ci interessa davvero ...

Un prologo indipendentista per i nuovi Statuti di Autonomia
Noi possiamo, quindi, parlare anche di Statuti di Autonomia in senso indipendentista, poiché se gli Statuti di Autonomia fossero concepiti come un passo verso l'esercizio della autodeterminazione, anche a noi potrebbe interessare il dibattito sulla autonomia. In questo senso, poiché, in questi tempi, in Italia si sta parlando di modificazione degli Statuti di Autonomia delle Regioni ad Autonomia speciale, noi dobbiamo utilizzare questo dibattito per sottolineare che ogni Statuto di Autonomia, in prospettiva indipendentista, può diventare il primo atto istituzionale contenente la formulazione concreta del diritto alla autodeterminazione. Deve diventare il primo atto in questo senso! Gli indipendentisti devono chiedere che lo Statuto di Autonomia delle loro "Regioni" sia modificato con l'inserimento di un preambolo che fissi e riconosca la possibilità di accedere alla autodeterminazione. Noi siamo certi che l'indipendentismo debba individuare gli spazi giuridici nei quali insinuare l'esigenza di un diritto che regoli e garantisca l'accesso dei popoli alla autodeterminazione: quale occasione può esser migliore del dibattito sulla modificazione dello Statuto di Autonomia?

L'affermazione di un principio anche nella dimensione europea
Raggiungere un tale risultato significherebbe introdurre nelle stesse istituzioni europee un principio, in virtù del fatto che questo è formulato in un atto costituzionale di uno dei suoi Stati. Il dibattito sulla Carta europea dei diritti, su una ipotesi di Costituzione europea, ci interessa e ci riguarda - certo - ma sicuramente non per ottenere nuove promesse o perché i nostri diritti vengano, di nuovo, soffocati creando spazi che non ci interessano e circoscrivono pericolosamente l'esercizio totale e reale dei nostri diritti.

Quello che i partiti autonomisti non fanno
In questa prima proposta di concretizzazione dell'indipendenza, si evidenziano quelle che sono le contraddizioni dei vecchi partiti autonomisti: noi siamo convinti che non faranno neppure un tentativo in questo senso. Il che dimostrerà, finalmente, che hanno sposato appieno le tesi dell'autonomismo rinunciando a rivendicare l'autodeterminazione. Il che significa, quindi, che hanno usato lo strumento del movimento nazionalitario non per affermare dei diritti, ma per ottenere dei privilegi; il che significa che preferiscono ai rischi storici della autodeterminazione e della indipendenza, lo spazio rassicurante della dipendenza pagata in termini di autonomia e di privilegi fiscali o economici. L'autonomismo può nascere dall'esercizio della autodeterminazione? Non è di per se scandaloso: dobbiamo, infatti, prevedere che tra le opzioni possibili al momento di esercitare l'autodeterminazione, ci sia anche la libera scelta di restare in Italia, con una qualche autonomia. Purché di libera scelta si tratti e non di limite istituzionale. Purché sussista sempre, e non sia criminalizzata, la possibilità di recedere.

L'indipendenza sostenibile
E' a questo punto della nostra teorizzazione che sorgono due problemi: il primo dà il titolo a questo breve saggio e parla di indipendentismo sostenibile, il secondo deve spiegare il concetto di Nazione inclusiva cui dobbiamo metter mano. Per indipendentismo sostenibile dobbiamo considerare l'analisi delle nostre società e delle loro prospettive di sviluppo, analisi che si faccia progetto capace di dimostrare a tutti gli abitanti del territorio delle nazionalità che l'indipendentismo è davvero non solo possibile, ma rappresenta anche la migliore delle prospettive di sviluppo sociale ed economico che la nazionalità possa disegnare per il proprio futuro.

La Nazione inclusiva
Per Nazione inclusiva dobbiamo intendere quella che, forte delle proprie caratteristiche identitarie collettive, mentre le premette a condizione storica che spiega e giustifica la rivendicazione del diritto alla autodeterminazione, le afferma, le riafferma anche se all'interno del proprio territorio sono mutati alcuni aspetti della composizione sociale: le nazionalità non diventeranno certo indipendenti perché, ospitano molti arabi, africani o molti "italiani"; per la verità se questa connotazione sociale venisse addotta per una rivendicazione anche solo autonomista, verrebbero meno perfino le ragioni di esistere come Regioni.

L'impossibilità di una nuova integrazione
La Nazione inclusiva è, quindi, un concetto necessariamente nuovo che deve sostituire il concetto di integrazione: dobbiamo renderci conto che per le società tradizionali e autoctone, non è più possibile assorbire la numerosissima componente di immigrati vecchi e nuovi; le nazionalità corrono, piuttosto, il rischio inverso, quello di essere assorbite e fagogitate loro stesse.
La Nazione inclusiva è un concetto di convivenza civile cui possiamo affidare parte dei destini delle nazionalità: sarà la condivisione di un vivere insieme in un certo territorio, con certe caratteristiche, una storia ed una lingua, a caratterizzare, prima o poi, poco a poco, la scelta di quanti non possono condividere immediatamente l'identità della nazionalità che li ospita, sia perché troppo recente è la loro immigrazione, sia perché troppo forte è - ancora - il legame con la loro identità originaria, sia perché troppo in crisi è l'identità stessa della nazionalità che li ospita.
Come nazionalitari ed indipendentisti ci stiamo, quindi, assumendo la responsabilità di chiedere aiuto a quanti vivono nel territorio delle nostre nazionalità pur non avendone assimilato l'identità, poiché questo può essere l'interesse di tutti e per dare a questa indipendenza, una cultura e valori che devono esser l'esito di una storia autentica e non il risultato di una denazionalizzazione di cui gli immigrati (vittime anch'essi di un'altra disidentificazione) sono strumento spesso inconsapevole.

Gli elementi costitutivi dell'identità collettiva
Ci sono molti modi per preservare gli elementi identitari collettivi di un popolo e per sposarli quando si entra a farne parte. Il difficile è senza dubbio saper "includere" nei valori della Nazione qualcosa di diverso dagli elementi che, per secoli, ne hanno caratterizzato l'identità.

Imparare le lingue - salvare le lingue
Non dovrebbe esser difficile far capire a tutti che questo confronto è assurdo se consideriamo che, oggi come oggi, l'apprendimento delle lingue non è più così complesso come un tempo, che tre/quattro e non una soltanto o due devono essere le lingue conosciute dalle future generazioni per restare sul mercato del lavoro e che, comunque, una sola è la lingua propria di ogni nazionalità: queste e non le lingue del mercato e degli Stati, sono in pericolo.

Le nazionalità e gli "altri"
La Nazione inclusiva, quindi, mentre afferma, autodefinisce l'identità collettiva storica della nazionalità, evidenzia che non ci sono altre identità collettive che possano rappresentarla o sovrapporsi ad essa ed i suoi diritti, anche se molteplici sono oggi le componenti presenti nel suo territorio per effetto delle migrazioni. All'interno delle singole nazionalità dello Stato italiano, ad esempio, i non autoctoni sono un crogiolo di emigrati/immigrati che conservano profonde radici nelle zone di provenienza: sono, quindi sardi in Valle d'Aosta, friulani in Sardegna, meridionali (provenienti anche dalle aree grecaniche e albanesi) in Friuli, ecc., prima ancora che semplicisticamente "italiani"; non sono antinazionalitari, come invece vorrebbe renderli la propaganda politica e come li rendono talora gli errori dei partiti autonomisti che ancora non sanno liberarsi di una certa malcelata xenofobia nei loro confronto e nei confronti dei nuovi immigrati terzomondiali.
Ogni nazionalità, come già abbiamo affermato, non avrebbe alcun diritto se la sua identità autentica fosse stata sostituita dal prevalere di altre identità. E i sostenitori della società multietnica devono ancora spiegare quale diritto sia applicabile ad un territorio che voglia autogovernarsi sulla base della multiculturalità della sua popolazione.

L'identità come crogiolo delle identità compatibili
Quello di "Nazione inclusiva" è quindi, un concetto che mira alla persuasione, alla adesione spontanea, alla crescita tra gli immigrati nel territorio di una nazionalità, di una cultura capace di avere i suoni della nazionalità ospitante, e come collante identitario (in una realtà di identità molteplici che sperimentano la loro vitalità residua e la loro compatibilità, la loro possibilità di sopravvivenza) la condivisione di un territorio che determina comuni comportamenti culturali e scelte di vita.
Credo che nessuno griderebbe allo scandalo il giorno in cui ad esempio in Valle d'Aosta non ci fosse più nessuno che parla sardo o arabo; ben più grave sarebbe la situazione se scomparisse il francoprovenzale.

L'autonomia che nessuno voleva
L'errore in cui sono incorse negli ultimi 60 anni le nazionalità dello Stato italiano è stato quello di vivere in un sistema autonomistico che nessuno voleva, perché i più convinti assertori dei diritti dell'identità volevano l'indipendenza e gli altri non volevano nessuna autonomia, propendendo per un centralismo ancora maggiore da parte dello Stato; ed è stato un errore anche quello di pensare che giustizia sarebbe stata fatta attraverso la parificazione di due lingue, quella dello Stato e quella della nazionalità. Il bilinguismo, in realtà, al di fuori della dimensione individuale e culturale, politicamente si è sempre rivelato fallimentare, poiché ha consentito una ancor maggiore affermazione e diffusione della lingua dello Stato su quella della nazionalità.

Emigrare in casa propria
E se la società delle nazionalità ad autonomia speciale è pur cresciuta, se un certo benessere si è pur diffuso grazie anche alla autonomia, questo è stato per tutti il prezzo da pagare: accettare la disidentificazione. Le logiche del dominio che hanno imposto quelle della minoranza, guardano molto più a lungo termine degli obiettivi immediati, quale è stato la conquista di una autonomia qualunque da parte delle nazionalità; in modo quasi indolore all'interno delle nazionalità si è avviata una volontaria emigrazione da loro stessa, dalle loro caratteristiche.
Per gli immigrati veri si è posto un problema inverso: persa o quasi la propria identità è stato poco importante acquisirne un'altra, o non acquisirne nessuna, trovando più comodo condividere quella fittizia dello Stato.
Una volta che le nazionalità avranno acquisito la loro indipendenza, questi immigrati che non hanno saputo o voluto farsi includere, dovrebbero forse essere cacciati come gli albanesi dal Kossovo?

Normalizzare la vita culturale
Un articolo apparso su "La Stampa" sul problema della storia delle nazionalità, definì morta di povertà l'identità tradizionale, non nata per troppa ricchezza quella nuova e, quindi, interrotto il filo di una continuità storica. La risposta degli intellettuali delle nazionalità evidenziò l'urgenza di ricucire quella continuità partendo dalla normalizzazione della vita e del dibattito culturale e politico: gli immigrati che non si sentono appartenenti alla nazionalità ospitante sono "intolleranti, nel loro chiamarsi fuori dalla tradizione per costruire una identità altra; nel loro sentirsi estranei alla nazionalità senza cultura perché in crisi culturale, in definitiva si dichiarano stranieri". Venne altresì, considerato che è oggettivamente difficile, per un immigrato, integrarsi ed assimilarsi nel vuoto di coscienza da cui sono colpiti gli stessi autoctoni, concludendo che - oltre alla integrazione - c'è la strada della pura convivenza nella diversità (non vige l'obbligo di essere e sentirsi appartenenti a quella nazionalità); e c'è, la strada della cultura come libertà, espressione di una cultura universale che non ha bisogno di etichette e non è né a favore né contro nessuno; sussiste - cioè- il diritto individuale che sempre deve essere rispettato, ma che non può sovrapporsi al diritto collettivo; in nome del diritto individuale, non si possono negare i diritti che spettano ad una collettività di individui che come collettività si riconoscono.

Chi può definirsi popolo?
Quali conseguenze derivano dalla liberazione nazionale? L'intreccio dei 'rifiuti culturali" cui abbiamo fatto accenno comporta, da parte nostra, una preparazione politica considerevole. Se è pur vero che nessuno può permettersi di stabilire chi possa definirsi un popolo e chi, quindi, abbia diritto alla autodeterminazione, abbiamo un nostro canone interpretativo per dirimere la questione: il principio di identità

Perché nascono gli Stati?
Sappiamo bene che gli Stati nascono anche e soprattutto per ragioni diverse da quelle identitarie e nazionali e che, anche quando affermano di essere degli Stati nazionali, in realtà non lo sono e possono solo tentare di diventarlo, omogeneizzando le diverse identità presenti nel proprio territorio o condizionandole ad una identità dominante. Quindi tutti possono, almeno potenzialmente, accedere alla autodeterminazione per le più diverse ragioni, prime fra queste quelle economiche. A noi il criterio egoistico ed economico non pare eticamente proponibile, anche se siamo consci che nella storia e nella politica l'eticità sembra un valore superato.

Uno Stato per le Nazioni senza Stato
Noi rivendichiamo nel diritto internazionale la possibilità che l'esercizio della autodeterminazione sia assicurato ai popoli che sono delle Nazioni senza Stato. Quando, quindi, parleremo della situazione italiana, se da un lato potranno interessarci tutti i movimenti che mirano a far saltare la sovranità dello Stato, dall'altro nei confronti di questi dovremo avere un atteggiamento chiaro, altrimenti il diritto alla autodeterminazione non ci sarà consentito non solo perché lo Stato ed il diritto ce lo impediranno, ma anche perché, potenzialmente, sono mille le sfaccettature della identità italiana, ciascuna delle quali potrebbe rivendicare il diritto a darsi uno Stato sulla base della semplice convenienza o di una presunta volontà.

Le Regioni senza identità
Anche a questi movimenti noi dobbiamo proporre, per favorire la loro stessa crescita, la cultura dell'identità. Spesso in Italia sorgono movimenti di rivendicazione politica la cui radice identitaria scaturisce dalla identificazione di un territorio regionale. Ma in Italia le Regioni non esistono! Sono i più autentici esponenti del pensiero regionalista ad affermare che le Regioni italiane sono state disegnate a tavolino dai geografi, preoccupati di proporre solo una suddivisione territoriale attraverso la quale lo Stato potesse essere amministrato e governato. Ora prendere queste Regioni e riconoscere loro una identità ipotizzando che, in forza di questa, possano accedere alla autodeterminazione sarebbe un assurdo. In questa assurdità sono caduti perfino i partiti autonomisti. che hanno formulato un progetto di trasformazione dello Stato italiano in senso federale, trasformando tutte le attuali Regioni in Repubbliche.

L'improponibile Padania
Il criterio identitario collettivo diventa ineludibile per gli indipendentisti, anche rispetto ala proposta della Padania, l'esempio più moderno e concreto di costruzione di una identità inesistente. Anche rispetto alla Padania c'è da dire che qualora l'Italia non fosse riuscita ad entrare nel circuito bancario dell'euro, la spaccatura politica tra nord e sud sarebbe stata possibile, ma se questo dimostra, una volta di più, che l'identità non appare preminente nel disegnare gli scenari istituzionali possibili, consolida ancor più la nostra certezza che senza identità non c'è diritto e che per ogni identità deve esistere un diritto.

Il diritto positivo
Il diritto che riguarda le vere Nazioni senza Stato è il diritto alla autodeterminazione ed all'indipendenza. Che altri raggiungano l'indipendenza per ragioni diverse non ci riguarda, né ci impone un atteggiamento culturale di ostilità nei loro confronti; noi dobbiamo, però, mirare alla positività del diritto.

L'articolo 6 della Costituzione italiana
Non possiamo dimenticare che in Italia, l'applicazione dell'articolo 6 della Costituzione, quello che assicurava alle minoranze linguistiche una "tutela", è rimasto inapplicato per quasi 60 anni perché, non si è voluta far chiarezza su chi siano queste minoranze linguistiche: al costituente era, in realtà, chiaro che queste erano i popoli parlanti una lingua completamente autoctona o avente una corrispondenza oltre i confini dello Stato; molteplici iniziative hanno, tuttavia, mirato ad affermare che il lombardo, l'emiliano, il piemontese e l'umbro avevano gli stessi diritti del tedesco, dello sloveno, del sardo, ecc.. Poiché, in Italia per ragioni storico geografiche esistono molteplici dialetti/lingue/parlate, riconoscerli e tutelarli tutti con una stessa legge sarebbe risultato impossibile ed è risultato più facile non tutelare nessuno. L'articolo 6 della Costituzione è rimasto, cosi, inapplicato. Riguardava, anzitutto, i popoli/Nazioni senza Stato per i quali la conquista di un diritto linguistico non poteva certo costituire il rispetto reale e completo della loro identità e dei loro diritti, ma costituiva un importante risultato da tentare di conseguire ed è venuto meno perché, non c'è, certezza del diritto. Analogamente il diritto alla autodeterminazione non può riguardare tutti e chiunque, ma - a nostro avviso almeno - solo i popoli/Nazione senza Stato.

Stati senza Nazione
Ciò non impedisce, e lo abbiamo visto, che altre forme di Stato nascano su principi diversi da quello identitario, sulla base ad esempio di un diritto che deve essere diverso rispetto a quello applicato ai Popoli: se non esiste per i popoli un diritto ad esistere; se, non viene applicato ai popoli il diritto alla autodeterminazione, la storia continuerà a proporre tristi pagine di lotte per conquistare con strumenti questo diritto a chiunque abbia la forza per imporsi.

Noam Chomsky
Scrive Noam Chomsky: "in questi tempi di profonda corruzione intellettuale, le dottrine economiche predicate dai padroni, come la democrazia ed i diritti umani, sono strumenti di potere applicabili solo agli altri, in modo che questi possano essere derubati e sfruttati più facilmente".

No alla democrazia
No alla democrazia! Anche questa è una affermazione a suo modo difficile da proporre perché ci impone di riflettere su altri rifiuti culturali di cui dobbiamo mostrarci capaci nel processo di liberazione nazionale: uno di questi riguarda una certa concezione della democrazia. Gli indipendentisti non possono, per questo, considerarsi democratici nel senso comune e borghese del termine: la democrazia comporta, almeno teoricamente, il rispetto di criteri come quello numerico in base al quale si è instaurato un sistema politico basato sul rapporto dominio-minoranza. E si introduce anche l'assurdo storico che, ridotto in minoranza rispetto alla popolazione dello Stato, un popolo sia minorizzato anche all'interno del proprio territorio per effetto delle immigrazioni. Gli strumenti normali della democrazia formale non bastano a riconsegnargli i diritti che ha acquisito storicamente: se a decidere dell'indipendenza di una nazionalità saranno chiamati i cittadini dello Stato di cui la nazionalità rappresenta una minoranza, o gli immigrati nel territorio della nazionalità stessa, i diritti di questa nazionalità saranno calpestati ancora una volta. Per questo abbiamo elaborato la teoria della Nazione inclusiva, per non fare della democrazia rappresentativa un fardello del progetto indipendentista. Ciò non ci impedisce di parlare di democrazia e di dimostrare quanto poco democratici siano quelli che democratici si proclamano ad ogni piè sospinto, violando - però - impunemente le regole che hanno formulato. Del resto fin tanto che i cittadini delle nazionalità resteranno cittadini di uno Stato retto da una altra nazionalità, dovranno subirne le leggi, comprensive di diritti e doveri, pur mirando ad andare oltre.

L'illegalità indipendentista
Ci collochiamo, quindi, come indipendentisti in una area di illegalità, poiché, la democrazia stessa comporta un assurdo: oggi come oggi lo Stato italiano non concepisce nessuna formula di accesso alla autodeterminazione; quindi anche qualora la maggioranza di una nazionalità fosse favorevole all'indipendenza e volesse esercitare il diritto alla autodeterminazione, si scontrerebbe con un limite della democrazia stessa: quello di essere in condizione di illegalità... quand'anche sia raggiunta la condizione di maggioranza numerica, poiché l'autodeterminazione non è un diritto riconosciuto ed esercitabile. Quindi il principio numerico della democrazia è sbagliato come principio assoluto, altrimenti gli italiani avrebbero sempre ragione di fronte ai valdostani; ed è sbagliato anche come principio relativo, poiché pone dei limiti a se stesso: ci sono - cioè - delle cose che non possono essere fatte neppure se tutti sono d'accordo. Questi sono i prodromi di un regime.

Senza Indipendenza non c'è democrazia
Ecco la ragione per la quale gli indipendentisti rifiutano anche la democrazia formale e la democrazia come strumento di presunto esercizio del potere da parte del popolo, poiché, se i popoli non sono liberi ed indipendenti non c'è, democrazia possibile.

No ai diritti umani
Tornando a Chomsky dobbiamo anche chiarire l'altro "equivoco" dei nostri tempi, quello dei diritti umani. A 50 anni di distanza dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, noi ci troviamo nella situazione di impegnarci affinché i diritti fondamentali dell'uomo siano rispettati e di doverlo fare a fianco di potenze come quella americana che, sostanzialmente, affermano di difendere più di chiunque altro, i diritti dell'uomo. La potenza americana, però, non solo è sorta attraverso il genocidio degli unici veri americani, i pellerossa, ma oggi è protagonista di non pochi paradossi; difende i diritti dell'uomo, come quello a non subire torture, con una eccezione: se la tortura si conclude con la morte su di una sedia elettrica, in una sala invasa da gas, o con una iniezione letale, i diritti umani possono anche non essere rispettati; afferma il diritto alla vita, ma è protagonista di vicende belliche nelle quali, vedi Vietnam, Iraq o nella ex Jugoslavia, le popolazioni civili non sono risparmiate dalla "chirurgia" di bombardamenti iniqui. Non sono certo gli USA a violare più di altri i diritti umani; ma se a violare le regole sono gli stessi che le proclamano e le impongono agli altri, siamo di fronte ad una falsa preoccupazione, ad una falsa affermazione di diritti dell'uomo.

Non ci sono veri diritti dell'uomo senza diritti collettivi dei popoli
Il vero errore della cultura dei cosiddetti diritti umani, inoltre, consiste nell'assenza di una sua applicazione sul piano collettivo: quale uomo potrà mai sentirsi davvero rispettato nei suoi diritti umani se nessuno può perseguitarlo per la sua lingua, per la sua religione, per la sua razza, ecc. ma se comunque - al di là delle enunciazioni- egli non potrà veder rispettato l'esercizio, l'uso, la libertà di queste sue caratteristiche nel contesto del popolo cui appartiene. All'individuo non serve esser rispettato per la sua lingua se gli è permesso solo di farlo da solo o nel chiuso della propria casa, perché se nessuno si preoccupa di assicurargli di poterla parlare con gli altri uomini del suo popolo, in un territorio che sia libero ed indipendente, di fatto anch'egli prima o poi non la parlerà più. Riconoscere dei diritti fondamentali all'individuo e non al popolo di cui egli è parte, nel quale egli vive e si realizza, al cui interno egli comunica, si esprime e crea, significa condannare l'individuo e il popolo stesso a morire proprio perché, l'esercizio di quei diritti è mal formulato e mal riconosciuto.

6 - L'IMPOSSIBILITA' DELL'INDIPENDENTISMO .: su :.

Le mobilitazioni contro l'ETA
Sono relativamente sorpreso delle mobilitazioni popolari contro la violenza in Spagna e nei Paesi Baschi: la lotta armata dell'ETA e la risposta repressiva di Madrid sono una costante della storia antifranchista e post-franchista; la spirale di sangue è lunga ed apparentemente inarrestabile; attentati, violenze ed esecuzioni paiono uno strumento ineludibile di lotta politica. Proprio per questa terribile "abitudine" alla violenza, però, le mobilitazioni popolari contro l'ETA mi appaiono indotta sul filo dell'emozione da ragioni molto meno nobili del voler testimoniare orrore per ogni nuovo assassinio/esecuzione.

Le vere ragioni delle mobilitazioni contro l'ETA
L'ETA va fermata non solo perché uccide e neppure perché molti suoi militanti sono stati uccisi. Ma se non per queste ragioni, allora perché? Forse perché è necessario bloccarne le azioni che spaventano perfino i turisti determinando (come fecero gli islamici seminando il terrore tra gli appassionati dell'archeologia egizia) addirittura un problema economico? O perché è ora di liberare gli imprenditori dalla "tassa rivoluzionaria" (le tasse ingiuste spettano solo agli Stati!), un pizzo imposto dall'ETA? O perché troppe sono le innocenti vittime basche assassinate da servizi segreti, giustizieri e fascisti solo perché sospettate di simpatizzare con l'ETA, per debellare la quale si ritiene sia necessario smitizzare il martirologio basco iniziato a Guernika?

Bloccare tutti gli indipendentismi
Per rispondere bisogna affrontare un discorso molto ampio che non riguarda solo Euskadi. La nascita dell'Europa mette i poteri politico-economici di fronte al bisogno di un assetto istituzionale stabile che consenta al capitale di agire sicuro ed indisturbato su tutto il continente. Ciò comporta da un lato il ridimensionamento delle indipendenze dei singoli Stati e, dall'altro, l'esigenza di chiudere i conti con ogni possibile altro indipendentismo. L'Europa sta diventando un grande Stato che si arroga, per ragioni economiche, il diritto di occupare tutti gli spazi che spettano ad una potenza mondiale; per questo non può ammettere debolezze e conflittualità interne.

Le minoranze
Lo "minoranze" che dalla divisione del mondo in blocchi e dell'Europa in Stati contrapposti avevano tratto se non l'applicazione di tutti i diritti che spettano ai popoli, forme di "garanzia intenzionale" per ottenere più o meno ampie autonomie, oggi sono abbandonate a se stesse; alcune per la loro "liberazione" avevano addirittura ottenuto denaro e armi da parte di non troppo occulti finanziatori (I paesi dell'Est, l'URSS Gheddafì, gli stessi Stati Uniti, ecc.) interessati più che ai loro diritti alla destabilizzazione dell'occidente; oggi sono cellule impazzite, tanto prive di stratega da non rendersi conto di quanto si danneggiano vicendevolmente: la violenza dell'ETA, ad esempio, rende più debole l'indipendentismo sardo; quella dell'IRA metteva in allarme perfino contro il modesto radicalismo occitano; l'indipendentismo catalano (nazionalitario) che si collega con quello padano (economico) rende meno credibile l'indipendentismo nazionalitario in Italia e spiegabile, invece, la logica economica degli Stati europei; e non dimentichiamo che, benché sia chiara la radice dei conflitti locali (sono le potenze che li innescano o li spengono a seconda delle loro esigenze strategiche!), il timore di una trasformazione degli indipendentismi in balcanizzazione fa presa in un'opinione pubblica ancora stravolta dalle violenze etniche nella ex Jugoslavia.

Gli Stati sono, ormai, delle minoranze
La complessità della situazione è determinata anche dal fatto che, innegabilmente, è in atto un braccio di ferro tra grandi forze egemoni europee (Francia Germania, lnghilterra), le quali possono, da un momento all'altro, mandare all'aria l'Europa e la sua moneta se la dimensione continentale non soddisferà i loro egoismi nazionali attraverso opportune compensazioni; cominciano - cioè - a comportarsi come "minoranze " inquiete perché inserite in un assetto imposto dalle logiche del mercato e dalla mondializzazione dei fenomeni economici, ma non sono ancora capaci di sopire le loro ambizioni nazionalistiche. Al loro interno hanno, comunque, acquietato le contrapposizioni politiche troppo forti (con la logica democratica dell'alternanza e del bipolarismo) ed hanno messo mano al problema degli indipendentismi: grandi promesse a Gallesi e Scozzesi e nuove speranze agli irlandesi (per isolare l'ala più dura dell'IRA) da parte del nuovo premier inglese; blocco totale delle rivendicazioni etnica in Francia, dove il FNLC, infiltrato dalla mafia e dalla delinquenza locale, sta perdendo la legittimazione popolare che pure i corsi gli avevano espresso in passato; criminalizzazione delle rivendicazioni etniche con le accuse di nazismo mosse in Germania ad un organismo di raccordo con i popoli dell'Est.

Gli interessi economici
Ecco il vero perché di tanta emozione in Spagna; ecco perché, se pur per tutt'altre ragioni, la Lega Nord ha fatto paura in Italia: non si possono gestire e controllare la politica e l'economia in Europa in presenza di tensioni indipendentististe. La decisione assunta nel recente passato di allargare l'Europa (e la Nato) coinvolgendo soltanto Polonia, Romania e Repubblica Ceca, corrisponde non tanto alla paura che altre realtà fossero, al momento, politicamente inaffidabili o economicamente troppo al di sotto degli standard europei, quanto al persistere al loro interno di tensioni nazionalitarie ed etniche; meglio, quindi, che esse continuino a sentire addosso il fiato russo, sia perché devono - per strategie mondiali decifrabili (c'è una sotterranea seconda edizione del Patto di Yalta) - restare in quell'area de! mondo, sia perché l'Europa non ammette conflittualità interne e non accetterà mai di integrare nell'Unione Europea popoli che non le abbiano risolte. Non c'è modo di contrapporsi a questa politica dell'Europa e dei suoi Stati.

L'autodeterminazione
Si è ritenuto che la soluzione potesse consistere nell'applicazione del diritto alla autodeterminazione; il ragionamento semplificato poteva essere questo: vediamo con un referendum se i baschi vogliono l'indipendenza, in modo che rivendicarla con le armi sia una scelta criminale; offriamo questa stessa opportunità a tutti i popoli affinché la lotta armata non debba risultare l'unica possibile, anche per chi non l'ha ancora intrapresa.

La violenza nella storia
Nella storia, purtroppo, troppi Stati sono sorti grazie all'uso della violenza le cui vicende sono diventate, così, eroica epopea di una storia patria. In fondo i baschi stanno seguendo questo stesso itinerario; se è antistorico sarà la storia a dirlo. Il ricorso all'autodeterminazione non violenta, comunque, non è possibile: non perché non esista il diritto chiaro ed accettato, ma perché i risultati dell'esercizio di questo diritto sono potenzialmente eversivi e contrari agli interessi degli Stati: l'indipendenza di Euskadi non piace solo a ETA, ma anche a realtà politiche "moderate" il cui potere specifico (come, del resto, la stessa autonomia istituzionale) è rafforzato dai timori che ETA incute a Madrid; l'area del consenso nazionale basco ha ben più del 50% dei voti, quindi un referendum sull'indipendenza potrebbe effettivamente sancirla. Del resto non fu Federico Chabod a segnalare ripetutamente a Roma che senza la concessione di un'autonomia, la Valle d'Aosta posta di fronte a un referendum separatista, avrebbe scelto quasi sicuramente la Francia?

Il federalismo? Chi lo propone davvero muore
L'altra soluzione, quel federalismo indicato da Chanoux per superare definitivamente e senza altre violenze l'oppressione dei popoli e gli irredentismi, è più utopistica dell'indipendentismo: l'averla formulata gli costò la vita.

Le lingue
Lingue e culture in Europa non sono più un problema ora che molte minoranze linguistiche sono quasi scomparse. Ora che il linguaggio informatico ha omologato la comunicazione. Ora che gli Stati ne negano la tutela anche se nella dimensione continentale il diritto linguistico è chiaramente formulato. L'Europa, ormai, riconosce le lingue delle minoranze, definendole "meno diffuse", come propria ricchezza, purché gli strumenti per gestirla restino in mano ad apparati culturali controllati dallo Stato e dai suoi partiti. Addirittura l'Europa riconosce la valenza delle lingue e delle culture "regionali", indicando con ciò l'unica dimensione territoriale in cui le "identità" possono esprimersi.

Le istituzioni regionali europee
Le Regioni, i Lander, le Comunità convenzionalmente definite soltanto "Regioni", costituiscono un ottimo momento di decentramento, sono esperienze positive di una qualche autonomia, terreno di applicazione di forme di sussidiarietà, prudente sperimentazione di autonomie imperfette, ma poggiano su nulla di più di un insieme di poteri che discendono sempre da un potere superiore; per esse é disegnato un "ruolo europeo" che, partendo dal Comitato delle Regioni istituito dal trattato di Maastricht, è destinato a rafforzarsi, ma che non hanno né richiesto, né contribuito a determinare: altri hanno deciso per loro.

Le Nazioni senza Stato, le Nazioni senza Regione
Purtroppo, però, questa forma apparente di democrazia di base, proposta e imposta come unica realtà possibile, come unico spazio di libertà per le identità, presenta grosse contraddizioni: intanto perché in Europa ci sono identità specifiche cui non è riconosciuto neppure questo spazio istituzionale minimo di carattere "regionale": pensiamo agli occitani, che non esistono come realtà territoriale; poi perché altre identità risultano divise oltre che dai confini di Stato, anche da quelli regionale e, quindi, anche nelle dinamiche europee destinate alle Regioni restano divise; e infine perché - e questa la considerazione chiave della riflessione - mentre alcune identificano delle Nazioni senza Stato, altre non hanno nemmeno ragioni geografiche di esistere, ma esistono in virtù di una connotazione economica.

La criminalizzazione di chi non sta al gioco
Criminalizzando gli indipendentismi l'Europa impone un unico spazio identitario, le Regioni, ma questo non basta a sopire le rivendicazioni massimaliste. E quand'anche bastassero il bastone e la carota (la concessione di un'autonomia e la repressione di ogni ulteriore rivendicazione), come la reazione spagnola fa credere, il problema continua a riaffiorare.

Il leghismo: ma l'economia è un'identità?
Il leghismo pone un problema di identità nuova, di come il problema della identità possa presentarsi sotto forme diverse da quelle specificatamente identitarie, coagulando realtà nazionalmente disomogenee, ma tra loro vicine dal punto di vista economico e psicologico; il leghismo può esser giudicato come un fenomeno negativo, egoistico, ecc., ma è un fenomeno reale ed identifica un potenziale contenzioso politico in Italia e in Europa.

Residui di nazionalismo statale
Francia, Germania e Inghilterra più degli altri Stati europei rinunceranno davvero ad agire in quanto specifiche identità nazionali per esser solo europee o non sono, ormai, le nuove 'minoranze' dell'Europa?
Il concetto di francofonia non è forse qualcosa dì più di una semplice affermazione linguistica e culturale e non assume valenza di spazio politico-culturale-economico specifico non scaturito e non voluto dalle dinamiche europee, ma da quelle francesi?

Superare l'Europa
Lo scenario delle identità possibili, in virtù di quest'ultima considerazione, può addirittura configurare il superamento dell'Europa: proviamo - ad esempio - ad immaginare quale immenso potenziale sia rappresentato dal Mediterraneo dal punto di vista culturale, politico, economico, strategico, disegnando una qualche omogeneità di intenti (storicamente non così assurda) tra catalani, occitani, sardi, corsi, siciliani, maltesi, nordafricani e sud-italiani.

Gli Stati e L'Europa responsabili di una pulizia etnica
Una conclusione: è la realtà istituzionale Europea ad imporre una "pulizia etnica" apparentemente non violenta, ma comunque reale, in Europa: ne va della stabilità politico- economica delle istituzioni statali, anche a fronte di un futuro, forse non troppo lontano, nel quale la stessa Europa sarà anacronistica a fronte di nuovi scenari e di nuove esigenze. Per questo l'ETA ed altre sigle continueranno ad operare. La verità è semplice: i prodotti istituzionali della omologazione e della massificazione (gli Stati, l'Europa) non sono la norma e l'identità la devianza; la mondializzazione politico-economica non è il diritto e la specificità una barbarie.

Ci sono tre strade: l'accettazione da parte delle Nazioni senza Stato della logica delle Regioni; la diffusione del leghismo (cioè l'autonomia conquistata non per ragioni storiche, etniche, linguistiche, ma per calcolo economico) su scala continentale; il rovesciamento dei contenuti progressisti della rivendicazione identitaria in un movimento reazionario con i tratti della ribellione anarco-collettivista proposta del filosofo dello spiritualismo etnico, Julius Evola, formulata dalla teoria dell'operaio-sociale di Toni Negri, espressa dal sindacalismo rivoluzionario di Sorel. L'unica via percorribile per le Nazioni senza Stato è, in realtà, la chiarezza e la coscienza di dover smascherare strategie occulte che trasformano in valori positivi (le Regioni) gli strumenti concreti ed apparentemente democratici che - in realtà - limitano l'esercizio della libertà politica.
Poi si può anche accettarne la logica perché inevitabile e preferibile al sangue della rivolta, a condizione che dalla coscienza dei fenomeni non nascano acquiescenza ad essi e cointeressenza neocoloniale.

Claudio Magnabosco, Via Parigi 80, 11100 Aosta, e-mail: claudio.magnabosco@tiscali.it, cell. 340.7718024


Il libro 'AKARA-OGUN E LA RAGAZZA DI BENIN CITY', 2002Vedi anche di Claudio Magnabosco:
"Sono nessuno o sono una nazione", su evolutionbook.com, versione .rtf zip 55KB
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Per una storia della Valle d'Aosta dal 1945 al 2000
Le chemin du S.A.V.T. (SYNDICAT AUTONOME VALDÔTAIN DES TRAVAILLEURS) 1952-2002

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