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Minoranze linguistiche

"Altre" lingue e culture in una nuova Europa

Di Aureli Argemi - Segretario Generale del CIEMEN

Bolzano, Barcellona, 4.7.2001

Indice
Problematica generale | Il panorama attuale | Verso il futuro

Problematica generale .: su :.

In quasi tutti gli Stati europei costituiti, vivono o sopravvivono lingue e culture, corrispondenti a nazioni, popoli, comunità o gruppi umani, che non hanno ottenuto lo stesso riconoscimento delle lingue e culture ufficializzate nei rispettivi territori. Cioè, anche nel caso in cui alcune di queste culture abbiano ottenuto un riconoscimento giuridico compresa la categoria di ufficialità, nei suoi rispettivi ambiti, non si tratta dello stesso riconoscimento consentito a lingue e culture ufficiali/statali. Si ha sempre un riconoscimento controllato e condizionato, quindi come tale la sua situazione può definirsi minorizzata.

Questa realtà corrisponde ad una logica ben determinata. Infatti, i diversi Stati europei si sono consolidati a partire da alcune circostanze storiche (liquidazione dell' "ancien regime", pressioni in favore dei diritti umani individuali e sociali, ecc.) e dalla strutturazione di alcuni poteri nati con la cosiddetta era industriale. Era industriale che ha generato un'ideologia ed una pratica politica, elaborata al fine di giustificare il dominio di alcune classi dirigenti, come motrici della trasformazione economico-sociale. Tali poteri hanno dovuto estendere e delimitare i propri ambiti in funzione di altri poteri concorrenti. Attraverso patti, scontrandosi, facendo la guerra e istituendo condizioni di pace. In ognuno di questi ambiti la stabilità del rispettivo potere è stata raggiunta con la creazione di strutture capaci di attrarre il consenso della società, presentandosi come segni di progresso e con la dotazione di propri mezzi di intercomunicazione, creando un codice linguistico culturale che s'è espresso come segno di liberazione dalle "antiche usanze" e "particolarità locali involuzioniste". Questo nuovo codice, escludente, nel principio, la diversità, in tutto ciò che concerne la vita pubblica (insegnamento, amministrazione, informazione, ecc.), ha costruito le lingue a livello statale, perché divenissero egemoniche, la lingua comune di tutto il territorio. Così la lingua dello Stato moderno italiano è stata imposta prendendo come referente il dialetto toscano e la lingua dello Stato moderno francese ha preso, come fonte principale, il dialetto dell'Ile de France (la regione parigina).

Il nuovo potere statale, perché il consenso statale non cessi di sostenerlo e non si estenda alle classi popolari, i sudditi, cercò con tutti i mezzi di attaccare le differenti "identità" che, nella maggioranza dei casi, esistevano all'interno di ogni Stato (differenza di popoli e nazioni) e potenziare un nuovo concetto che dovrebbe integrare i cittadini: Il quadro statale era quello del nuovo popolo e quest'ultimo era l'espressione della nuova nazione. Il nuovo popolo e la nuova nazione possedevano una propria lingua e cultura, anche se in realtà erano quelle imposte dal potere ed erano quelle del potere. Le altre lingue e culture dovevano essere considerate residuali e oggetto di disprezzo. Si avevano una lingua e cultura superiori che in opposizione a quelle inferiori. Eppure, questo tentativo di sradicare in tutta la società reale la propria pluralistica identità, "stabilizzandola", non arrivò a coagulare completamente. La risposta alle manipolazioni ed usurpazioni fu la riscoperta e lo sviluppo dei sentimenti nazionali in molte parti d'Europa, da parte di popoli che non accettavano tali piattaforme e l'essere assimilati da una "società" creata artificialmente. Da qui nacque il noto problema delle "nazionalità" che originò, in numerosi punti d'Europa, una conflittualità che permane ai giorni nostri.

Tale conflittualità si manifestava nei cosiddetti processi di "risorgimento" delle lingue e culture dei popoli che s'indirizzavano verso una presa di coscienza del loro essere emarginati. Il "risorgimento", in alcune parti, si concretizzò in posizioni politiche, nella formazione di nuclei di rifiuto, di resistenza, in lotte per la "ricostruzione nazionale", al margine degli Stati e contro gli Stati.

D'altro canto, i poteri statali istituirono meccanismi di autodifesa. Sia perseguitando ed opprimendo i popoli restii ad integrarsi al nuovo modello propugnato sia esaltando le lingue e culture ufficiali statali come le uniche di evoluzione sociale. In questo modo riuscirono a fermare la valanga della contestazione, anche se non dappertutto. Per quanto riguarda le altre lingue e culture, i poteri statali ottennero il risultato di creare complessi d'inferiorità e di auto-odio, individuali e collettivi, tra i popoli "minorizzati". La scuola obbligatoria in lingua ufficiale statale e i grandi mezzi di informazione, sempre più influenti e in mano ai poteri statali o dei loro fedeli servitori, esercitarono un ruolo importante per impedire che le "altre" lingue e culture avessero accesso ai nuovi ambiti di "sviluppo" sociale, politico ed economico. Il progresso rimaneva vietato a chi non si adatterà ai piani e progetti con "futuro", delineati e messi in pratica dai poteri statali.

Anche se tali interventi distrussero o lasciarono senza apparenti speranze le lingue e culture europee, alcune di queste riuscirono non solo a sopravvivere ma anche a prendere posizione nel contesto della "nuova" Europa. Grazie, generalmente, ad alcune classi dirigenti autoctone, che, pur "vendendosi" agli Stati per molti aspetti, scoprirono nelle lingue e culture dei popoli ai quali appartenevano, un'arma per essere critici e porsi anche come potere autoctono, unito ai poteri statali.

Sintomaticamente, tra le due guerre mondiali del nostro secolo, originate in gran parte per la non soluzione dei problemi delle "nazionalità", si consolidarono alcune lingue e culture minorizzate. Alcune riuscirono a convertirsi in lingue normalizzate, nel senso attuale della parola, e di uso pubblico, in alcuni livelli – dall'istruzione all'amministrazione – simili a quelle delle lingue ufficiali/statali uniche. Certe lingue, come quella catalana, ottennero uno sviluppo considerevole nella vita pubblica, però conseguendo solo di essere lingue cooufficiali. Infine, altre lingue, della cosiddetta Europa occidentale, non riuscirono a passare la frontiera della "resistenza passiva, una resistenza definita quasi sempre più dal costume che da una ferma volontà politica esplicita e combattiva.

Per contro, nel quadro dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, la messa in pratica delle teorie marxiste-leniniste rispetto alle lingue non russe, permise a molte di esse, per lo meno, di trovare i propri rispettivi spazi per svilupparsi in modo abbastanza soddisfacente.

Il panorama attuale .: su :.

Il panorama delle lingue e culture minorizzate in Europa non è omogeneo. Limitandoci ai confini della Comunità Europea, osserviamo che lingue e culture che fino a pochi anni fa erano minorizzate hanno acquisito uno status di lingue ufficiali/statali. Così la lingua neerlandese è oggi la lingua ufficiale statale dei Fiamminghi nello Stato belga. Per contro il gaelico, lingua ufficiale statale nella Repubblica d'Irlanda, non è di fatto la lingua comune degli Irlandesi. L'inglese domina praticamente tutta la vita pubblica, e la volontà politica dei poteri irlandesi è del tutto deficiente in relazione alla promozione del gaelico.

Vi sono altre lingue e culture minorizzate in uno stato che però non lo sono in un altro – il tedesco, nello Stato francese (Alsazia) per esempio – almeno in teoria, gode di tutti i mezzi per mantenersi in vita. Ma ciononostante, a causa della presenza e dell'obbligatorietà dell'altra lingua ufficiale/statale e delle limitazioni che il potere centralista francese ha disposto, corrono il pericolo di estinguersi. Altre lingue e culture, nonostante l'incremento delle dinamiche sociali in loro difesa, devono lottare per la propria sopravvivenza. Le grandi istanze del potere statale, anche se non si mostrano tanto restie versi queste lingue e culture come nei periodi precedenti, proseguono nella loro chiusura rispetto a qualunque progresso che significhi una perdita della presenza pubblica della lingua ufficiale/statale.

Sono esempio di tale situazione le lingue bretone, occitana, friulana, sarda, ecc. A questi problemi si aggiunge la difficoltà che trovano certe lingue a normalizzarsi, come effetto di una politica favorevole alla loro frammentazione. Tuttavia esistono lingue e culture che non sono riconosciute in quanto fenomeno collettivo e sono oggetto di persecuzione. Così nello Stato greco le lingue turca, macedone e albanese sono attivamente negate dai poteri stabiliti.

Infine, abbiamo lingue che continuano, per decisione politica autoctona sotto la pressione della volontà popolare, su un cammino di recupero e sono entrate già in una fase di modernizzazione che permette loro di far fronte alla sfida dell'apporto scientifico e tecnologico della società contemporanea. Il catalano ed il basco sono due casi da citare in questo senso. Eppure sono lingue minorizzate, obbligate a "convivere" con altre lingue ufficiali/statali, all'interno di un sistema di bilinguismo istituzionalizzato (solo nella parte dello Stato spagnolo, perché nello Stato francese le condizioni sono peggiori) che frena e tende ad impedire la loro totale normalizzazione nella vita pubblica del rispettivo territorio linguistico. Un territorio che i poteri ufficiali/statali dividono perché si formino comunità in conflitto.

Questa differenza di situazioni è comune al "mosaico" delle "altre" lingue e culture dell'Europa Occidentale – la lista degli esempi menzionati naturalmente non è esauriente – eccetto i primi casi citati, più o meno riconosciuti. Nessuna di tali lingue e culture ha ottenuto, come scrivevo all'inizio dell'articolo, la piena e totale risposta soddisfacente da parte dei poteri dominanti. Questo significa la permanenza della "minorizzazione" fondamentale delle "altre" lingue e culture.

La politica generale verso queste lingue e culture nel quadro delle grandi istituzioni comunitarie europee – il Consiglio d'Europa e il Parlamento Europeo – si è espressa significativamente nelle raccomandazioni e risoluzioni approvate a partire dal 1981. In tutte queste si manifesta la volontà che le lingue e culture, alcune volte chiamate "minoritarie" altre "regionali", vengono insegnate, ottengano un aiuto politico-economico perché possano svilupparsi degnamente, incluso, se un livello normativo lo permette, come lingue ufficiali o coufficiali, nell'amministrazione, negli studi superiori, nei mezzi d'informazione e in tutto ciò che riguarda la vita pubblica. Ma tali raccomandazioni e risoluzioni non sono coercitive. Lasciano ai governi mano libera nell'interpretazione e nei modi di applicazione. Di fatto, fino ad ora, non è cambiato, sostanzialmente, il panorama. Sono indicative, comunque, di una sensibilità europea nel terreno istituzionale che raccoglie indubbiamente pressioni sociali a favore di queste lingue e culture.

Verso il futuro .: su :.

Naturalmente parlare del futuro delle "altre" lingue e culture europee significa porsi su un terreno di congetture e profezie di chi si interroga. Solo in questo modo è possibile pensare al futuro, dal mio punto di vista, osservando linee che lo anticipano o che potrebbero indicarlo. Una delle linee che, inizialmente, avrebbero una ripercussione sulle "altre" lingue e culture, è che le ragioni, piattaforme ed ideologie che diedero origine e consolidarono gli stati "moderni", strutturati, precisamente, attorno alle necessità dell'industrializzazione. LE frontiere perdono significato ogni giorno di più, di fronte all'invasione delle multinazionali, all'espansionismo dei mezzi di comunicazione ed informazione, la divisione trans-statale del lavoro, le operazioni del grande capitale, ecc. I poteri statali singoli sono sempre più gestionali che decisionali. Così i motivi invocati per costruire e giustificare lo Stato moderno con le sue implicazioni contrarie alle "altre" lingue e culture, si svuotano di contenuti. Da questo lato si aprono porte, o meglio, le porte non vengono chiuse.

Però la progressiva edificazione del macrospazio europeo, quale è la Comunità Europea, pone problemi simili a quelli sorti con la strutturazione degli Stati "moderni". Non sarebbero "necessarie" una lingua e cultura "dominanti" nel nuovo quadro europeo? Vediamo profilarsi una tendenza in questa direzione al comprovare la sempre più "necessaria" conoscenza dell'inglese – lingua e cultura dominanti per le loro connessioni con il primo grande potere mondiale – per promuovere le relazioni intereuropee. E, in altra prospettiva, percepiamo gli sforzi che fanno i governi statali per difendere le proprie lingue e culture ufficiali/statali; sforzo e difesa che, sintomaticamente, ci ricordano quelli che deve fare chi parla e pratica le "altre" lingue e culture, in relazione agli Stati oppressori attuali.

In questa realtà contraddittoria che prospetta un doppio futuro europeo possibile appaiono o riappaiono questioni di fondo che riguardano tutti i cittadini europei. Ci troviamo ad un bivio. O decidiamo di seguire una delle correnti, con le sue conseguenze, e per quanto si riferisce alle lingue e culture europee – e non solo quelle minorizzate oggi – ci prepariamo alla sepoltura, od optiamo, assieme, per entrare in una fase di ridefinizione, senza restrizioni, sulla stessa identità europea, come unica alternativa costruttiva di un futuro umano ed umanizzatore.

Se siamo capaci di adottare il secondo aspetto, credo che la riflessione – che già preoccupa molti settori della società europea – ci deve portare a lavorare per un futuro europeo nel quale, con il superamento dell'"handicap" degli Stati, delle loro ideologie ed autogiustificazioni, differenti popoli e nazioni reali, diverse lingue e culture, assumano il ruolo a loro consono. Con la chiara convinzione che l'unico modo di essere europei ed universali è che ogni individuo, ogni gruppo, ogni collettività, ogni popolo e nazione, siano loro stessi e si sviluppino su un piano di reale uguaglianza.

L'europeismo e l'universalità, della quale i grandi poteri parlano per convincerci del contrario, sono astrazioni manipolate a beneficio proprio e non dei loro "sudditi". Bisogna poi "disarticolare" la mentalità, secondo la quale il valore delle lingue e culture si determina dalla loro utilità o dall'inutilità delle altre. È molto diverso sapere e parlare lingue – cosa molto utile e necessaria – dall'avere e praticare come propria una lingua che esprime la propria personalità.
Sempre nella linea del futuro europeo proiettato a recuperare l'identità, l'alternativa agli uniformismi è fomentare l'uguaglianza di tutte le altre lingue e culture, il rispetto alla dignità di ogni lingua e cultura, considerandole tutte uguali, non alcune superiori ed altre inferiori, è il rispetto all'essenza di tutte le persone, uguali e differenti allo stesso tempo. È a partire da qui, che rispetto al futuro della costruzione europea, ogni lingua e ogni cultura devono disporre di identici riconoscimenti e canali per esprimersi e svilupparsi nei loro reciproci ambiti.

Per quello che concerne le lingue e culture radicate, anche se oggi, generalmente, sminuite e minacciate, in territori storici, tuttavia esistenti o rivendicati dal popolo, il futuro europeo non può rispondere a soluzioni che significhino la preminenza di alcune lingue (le attuali ufficiali/statali) sulle altre (quelle attualmente minorizzati nei propri ambiti). Il bilinguismo istituzionalizzato non è indicatore di futuro per le lingue emarginate. Legalizza situazioni di fatto, frutto della politica statalista ingiusta e condiziona il diritto alla convivenza, inalberato dagli attuali poteri degli Stati. Infatti l'argomento della convivenza, esaltato come ideale per creare le condizioni di mutuo rispetto tra comunità di lingua e cultura diverse, la cui concretizzazione sarebbe il bilinguismo collettivo, secondo la tesi dei poteri statali, dev'essere realmente l'argomento definitivo, affinché tutti quelli che si sono stabiliti definitivamente in un territorio di cultura e lingua differenti dalla propria, le assumano, come diritto collettivo e come mezzo irrinunciabile di partecipazione ed incorporazione nel popolo che li accoglie. Non è possibile favorire la convivenza mantenendo situazioni ingiuste o ambigue. Soprattutto quando queste finiscono sempre per sfavorire che è minorizzato nei propri ambiti definiti per la sua "differenza" rispetto agli altri.

Evidentemente, il lavoro per creare un futuro europeo alternativo, fondato sulle premesse sopra esposte, che chiameremo anche di opzione per la "ecologia umana", sarebbe un'utopia se non fosse accompagnata da una volontà nazionale e popolare, canalizzata, appoggiata e sostenuta da alcune decisioni politiche. Sono le decisioni politiche quelle che, in definitiva, garantiscono l'esito delle rivendicazioni sociali, sicuramente, nel terreno linguistico-culturale, minoritaria numericamente nell'insieme dell'Europa, però "oggettiva" in una dimensione futura.

È urgente, affinché le decisioni politiche siano chiare e chiarificatrici, smascherare le ideologie e le strutture che pretendono d'imporre l'identificazione dei limiti statali con quelli dei territori di un solo popolo e una sola nazione. Identificazione completamente artificiale, la maggioranza delle volte. In questo modo tornerà a galla l'Europa sommersa delle nazioni e dei popoli autentici. E con questo, si potrà costruire la "nuova" Europa, sulla base dei suoi segni d'identità.

Su tali basi di futuro progressista, il più progressista, perché s'innesta nelle oggettive aspirazioni umani e umanizzatici della società europea, hanno una grossa responsabilità storica gli "altri" popoli e nazioni. L'essere essi stessi, nella loro propria identità, quelli che soffrono di più l'emarginazione, la discriminazione, delle sottili forme di neocolonialismo in un senso globale (che riguarda tutta la società), devono assumere il ruolo dei primi motori della "rinnovata Europa".

Ciò implica la difesa, come primo passo, dell'approfondimento della democrazia, dei diritti collettivi. Seguendo e completando il filo abbandonato o minimizzato dai poteri statali, dei diritti umani individuali che diedero origine alla "rivoluzione" umana ed umanizzatrice dell'Europa, quando si costituirono gli stati moderni strumentalizzatori, oggi obsoleti. Quell'Europa delle speranze, fatta abortire dai poteri statali, è la grande sfida perché possa nascere l'"altra" Europa, con un altro tipo di relazioni interne, strutturate attraverso la mutua solidarietà e non per convenienze interessate delle classi egemoniche. Si tratta di una grande sfida, che può contare su nuovi contributi provenienti, anche, dall'esperienza di lotta dei popoli marginali extraeuropei, nella liberazione dal giogo dell'Europa statalista, mercantile e sfruttatrice. Solo con una visione globale dei problemi del futuro – di essere o non essere noi stessi – e con una conseguente pratica, possiamo pensare, con fondamento, alla "liberazione" delle lingue e delle culture oggi minacciate.

Aureli Argemi - Segretario Generale del CIEMEN (www.ciemen.org)


Vedi anche:
* www.gfbv.it: www.gfbv.it/3dossier/3indice.html#eu-min | www.gfbv.it/3dossier/eu-min/pak-lingue.html

* www: www.ciemen.org/conseu.htm | www.eblul.org

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