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Sudan

Nuer versus Dinka: conflitto, etnicizzazione, aiuti umanitari

Tesi di laurea di Mariagrazia Gioiosa

Bolzano, 10 maggio 2007

INDICE

| Introduzione |

| Capitolo I - La costruzione del conflitto Nuer-Dinka |
1.1 L'invenzione delle "etnie" | 1.2 La strategia governativa del divide et impera | 1.3 La costruzione della guerra | 1.4 Iniziative di pace dal basso

| Capitolo II - Militarizzazione ed etnicizzazione |
2.1 L'etnicità come strumento di guerra | 2.2 Le nuove forme di violenza | 2.3 La violenza nelle relazioni di genere | 2.4 L'identità come effetto e giustificazione della militarizzazione | 2.5 L'etnicizzazione della sfera rituale

| Capitolo III - La politicizzazione degli aiuti umanitari |
| 3.1 La spirale di guerra | 3.2 La strumentalizzazione degli aiuti umanitari | 3.3 Le ambiguità degli aiuti umanitari | 3.4 Le conseguenze delle guerre in Sud Sudan

| Conclusioni | Bibliografia |



Introduzione .: su :.

Cartina dell'area abitata da Nuer e Dinka in Sudan. FONTE: Sudan, Oil and Human Rights, 2003. Sudan significa "terra dei neri" ma la composizione del paese è molto più varia di quanto questa definizione lasci intuire. È il paese più vasto dell'Africa: copre un territorio grande come l'intera Europa occidentale, circa otto volte l'Italia, con una popolazione di quasi trenta milioni di persone che parlano lingue differenti. È teatro del più lungo conflitto civile del continente africano: per oltre mezzo secolo è stato attraversato da guerre che hanno causato almeno due milioni di morti e sofferenze per carestie, povertà e malattie. Il Sudan rappresenta il caso più lampante della condizione di molti altri stati del continente africano, in cui, la situazione estremamente fragile delle politiche interne ha condotto l'intero paese ad essere vittima delle mire delle forze esterne e del suo stesso centro di potere, il governo di Khartoum. Ritengo che il caso sudanese esprima, in linee generali, la grave condizione in cui versano moltissimi altri stati africani.

Innanzitutto, occorre chiedersi cosa ci sia alla base di questi lunghi anni di guerre che riguardano non solo un Nord e un Sud, ma anche una molteplicità di gruppi al loro interno, e quali siano i fattori che hanno influito nella creazione della complessità sudanese. In primo luogo, penso che sia importante evidenziare il ruolo svolto dalle potenze coloniali; sottomesso per mezzo secolo ai britannici, il paese ha subito l'imposizione di confini: frontiere decise a tavolino hanno stabilito dei confini che hanno diviso gruppi affini o hanno riunito popolazioni che nulla avevano in comune. Per molti anni, ad esempio, molti sud sudanesi si sono spostati, e, attraversando il confine, hanno trovato nel paese vicino familiari e parenti, che erano stati divisi dai colonialisti. In Darfur, la popolazione africana della regione è fuggita, in seguito agli attacchi delle milizie e, oltrepassando il confine, ha trovato rifugio in Ciad, presso clan appartenenti ai loro stessi gruppi tribali.

In altre parole, la potenza coloniale britannica ha creato uno stato, unendo in un solo paese arbitrariamente popoli e persone di lingua araba e lingue africane, senza tenere in considerazione il diritto partecipativo della popolazione. In un unico territorio, seppur molto vasto, si sono trovati uniti universi culturali completamente differenti. La frammentazione e l'eterogeneità etnica, derivata a seguito a queste arbitrarietà delle delimitazioni territoriali, è stata spesso semplificata come causa di conflitto, ma questa è un'interpretazione troppo semplicistica e pertanto fuorviante. Non è la diversità che crea scontri e guerre, ma come tale diversità è stata rappresentata e gestita: essa è stata utilizzata da Khartoum per cercare di dividere e di monopolizzare i differenti gruppi, e i conflitti locali sono stati sfruttati dal governo a proprio vantaggio. Il sistema di governo sudanese non ha mai permesso che le diversità potessero realizzarsi e manifestarsi all'interno del paese; ha sempre tentato di reprimere e di soffocare le differenti realtà; non è mai stata intenzione dei governanti lasciare spazio a chi metteva in discussione i confini territoriali e il sistema regionale che si basava su di essi. La questione rilevante riguarda il fatto che il governo del Sudan non è mai riuscito a gestire la complessità del mosaico etnico, linguistico, culturale e religioso delle diverse popolazioni presenti; questo ha causato il sorgere di rivendicazioni identitarie e di scontri decennali che ancora sconvolgono il paese e che stentano a trovare una soluzione.

Secondo Mudawi Ibrahim Adam (responsabile del SUDO, Ong sudanese che lavora in diverse regioni del Sudan e in particolare in Darfur ): "Molti pensano che i sudanesi siano una nazionalità come molte altre, ma quando si parla di Sudan le cose sono diverse; Sudan vuol dire "terra dei neri", quindi siamo tutti sudanesi in questo senso. I confini stabiliti dal colonialismo non sono stati scelti dai sudanesi; esistono almeno 600 gruppi diversi ai quali non è mai stato chiesto se volevano vivere lì. I gruppi non hanno mai avuto voce in capitolo perché il potere coloniale ha deciso che Khartoum era il centro del paese e tutto doveva dipendere da lì, nessuna delle altre parti ha mai potuto decidere su come essere governata. Khartoum ha marginalizzato tutto il paese, non ha mai lasciato nessuna scelta né controllo ai locali. Tutte le differenze presenti nel paese sono state ridotte ad una sola cosa: essere arabi musulmani; ma il paese è ricco di diversità. Ci sono dei problemi infatti non solo tra Nord e Sud, ma tra le stesse tribù del Nord e tra le tribù del Sud, ad esempio. Il governo ha cercato di imporre un'identità, quella araba-islamica, ma quella è un'identità dello stato, non delle persone. In ogni parte del Sudan ci sono diversi gruppi e posso assicurarvi che ogni sudanese prima di tutto dice: "io sono un Nuer o un Dinka…e appartengo alla tribù x o y". È stata imposta un'identità, quella araba-islamica, come identità di stato e non delle persone, colte nella loro peculiarità e diversità; identità che, in quanto imposta, per definizione, non può venir sentita e percepita come propria dalla popolazione, in questo caso, non islamica.

L'etnia e l'identità etnica infatti sono realtà di ordine culturale e non naturale: appartenere ad un determinato gruppo fa riferimento ad una realtà di tipo simbolico; non basta condividere un medesimo territorio o avere lo stesso colore di pelle. Occorre sentirsi parte integrante del gruppo e condividere un insieme coeso e sentito di norme e valori. Non è pertanto una realtà che può venire imposta o il cui senso di appartenenza può venire trasposto o inculcato. Il ruolo del governo nell'imporsi ha dato vita a differenti forme di rivendicazione identitaria, da parte di quelle minoranze che sono state da sempre emarginate. La frammentazione del mosaico sudanese si ritrova anche nella molteplicità dei movimenti di liberazione delle diverse regioni: essi, per ragioni diverse, si oppongono al governo centrale e utilizzano la propria "etnicità" e i propri valori come mezzi per dar voce ai propri diritti. Troppo spesso infatti i conflitti africani vengono semplificati come scontri di tipo "etnico" "tribale" o religioso, ricondotti, più in generale, a presunte "differenze culturali".

L'etnicità non è una tendenza al separatismo, assimilabile al cosiddetto "particolarismo tribale", ma l'effetto di una contesa di interessi, è un modo di percepire l'identità che può essere compreso in relazione a situazioni sociali e storiche precise. Enfatizzando alcuni aspetti peculiari della propria cultura, i gruppi creano in realtà delle alleanze politiche per la difesa dei loro interessi mentre l'impressione superficiale è di un ritorno alla tradizione. Il caso del Darfur ne è un esempio: la tragedia in corso non può essere fatta risalire semplicemente a motivazioni di tipo etnico; così come in Sud Sudan: non siamo di fronte a scontri di tipo tribale; occorre prendere in considerazione che le diverse forme di conflittualità non sono affatto riconducibili a tradizioni, religioni o lingue diverse, ma a come questa diversità è stata gestita e utilizzata. Spesso l'elemento etnico, l'etnicità è lo strumento più efficace usato dall'esterno per spingere le popolazioni a scontrarsi. Allo stesso modo, si additano come cause di conflitto le "differenze culturali"; ma, come ha sottolineato Fabietti, la nozione di cultura nel contesto non antropologico è diventato un concetto spiega tutto: spiega il comportamento, le idee politiche, gli interessi, i conflitti, lo "scontro tra civiltà"… In questo modo le nozioni di cultura o di etnicità diventano un pretesto per giustificare tutto e tutti; bisogna invece affrontare analisi articolate e dettagliate delle motivazioni sociali, dei modelli di accettazione o di rifiuto che muovono gli esseri umani, non basta giustificare l'esistenza di una presunta "differenza culturale" o di una presunta "diversità etnica" per comprendere la realtà di guerre o conflitti che affliggono molte aree del pianeta.

Quello sudanese è da sempre uno scenario complesso in cui si sono articolati interessi compositi e sono state innescate dinamiche eterogenee, spesso attraverso le manovre di gruppi e minoranze. La strategia del governo di Khartoum è stata sempre guidata dal cosiddetto divide et impera: crea divisioni e governa. Si è più volte servito delle diatribe politiche e delle ambizioni dei leader, oltre che delle diversità locali, per far scontrare le popolazioni a cui essi erano a capo.

Di fronte alle rivendicazioni in una qualsiasi delle regioni, il governo si è sempre servito dei conflitti locali per affrontare la protesta; c'è sempre stata competizione tra i vari gruppi, ad esempio, per l'accesso all'acqua o per l'utilizzo delle terra, ma la situazione è sempre stata complicata dal governo, che non esita ad armare un gruppo a scapito di un altro e per incitarli a combattere. Ne è nata uno continua lotta tra gruppi per l'acquisizione di potere e un'escalation di violenza che non sembra trovare una soluzione, e che ha reso la realtà sudanese una dei più gravi scenari di guerre e violazioni di diritti umani, che ancora non sembrano trovare pace. Il potenziale umano ed economico sudanese, non è stato compreso come elemento di unicità e di arricchimento, ma è stato utilizzato come mezzo per alimentare scontri e conflitti.

Confini imposti, tendenza a reprimere le differenze, rivendicazioni identitarie delle minoranze marginalizzate: sono questi alcuni dei fattori che hanno portato alla complessità della realtà sudanese. Questi alcuni dei motivi alla base degli scontri; aspetti che ritengo non vadano sottovalutati e di fondamentale importanza. Tuttavia la realtà sudanese è talmente complessa che vanno considerate una molteplicità di variabili, tutte influenti, nello scenario di perenne conflitto che ha caratterizzato la storia di questo paese. Occorre, ad esempio, analizzare l'influenza che hanno avuto le potenze internazionali nelle dinamiche interne al paese. Si deve, ad esempio, tenere in considerazione che il Sudan, in quanto terra ricca di risorse, dalle acque del Nilo alle enormi quantità di petrolio, è stato vittima di ingerenza da parte degli agenti internazionali, appoggiati direttamente o indirettamente, dal governo di Khartoum. Per permettere lo sviluppo e il potenziamento di tali forme di ricchezze, il governo ha da sempre tentato di sottomettere e di eliminare le popolazioni sud sudanesi per giungere ad entrare in possesso delle terre e delle risorse del Sud. Le strategie sono molteplici e non sono mai state rivolte alla tutela della popolazione. Quando, nella seconda metà degli anni Novanta, le autorità locali sono riuscite a rilanciare il settore petrolifero, immediatamente le compagnie straniere hanno cominciato ad investire in loco; l'obiettivo delle multinazionali interessate era ed è quello di far diventare il Sudan un fondamentale crocevia di produzione e trasporto dell'Africa sub-sahariana con larghe parti del paese ancora inesplorate e con elevate possibilità di attrarre capitali e investitori stranieri.

Nel dicembre 1998 il governo centrale ha annunciato che un'associazione di compagnie canadesi, malesi, argentine, tedesche, inglesi e cinesi avevano completato la costruzione di un oleodotto di 1.110 km per trasportare il petrolio dalle aree dell'Upper Nile occidentale al Nord. Le popolazioni del Sud non sono state interpellate sulla volontà di una tale costruzione, e non è mai stato previsto per loro un eventuale guadagno dagli introiti ricavati da una simile operazione. Al contrario, queste ricchezze sono state utilizzate e sfruttate a loro svantaggio, causando il sorgere di forme di violenza, mai conosciute prima. La grande quantità di petrolio ottenuto dalla costruzione dell'oleodotto, infatti, ha accresciuto in poco tempo le condizioni economiche del governo sudanese e la sua posizione internazionale. Una grossa quantità di questa ricchezza è stata investita da Khartoum nella produzione di armi sofisticate e potenti per sostenere i lunghi anni di assalti ai sud sudanesi. Si vedrà che la popolazione del Sud, ma in generale di tutto il paese, è diventata più violenta in seguito alla crescente militarizzazione mossa da Khartoum sui capi locali e quindi sui civili.

Le risorse e le enormi potenzialità di ricchezza delle proprie terre sono diventate, per i civili sud sudanesi, strumenti di guerra senza che essi potessero nemmeno trarre vantaggio dai profitti derivati. Ad esempio, nel corso degli anni Novanta, il governo armando milizie e manipolando le rivalità tra i leader dei gruppi armati meridionali suoi alleati, ha costretto alla fuga centinaia di migliaia di civili Nuer, colpevoli solo di vivere in un territorio ricco di petrolio. Le compagnie petrolifere straniere non si sono mai opposte alla politica governativa e in alcuni casi hanno anche collaborato con Khartoum. I governi delle compagnie statali cinesi e malesi hanno fornito al regime sudanese armi pesanti per sostenerlo a sconfiggere lo SPLA/M, il Movimento di Liberazione Popolare del Sudan, da sempre in lotta contro il governo del Nord, per la nascita di un "nuovo Sudan libero e unito". Ma non solo il petrolio è elemento di sfruttamento; anche le acque del Nilo sono fonte di ricchezza e pertanto oggetto di contesa e di ingerenza da parte, ancora una volta, del governo e delle potenze straniere. La regione meridionale ha avuto un ruolo marginale anche per quello che concerne le acque del Nilo; le popolazioni Nuer e Dinka del Sud, che vivono prevalentemente di allevamento di bestiame, si sono opposte al progetto del canale del Jonglei, voluto dal governo, che prevedeva la valorizzazione della valle alta del fiume e il recupero di molta acqua.

Le due popolazioni infatti temevano che il prosciugamento delle paludi e l'ostacolo costituito dal canale alle migrazioni delle mandrie di bestiame avrebbero sconvolto i tradizionali modi di vita, senza benefici reali per i loro interessi. Il canale comportava la riduzione delle pozze attorno alle quali le mandrie si radunavano per bere durante la stagione secca. Inoltre la regione meridionale rifiutava di vedere le risorse del Sud nuovamente sfruttate a vantaggio del Nord. Nonostante questa opposizione, il progetto è stato portato a termine, anche se poi è stato abbandonato. Solo l'accordo di pace di Nairobi del 2005, che ha posto "fine" alla lunghissima guerra Nord contro Sud, ha permesso che le acque del Nilo diventassero percorribili, a vantaggio della popolazione, almeno per il trasporto dei rifornimenti e dei soccorsi umanitari. Un altro aspetto relativo all'ingerenza da parte degli attori internazionali riguarda il supporto militare che il Sudan ha ricevuto a partire dagli anni Ottanta da Stati Uniti, Cina, Iran e Russia. Il supporto della Cina sembra essere stato particolarmente intenso con l'importazione di carri armati, artiglierie e velivoli. Questo potente rifornimento ha causato stravolgimenti impressionanti: oltre all'inevitabile violenza che si è accresciuta nelle regioni sudanesi, le popolazioni coinvolte nella distribuzione di armi hanno visto progressivamente cambiare le proprie abitudini e forme di vita rituale.

Inoltre, il crescente numero di morti causati da attacchi nottetempo, distruzioni, carestie ed epidemie, che da sempre attanagliano il paese, ha richiesto l'intervento di organizzazioni internazionali e agenzie umanitarie. Ma neppure sotto questo aspetto gli interessi della popolazione hanno preceduto le mire velleitarie degli attori esterni. Gli aiuti umanitari nelle regioni meridionali sono stati frequentemente ostracizzati da parte di Khartoum e dal movimento dei ribelli; e tuttora il governo sudanese ostacola l'arrivo di operatori sanitari in Darfur, rendendo difficoltoso il lavoro delle poche Ong locali che tentano di proteggere e aiutare i bisognosi. Un aspetto importante riguarda certamente il ruolo ambiguo che tali organizzazioni hanno avuto, in appoggio al governo sudanese. Ad esempio, il World Food Programme porta sostegno e aiuto alle popolazioni del Sud, senza tentare di incentivare né di potenziare le risorse che tale regione possiede. La zona dell'Equatoria in Sud Sudan, ad esempio, potrebbe diventare un territorio estremamente fertile e fonte di produzione e risorse, ma le compagnie internazionali, impongono il proprio prodotto, con il pretesto di soccorrere le aree più bisognose: il risultato è un continuo peggioramento delle condizioni di vita, non solo della popolazione, ma dell'intero paese. Gli Stati Uniti hanno deciso di intervenire di fronte alla grave situazione sudanese, per motivi legati ai propri ritorni e interessi economici; intervenire in Sud Sudan per il rifornimento di petrolio è un aspetto che la potenza americana ha preso in considerazione in vista di un futuro deterioramento dei rapporti con il loro fornitore abituale, l'Arabia Saudita.

Le molteplici forme di diversità ed eterogeneità non sono state preservate, tentando invece di omogeneizzare l'intero paese; le risorse economiche, potenziali fonti di ricchezza per la popolazione locale e per il miglioramento delle loro condizioni di vita, sono state utilizzate per alimentare i conflitti e per innescare una spirale di violenza a danno della popolazione civile. Questa la precaria situazione sudanese, in linee generali. Come in tutte le situazioni di guerra o di competizione politica, sono i civili a pagarne le conseguenze, non solo in termini di perdite umane, ma anche sotto il punto di vista degli stravolgimenti delle tradizionali forme di vita. Le popolazioni del Sud, particolarmente dedite alla pastorizia e all'agricoltura, hanno subito un forte cambiamento nelle loro tradizionali forme di sostentamento. Le guerre infatti hanno distrutto le terre per i loro pascoli; hanno portato epidemie e carestie; i loro territori, a seguito di saccheggi e attacchi da parte delle milizie, sono diventati inutilizzabili per l'allevamento; le acque sono diventate malsane e non permettono agli animali, e alle stesse persone di abbeverarsi, senza la possibilità di contrarre malattie.

Uomini e ragazzi sono stati costretti a spostarsi in cerca di terre migliori dalle proprie, distrutte dalle guerre. La mia analisi si concentra sugli sconvolgimenti che i conflitti, gestiti in maniera più o meno diretta dal governo di Khartoum, hanno avuto sulle tradizionali forme rituali delle due più numerose popolazioni del Sud, i Nuer e i Dinka. Il conflitto tra questi due gruppi ha avuto inizio nel 1991, in seguito dalla scissione dello SPLA/M, il Movimento Popolare di Liberazione del Sudan. Un conflitto che è subito apparso ai civili come uno scontro nuovo, diverso dalle solite diatribe per il bestiame; era una guerra mossa dalle diatribe politiche dei due leader, il Dinka John Garang e il Nuer Riek Machar, mossi a loro volta dal governo centrale. Questo conflitto ha portato le due popolazioni a diventare più violente in seguito anche all'introduzione di armi da fuoco, causando uno stravolgimento delle tradizionali forme di vita rituale.

I Nuer chiamano se stessi Naath; vivono nelle paludi e nelle vaste savane che si estendono ai lati del Nilo, a sud del punto di affluenza del Sobat e del Bahr al-Gazal, e sulle sponde di questi due fiumi. Sono separati dai Dinka, anche se, in seguito all'espansione e alle migrazioni del XIX secolo, hanno attuato nei loro confronti una notevole assimilazione. I Dinka sono il gruppo più numeroso del Sud Sudan; chiamano se stessi Jieng (nella regione dell'Upper Nile) e Moni-Jang (nel Bahr al-Gazal). Si trovano nel Bahr al- Gazal, nelle regioni dell'Upper Nile e del Kordofan meridionale. I Naath, attualmente dominano la gran parte della regione dell'Upper Nile, che si estende dal fiume di Zeraf fino alle rive del Baro e Pibor delle regioni Luo e Jinaki. Chiamano i Dinka Jiang, ma, in generale, utilizzano questo termine per qualunque tribù contro cui fanno razzie e da cui prendono dei prigionieri. Sono due popolazioni molto simili; formano una sottodivisione del gruppo nilotico che occupa una parte dell'area culturale dell'Africa orientale. I Nuer distinguono le tribù che vivono nei territori ad ovest del Nilo, da quelle che hanno migrato ad est; per questo si parla di Nuer occidentali e Nuer orientali. Sono due popoli con una cultura materiale molto semplice e questo è determinato dall'ambiente in cui vivono. Si dedicano prevalentemente all'allevamento di bestiame, alla pesca e all'agricoltura, seppur in maniera minore.

Questi gli aspetti e le caratteristiche delle forme di sussistenza. Quello che interessa sottolineare ai fini di questa analisi, sono però le relazioni che le due popolazioni hanno sempre avuto prima dello scoppio del conflitto. Sebbene non abbiano mai avuto relazioni pacifiche e serene, ma non vi sono ragioni per pensare che essi abbiano intenzionalmente mosso una tale forma di violenza. Le ragioni che, prima del 1991, spingevano entrambi i gruppi allo scontro non dipendono da "animosità etnica", ma da motivazioni diverse. Le razzie di bestiame, il desiderio di saccheggio e di ricchezza sono stati i motivi che da sempre hanno spinto le popolazioni a scontrarsi. La dominazione anglo-egiziana, infatti, aveva ridotto al minimo la loro competizione per il potere politico; le loro diatribe si riducevano a scontri condotti con lance e scudi, per la spartizione delle terre, del bestiame, o per altri motivi di tipo economico. Secondo la storia, la tradizione, e la stessa visione mitologica, tra i Nuer e i Dinka c'è sempre stata inimicizia; le aggressioni nei confronti dei Dinka sono considerate come una condizione normale e un dovere in conformità al mito. In base a questo, i Nuer e i Dinka sono presentati come due figli di Dio, il quale promise una mucca anziana a Dinka e il suo vitello giovane a Nuer. Dinka, di notte, andò nella stalla di Dio e, imitando la voce di Nuer, si fece dare il vitello.

Quando Dio scoprì di essere stato ingannato, si arrabbiò e diede incarico a Nuer di vendicare l'ingiuria razziando il bestiame di Dinka fino alla fine dei tempi. (Evans- Pritchard 1949: 178). Questo mito giustifica le continue razzie di bestiame dei Nuer e riflette le relazioni politiche dei due popoli oltre che il loro carattere. I Nuer da sempre hanno avuto il ruolo di aggressori; gli atteggiamenti e i rapporti nei confronti dei vicini sono influenzati dall'amore per il bestiame: le razzie nei loro confronti hanno sempre trovato giustificazione dal loro desiderio di impadronirsi del loro bestiame e di controllare i loro pascoli. Questo comunque non ha impedito che i due popoli avessero anche delle relazioni diverse dalla guerra. Prima dell'inizio del conflitto gli uomini e le donne Dinka e Nuer si sposavano, erano uniti dall'utilizzo di un'economia agro-pastorale e da legami derivanti dalla comune discendenza.

Entrambi hanno una discendenza di tipo patrilineare, che viene stabilita attraverso legami tra individui di sesso maschile. I figli, attraverso questo tipo di discendenza, mutuano l'identità etnica dai loro padri e non dalle madri; come in molte società patrilineari, anche presso i Nuer, avere figli (specialmente maschi), è per un uomo un fattore di grande importanza, al punto che si ritiene opportuno procurare dei figli ad un uomo anche quando egli muoia, prima di essersi sposato o senza prole. Per fare questo si può ricorrere al cosiddetto matrimonio col fantasma: un uomo del gruppo di discendenza del defunto può sposarsi con una donna a nome dello scomparso, cosicché i figli che nascono da tale unione sono considerati a tutti gli effetti figli del defunto. La residenza che praticano sia i Nuer che i Dinka è di tipo virilocale (o patrilocale): la moglie e il marito vanno cioè a vivere con o vicino ai parenti del marito. Entrambi i gruppi sono esogamici, le donne cioè possono sposare uomini che sono esterni al loro gruppo di appartenenza. Per questi motivi, quindi, una donna viene considerata dai Nuer e dai Dinka "senza una residenza fissa"; una donna poteva sposare più uomini e avere figli da ognuno di questi, ma l'identità del figlio dipendeva comunque dal padre.

Inoltre, in seguito alla vasta migrazione ed espansione che i Nuer hanno intrapreso all'inizio del XIX secolo, molte popolazioni vicine, come i Dinka, gli Anyuak e i Maban, sono state assimilate nella loro struttura politica su base di eguaglianza. L'assorbimento di un elevato numero di Dinka ha avuto un forte impatto sulle identità dei gruppi conquistati: i Nuer infatti hanno attuato una notevole assimilazione, e alcuni stranieri Jiang, sono "diventati" Naath. L'espansione e la progressiva assimilazione effettuata dai Nuer ha fatto in modo che essi si considerassero come una popolazione estremamente ospitabile e aperta: le persone rapite durante le loro razzie vengono incorporate nel loro stesso sistema, abbandonando l'identità Jiang, per assumere quella Naath. Agli occhi dei Nuer quello che rende una persona Naath è innanzitutto il comportamento che un individuo adotta. Quelli che Barth chiama i "segni espliciti", posseduti ed esibiti dai membri del gruppo etnico, vale a dire, le abitudini di linguaggio, l'amore per il bestiame, le forme e il tipo di abitazione, sono tutti aspetti che i Nuer hanno tramandato per generazioni e che sono sempre stati rappresentati come tratti distintivi della loro etnicità.

In altre parole, generazioni passate e presenti di Nuer hanno elaborato una forma di identità di tipo "performativo", cioè quella che Fabietti definisce come "una forma di identità creata dai soggetti interessati", è un'identità che viene costruita e prodotta dai soggetti, in quanto viene da essi immediatamente colta, senza che gli individui debbano selezionare in maniera cosciente i tratti che essi ritengono costituire i criteri di appartenenza. Per i Nuer elemento chiave della loro concezione identitaria è il bestiame: essi nutrono profondo disprezzo nei confronti di chi ne possiede poco o nulla; si considerano una cosa sola con le loro bestie. Natalina Sala (presidente dell'Ong Arkengelo Ali Association Sudan) mi ha raccontato che quando un animale sta male, i Nuer rimangono svegli anche tutta la notte per accudirli e per sincerarsi delle loro condizioni di salute; danno alle loro mucche gli stessi medicinali che prendono per curare le loro stesse malattie.

"I Nuer hanno un amore incredibile per le loro mucche; hanno dei contenitori che vengono lavati con l'urina della mucca: e da lì bevono il latte e lo fanno bere ai loro figli, oppure lo vendono anche". Questa testimonianza conferma quanto riportato da Evans-Pritchard (1940) e da Sharon Hutchinson (1996): i Nuer non fanno differenza tra una persona e un animale, si considerano una cosa sola con essi. Nelle danze, nelle canzoni e perfino nella decisione dei nomi, gli individui Nuer sono costantemente celebrati e onorati per la loro somiglianza agli animali. Infatti il bestiame, come le persone, ha il sangue, elemento principale di vita; ad esempio, il rito di adozione, che permette ad un Dinka (ma in generale ad un non Nuer), di entrare a far parte della comunità è un passaggio considerato di fondamentale importanza per un Nuer: è il sangue dell'animale che permette all'individui di diventare ed di essere considerati Naath, e da quel momento le persone "adottate" vengono chiamate Jaang-Naath (Dinka-Nuer): sono cioè diventati Nuer; infatti una volta che la loro appartenenza ad una comunità viene riconosciuta, il loro status giuridico è lo stesso di quello di un Nuer. L'importanza del bestiame, in quanto associato al sangue, diventa un elemento cruciale nella definizione della loro identità, definita e costruita in relazione e in contrapposizione all' "altro".

Le pratiche e le consuetudini di vita determinano e differenziano i Nuer dai non Nuer: gli arabi "si sposano col denaro", mentre tra i Nuer il matrimonio è legato alla "ricchezza della sposa", ovvero al pagamento della dote in bestiame. Il denaro in quanto elemento sterile che non crea legami, appartiene ad una sfera opposta a quella del sangue. Anche il comportamento o lo svolgimento di determinate mansioni sono utilizzate per stabilire chi è Naath e chi invece non lo è; i lavori più umili, svolti principalmente al Nord e che non prevedono l'allevamento del bestiame, sono lavori che "soltanto un Dinka potrebbe voler fare".

L'identità di un Nuer è come un titolo onorifico che viene attribuito dall'approvazione sociale e dai membri dell'intera comunità: un individuo può diventare una persona degna di accettazione sociale se si conforma a determinate norme comportamentali, e, allo stesso modo può spogliarsi di tale qualifica non aderendo o trasgredendo a tali norme. È un'identità di tipo acquisitivo. Se per un Nuer è possibile diventare un Naath, un Dinka non può "diventare" Jiang. L'identità Dinka è definita secondo termini di ascrizione: occorre essere nati Dinka per essere definiti e considerati tali. Questa concezione identitaria è strettamente riconducibile all'espansione Nuer del XIX secolo: essi infatti hanno attuato una profonda assimilazione dei Dinka nelle loro comunità. I Dinka pertanto hanno maturato una concezione diversa, definita "primordiale", basata cioè sulla discendenza comune, come elemento di autenticità; i legami di discendenza e l'esistenza di origini comuni, sono infatti elementi fondamentali per la definizioni di un gruppo etnico. Perché un gruppo sia percepito dall'interno come "etnico", o perché possa essere visto dall'esterno come tale, bisogna che siano attivi tutti gli elementi costitutivi dell'etnicità: origini risalenti ad un passato remoto, esistenza di legami di discendenza comuni, tratti culturali e storia comuni, lingua e religioni affini.

I Nuer e i Dinka hanno da sempre delle concezioni stereotipate, gli uni nei confronti degli altri, che esprimono le caratteristiche del loro carattere. I Nuer vengono definiti dai vicini come prepotenti, impulsivi, ostili a qualsiasi forma di autorità e incapaci di ricoprire ruoli di potere; i Dinka invece si ritengono più astuti e inclini a comandare. Anche se questi stereotipi erano presenti già prima dello scoppio del conflitto, sembra che siano stati "costruiti" e "riadattati" dall'esterno, per giustificare l'esistenza di reali motivazioni di scontro agli occhi degli stessi civili. Sia i Dinka che i Nuer infatti concordavano con le concezione che nutrivano gli uni nei confronti degli altri; tuttavia essi hanno sempre rifiutato le interpretazioni negative che vanivano loro attribuite da chi era estraneo ed esterno ai loro legami. Non è stato difficile per i capi militari enfatizzare questi aspetti differenziali e costruirci intorno delle etnie irriducibili l'una dall'altra, per dare giustificazione alla violenza etnica.

I rapporti tra le due popolazioni non sono mai stati sereni e privi di scontri, e l'analisi delle concezioni stereotipate di un gruppo nei confronti dell'altro lo conferma, ma non ci sono ragioni né prove per pensare che le due popolazioni abbiano intenzionalmente mosso una simile forma di violenza. Il problema tra le due popolazioni è sempre stato quello del bestiame; ecco cosa ha detto un capo Dinka presente a Lokichokkio, in occasione degli accordi di pace: "Il nostro problema con i Nuer non è mai stato un animale morto o il pascolo, o altro. Il problema tra di noi è sempre stato quello delle vacche. I Nuer sono un popolo a cui piacciono le vacche. Una volta che ne vedono una delle nostre, la prendono. Questa è la nostra contesa tradizionale con i Nuer. Ma litigavamo solo per le vacche. Quella attuale non è la nostra contesa tradizionale". Nonostante l'esistenza di rapporti violenti e di competizione, le tensioni tra i Nuer e i Dinka non sono mai state motivate da animosità etnica; i capi militari hanno giocato sull'etnia, sulle differenze dei due gruppi, per alimentare gli odi e le appartenenze tribali. Quel che è successo dal 1991 è qualcosa che non è dipeso dalla volontà delle popolazioni coinvolte: "Non c'è niente nei cuori dei Nuer e dei Dinka che può avere causato questo conflitto. E' successo qualcosa che va oltre i nostri poteri".

La guerra infatti è stata mossa dal governo di Khartoum e ha agevolato il suo obiettivo che è sempre stato quello di rappresentare il problema del Sud come il risultato di lotte intestine di tipo "tribale" piuttosto che come la conseguenza della sua stessa politica discriminatoria. Il governo sudanese ha sempre voluto che le popolazioni si uccidessero per riuscire ad entrare in possesso e ad usufruire delle terre e delle risorse del Sud. Ritengo che questo conflitto rifletta, in linee generali, le dinamiche alla base della politica del divide et impera che il governo sudanese ha utilizzato in tutte le regioni del paese per avere accesso alle terre e alle risorse. Ha fomentato le divergenze politiche dei due leader locali, Riek e Garang, per assicurarsi l'appoggio della fazione Nuer nella lotta all'indebolimento dello SPLA/M, composto da una maggioranza Dinka. In tal modo si sono "costruite" e rafforzate dell' "etnie" diverse e inconciliabili; la violenza che è seguita ha causato uno stravolgimento delle vite delle popolazioni coinvolte. Infine, si è servito della sua influenza internazionale per impedire l'accesso umanitario in determinate aree, al fine di sfinire e stremare la popolazione. Questi tre aspetti della politica di Khartoum sono stati affrontati nei tre capitoli che articolano il mio lavoro. Nel primo capitolo, ho evidenziato i fattori che hanno determinato la costruzione delle forme di rivendicazioni identitarie in tutto il Sudan, per poi calarmi nel caso specifico della regione meridionale. La costruzione delle etnie Nuer e Dinka è stata analizzata in relazione alle situazioni storiche e sociali, che hanno contribuito alla nascita di un conflitto manipolato e imposto dall'esterno.

Si è analizzato il contesto di riferimento che ha permesso lo sviluppo di questo scontro, i fattori che hanno causato la scissione dello SPLA/M, dopo alla nascita della violenza etnica nell'Upper Nile occidentale, per arrivare ad analizzare il conflitto Nuer-Dinka, affrontato come una guerra imposta e fomentata dall'esterno. Il secondo capitolo affronta il processo di etnicizzazione del conflitto: le differenze tra le due popolazioni sono state reificate per dare giustificazione a una simile forma di violenza. Innanzitutto ho evidenziato come la società Nuer e Dinka sia diventata più violenta: il governo di Khatoum e delle potenze internazionali hanno avuto un ruolo determinante nel processo di militarizzazione. Gli scontri sempre più cruenti e la brutalità delle loro azioni hanno condotto ad una completa riformulazione di ogni ambito della loro vita. Innanzitutto le forme identitarie hanno subito un crescente stravolgimento, i due gruppi hanno cominciato a concepire la propria identità in maniera più rigida ed impermeabile. Questa concezione ha fatto in modo che le forme di violenza diventassero più cruente, coinvolgendo ogni segmento della società: donne, bambini e anziani, in passato mai coinvolti negli scontri.

Le forme rituali hanno subito una completa riformulazione: le regole relative agli atti di omicidio sono state stravolte e pertanto si è trovato giustificazione ad uccidere intenzionalmente donne e bambini, mai coinvolti negli scontri precedenti e a riformulare le precedenti relazioni di genere. L'etnicizzazione della differenza, però, non è soltanto l'effetto ma anche la giustificazione del conflitto. Si è cominciato ad uccidere in maniera tanto feroce perché i capi militari hanno fatto credere che non vi erano conseguenze di contaminazione; allo stesso tempo, le tradizionali norme relative agli atti di omicidio non sono state più praticate per permettere scontri sempre più violenti. Il terzo capitolo affronta l'aspetto relativo agli aiuti umanitari. La mia analisi si incentrerà principalmente su come gli aiuti umanitari sono stati utilizzati come strumenti di guerra. L'aiuto umanitario è diventato parte dei meccanismi di oppressione e di violenza che sono all'origine degli stessi conflitti e della stessa politica discriminatoria del governo sudanese. Khartoum e lo SPLA/M hanno più volte impedito il rifornimento e l'accesso per soccorsi umanitari per motivi di ordine politico, accrescendo il numero di vittime per epidemie e carestie. Era nei loro interessi fare in modo che la guerra continuasse e pertanto si sono serviti della loro influenza, per ostracizzare il rifornimento di aiuti e soccorsi.

Dal momento che l'argomento da me preso in considerazione, il conflitto Nuer- Dinka, ha avuto inizio negli anni Novanta, e dal momento che, sempre secondo il mio approccio, lo stato conflittuale e la violenza militare è riconducile alla politica del governo di Khartoum (ma non solo, anche il ruolo degli attori internazionali ha avuto un ruolo cruciale), mi sono chiesta quale potesse essere stato l'atteggiamento del governo sudanese di fronte ai crescenti tentativi di soccorsi umanitari che è andato presentandosi in quegli anni, in risposta alla sua stessa politica di guerra. Ho pertanto contattato alcune ONG presenti in Sud Sudan in quegli anni e mi sono fatta raccontare la loro esperienza per capire se, e in che modo, esse hanno subito l'influenza e l'ostracismo da parte del governo; che cosa realmente ha invalidato gli aiuti umanitari in Sud Sudan.

Mi interessava comprendere quale fosse la situazione degli anni Novanta e quindi vedere, se e in che misura la condizione attuale in Sud Sudan, dopo gli accordi di pace, è cambiata. Ho avuto modo di parlare col dott. Giuseppe Meo presidente del CCM (Comitato Collaborazione Medica), che è presente in Sud Sudan dal 1983. E' indubbiamente la persona che ha più conoscenza della situazione sud sudanese e che si trovava in missione negli anni della scissione del Movimento di Liberazione. Sono entrata inoltre in contatto col COSV, consultando il loro Centro di Documentazione, molto fornito in materia e ho parlato telefonicamente col dott. Giorgio Zucchello. Anche AMREF è attiva in Sud Sudan: purtroppo però non sono riuscita parlare con le persone che mi sono state segnalate. Ho preso un appuntamento, nella sede di Milano, con Paola Magni che attualmente sta seguendo un progetto di una scuola di formazione a Maridi; non si definisce un'esperta di Sud Sudan, si occupa infatti della regione sudanese da poco tempo, pertanto mi ha fornito soltanto una spiegazione degli attuali progetti di AMREF in Sud Sudan.

Natalina Sala e suo marito Callixte Minani (i cui nominativi mi sono stati riferiti da Giovanni Sartor della Caritas di Milano) invece sono gli unici esponenti di una Ong, l'Arkangelo Ali Association, che dal settembre 2006 è stata registrata come Ong sudanese. Sono entrata inoltre in contatto il CESVI di Bergamo: sebbene questa organizzazione lavori in Sud Sudan dal 2002, il Project Officer, Stefania Giacco e Raffaele Del Cima, Country Rappresentative e coordinatore per le attività che essi svolgono in Kenya, Somalia e Sud Sudan, sono riusciti a fornirmi una panoramica dell'attuale situazione dopo gli accordi di pace. Non essendo a conoscenza della situazione della regione meridionale degli anni Novanta, mi hanno messo in contatto, via mail, con Daniele Panzeri, che lavora per la Cooperazione Italiana, che mi ha consigliato di contattare Luca Zampetti, rappresentante del nostro governo ai colloqui di pace Nord-Sud dal 2002 al 2005; ha anche partecipato al negoziato di pace per il Darfur ad Abuja per conto delle Nazioni Unite.

Le mie non si possono definire come delle vere e proprie interviste; e, se così le si vuole considerare, bisogna aggiungere che esse si sono svolte in maniera non strutturata. Ho voluto capire e avere delle informazioni di persone che si trovavano in Sud Sudan negli anni della scissione del Movimento di Liberazione, per sentirmi raccontare delle esperienze dirette, per avere dei punti di vista diversi e per capire in che condizioni versa al momento il Sud Sudan. Pertanto dopo essermi presentata, aver esposto il mio lavoro e le mie finalità, ho lasciato la libertà di affrontare come meglio credevano, le questioni che avevo segnalato loro. Un questionario strutturato e standardizzato non corrispondeva alle finalità della mia analisi e pertanto ritenevo inutile formulare le stesse domande nello stesso ordine a tutti gli intervistati: di volta in volta infatti si presentavano aspetti differenti, tutti ugualmente interessanti che in quanto frutto di esperienza individuale, vanno colti nella loro peculiarità e pertanto non possono essere generalizzati. Riporto una traccia delle domande che ho posto loro, anche se va sottolineato che di volta in volta si sollevavano problematiche e tematiche diverse. Per le persone che non ho avuto modo di incontrare e con cui sono rimasta in contatto solo via mail, ho formulato una scaletta con delle domande, per definire e chiarire gli aspetti che mi interessavano. Mi sono servita di un registratore per riportare nella maniera più fedele possibile le parole degli intervistati: ai supporti audio ho comunque sempre accompagnato appunti scritti. Le interviste sono state piuttosto informali: le persone si sono espresse con un linguaggio confidenziale, rifiutandosi persino di farsi dare del lei.



Capitolo I - La costruzione del conflitto Nuer-Dinka .: su :.

Da oltre mezzo secolo il Sudan è teatro di una guerra tra la parte settentrionale e quella meridionale del paese, solitamente semplificato nella forma di un conflitto tra un Nord arabo musulmano e un Sud cristiano animista. Un'analisi approfondita porta, tuttavia, a scoprire molte cause interdipendenti, di ordine storico, economico, politico ed etnico, che hanno fatto delle guerre civili sudanesi una questione di difficile soluzione. La guerra infatti va inserita in un contesto più ampio e non deve essere semplificata come un conflitto di natura etnica o religiosa; è provocata da una prassi di sistematiche violazioni dei diritti umani che ha origine nella storia, nella cultura e che si intreccia con motivazioni economiche e con ragioni geopolitiche internazionali.

Douglas H. Johnson (2003) fornisce due differenti interpretazioni per spiegare questa situazione. La prima è quella che ritiene che, la profonda divisione tra la parte settentrionale e quella meridionale del Sudan, sia dovuta a secoli di sfruttamento degli "africani" del Sud da parte degli "arabi" del Nord. La seconda ritiene che il Sudan sia stato diviso in modo artificiale da un dominio imperialista che ha imposto i confini delle regioni del paese, senza mai interpellare la popolazione. Egli rifiuta entrambe queste spiegazioni a favore di un approfondito studio sullo cause economiche, politiche e culturali. È certo che il Sudan abbia subito un forte processo di arabizzazione e di islamizzazione da parte delle tribù arabe durante il Medio Evo. L'invasione degli arabi è stata accettata come un fatto storico sia da coloro che hanno sempre ritenuto che l'arabizzazione fosse un processo inevitabile, interrotto soltanto dall'intervento degli inglesi, sia da quanti hanno visto nell'invasione una minaccia esterna che doveva essere fermata da una ferrea opposizione. Certamente il Nord del Sudan è sempre stato unito dalla fede nell'Islam e da un profonda coesione politica e culturale, che invece è mancata al Sud.

Qui infatti è mancato quel lento processo di creazione di un comune denominatore che potesse fare da collante e permettere così il riconoscimento di tratti comuni su cui basare un'identità meridionale specifica, come invece era successo alla parte settentrionale del paese. Per capire le ragioni dei conflitti che affliggono il Sudan occorre comprendere che i motivi di ordine religioso, lo sfruttamento economico e gli interventi coloniali e postcoloniali, non riescono, se presi singolarmente, a spiegare in maniera esaustiva la difficile situazione sudanese. All'iniziale conflitto Nord-Sud, negli ultimi quindici anni circa, sono seguite una serie di altre guerre: anche Sud contro Sud, diviso in una moltitudine di fazioni diverse, altre regioni periferiche - come il Darfur - contro il governo centrale, rappresentato dalle tre città di Khartoum, Khartoum Nord e Omdurnam, cuore del potere politico ed economico del Sudan.

In questo capitolo cercherò di delineare come la frammentata e complessa realtà sudanese non sia la causa dei conflitti; il vero problema riguarda la gestione e la costruzione che di essa si è fatta: in questo modo si possono comprendere adeguatamente le dinamiche alla base degli scontri sudanesi. Il conflitto tra i Nuer e i Dinka del Sudan meridionale dimostra come troppo spesso le differenze tra gruppi sono state considerate assolutizzate, promuovendo i gruppi stessi allo stato di vere e proprie "etnie" distinte e irriducibili. La violenza tra le due popolazioni è un esempio di scontro voluto, costruito e alimentato dall'esterno: questa guerra ripropone la logica di base di Khartoum che è quella di ritrarre i conflitti del paese come scontri di tipo "tribale" piuttosto che come il prodotto della sua stessa politica discriminatoria. La violenza "etnica" tra queste due popolazioni è stata costruita e ha preso luogo in seguito all'imposizione di strategie esterne: il ruolo dei leader militari, mossi a loro volta dal governo centrale hanno fatto in modo che la guerra si delineasse lungo linee "etniche". Per comprendere questo conflitto, occorre tenere in considerazione il complesso contesto di riferimento; infatti sin da epoche remote la parte meridionale del Sudan è stata considerata come una terra ricca di risorse da sfruttare: partendo da queste premesse si può capire come ha preso forma la violenza tra Nuer e Dinka.

1.1 L'invenzione delle "etnie"

Per comprendere le diverse forme conflittuali che sconvolgono il Sudan, occorre tenere in considerazione il variegato mosaico linguistico, culturale ed "etnico" che caratterizza da sempre il paese. Tuttavia, è bene chiarire fin da subito che non è stata tale diversità a causare uno stato costante di guerra; i conflitti che hanno marcato la storia del paese non sono intrinsecamente causati da queste diversità, ma piuttosto essa è stata utilizzata per reprimere. Le differenti forme presenti nel paese non sono state comprese e promosse nelle potenzialità e nelle forme di arricchimento che esse potevano apportare alla struttura complessiva. Venendo a mancare un approccio dinamico, globale e tollerante nei confronti delle differenti anime del paese, si sono formate delle guerre e degli odi difficilmente sanabili.

Per queste ragioni i conflitti che imperversano nel paese non possono essere considerati di tipo "etnico" o "tribale". Questa interpretazione è fuorviante e non chiarisce cosa realmente vi sia alla base degli scontri; non è infatti la diversità che crea tensione e competizione. Cercherò qui di ricostruire il processo di invenzione delle "etnie" Nuer e Dinka, sottoposto ad un continuo processo di riformulazione, come elemento indispensabile per comprendere le dinamiche conflittuali alla base dello scontro, fino alla definizione dello scenario attuale. Le diverse forme di governo, dal dominio turco-egiziano, al governo del Mahdi, al colonialismo britannico, hanno fatto in modo che tutto il potere fosse accentrato a Khartoum, che è diventato l'unico centro decisionale: le diverse realtà presenti non sono mai state interpellate sulle decisioni relative alla propria amministrazione e alle proprie risorse.

I britannici hanno tentato di imporsi con la forza contro le popolazioni che risultavano troppo difficili da comprendere in quanto profondamente diverse dalle proprie concezioni identitarie. Il governo centrale, in generale, ha considerato il Sud come un'entità separata, composta da isolati "etnici" a se stanti. Ha dichiarato ad esempio le regioni meridionali "Close Discrict" (Closed District Ordinance): in questo modo si sono impediti spostamenti di persone del Nord verso il Sud, e viceversa, limitando molto gli scambi tra gruppi diversi. Dopo l'indipendenza, il retaggio del "Close Discrict", del "divide et impera" britannico, e la propensione del Nord a monopolizzare la quasi totalità dei posti venutisi a creare con la "sudanizzazione" dell'amministrazione, hanno aumentato il risentimento delle popolazioni locali. La "politica africana", promossa dai britannici, prevedeva che il Sud si sarebbe dovuto sviluppare lungo linee guida "africane": facendo questo gli inglesi hanno cercato di mantenere il loro potere usando le strutture di governo, le leggi e gli usi locali. Una tale politica, fondata principalmente sulle alleanze politiche degli stessi sud sudanesi, aveva l'esplicito scopo di evitare che la popolazione maturasse una qualsiasi volontà di unione che si contrapponesse alla dominazione britannica. Ma essa non proponeva un approccio globale favorevole all'integrazione dell'intero paese, che considerasse l'eterogeneità del Sud come parte integrante di tutto il Sudan.

Le diverse amministrazioni politiche del paese hanno da sempre considerato le diverse tribù come fossero degli isolati "etnici", o delle realtà a se stanti, difficili da "dominare" o da gestire. La frammentazione è stata fissata in una serie di entità separate discontinue, verso le quali era necessario imporsi. Infatti, il governo coloniale britannico ha promosso una serie di politiche volte al completo assoggettamento dei dominati: per anni gli amministratori hanno cercato invano di individuare i capi delle singole tribù, con l'unico risultato di provocare fraintendimenti con le popolazioni meridionali, che a loro volta hanno portato a fenomeni di resistenza da una parte, e repressione dall'altra. Evans-Pritchard (1940) ad esempio, scrive che ai tempi del periodo del governo anglo-egiziano è stato molto difficile intraprendere ricerche con le popolazioni locali; l'autore parla della reticenza dei Nuer, i quali si sono dimostrati particolarmente ostili a causa della recente sconfitta e delle misure adottate dal governo per assicurarsi la loro sottomissione.

Adottando politiche di repressione e considerando la frammentazione "etnica" e culturale come se fosse composta da isolati "etnici", gli amministratori non sono riusciti a comprendere i complessi contesti di riferimento da cui i sentimenti di appartenenza e le identità etniche scaturiscono. Le amministrazioni coloniali hanno contribuito a produrre una frammentazione del mosaico delle differenti realtà in isolati etnico-culturali; non sono mai state in grado di gestire le differenti forme, che sono diventate ragione di frattura: esse infatti non sono state colte nelle loro peculiarità, le differenze sono state marginalizzate e non relativizzate. La nozione di etnia, invece, è una vera e propria costruzione simbolica, vale a dire che essa altro non è che il prodotto di circostanze storiche, sociali, politiche determinate. Le realtà che le contraddistinguono non sono fisse, ma si alterano con il mutare delle circostanze. I Nuer e Dinka, ad esempio, non si possono considerare come entità statiche e sottratte a qualunque cambiamento; esse si sono profondamente influenzate le une con le altre: i Nuer hanno intrapreso una vasta migrazione nel XIX secolo che ha fatto in modo che alcune comunità venissero assorbite all'interno della loro struttura tribale su base di eguaglianza.

Ma gli elementi che contribuiscono alla costruzione delle "etnie" non provengono soltanto dal contatto e dalle relazioni che i gruppi instaurano tra di loro. Il dominio coloniale, infatti, è andato ad influenzare le loro forme rituali in seguito, ad esempio, all'introduzione del sistema monetario nelle strutture economiche di sussistenza. In società, quali quelle Nuer e Dinka, in cui la misura del benessere e il mezzo, per creare rapporti personali e per ricompensare gli altri, è rappresentata dal bestiame, l'introduzione del sistema monetario, ha portato alla costruzione della distinzione tra soldi e bestiame. Pertanto, l'introduzione della monetarizzazione ha fatto in modo che venissero elaborate delle strategie per delimitare dei confini ideologici tra queste due dimensioni.

Le due popolazioni hanno subito una crescente interferenza esterna che le ha portate, fin da epoche remote, a riformulare le proprie percezioni e forme di vita. Le "etnie" non sono delle entità statiche dai criteri ben definiti e le cui caratteristiche possono essere generalizzabili; ognuna assume delle connotazioni specifiche che derivano dalle circostanze situazionali, oltre che dai significati che gli individui attribuiscono ai membri del proprio gruppo. In questo senso la nozione di etnia è una "finzione" e una "invenzione": essa è composta da una serie di elementi che non possono essere raggruppati in una maniera omogenea; questa finzione viene percepita dai soggetti coinvolti come qualcosa di assolutamente reale e costituisce la base per la definizione delle proprie concezioni identitarie, sociali e valoriali. Ogni comunità ha elaborato, fin dall'epoca coloniale, una forma di esistenza culturale che era senz'altro il risultato di dinamiche ad essa proprie, ma allo stesso tempo essa era anche il prodotto di influenze indotte dalla presenza di altri agenti esterni, influenza che ovviamente ogni società è in grado di assorbire, rielaborare o rifiutare secondi quelle che sono le proprie forme strutturali. Le diverse forme di rivendicazione sudanesi sono sorte anche in risposta alle politiche opprimenti del governo, e sono il risultato di forme di costruzione innescate dall'esterno. È in questo senso che le "etnie" emergono, come tali, solo in un contesto caratterizzato da uno squilibrio di rapporti di forza e potere. I Nuer e i Dinka, ad esempio, possono venire definite come due entità distinte ed irriducibili, soltanto se si considera il processo di invenzione e costruzione innescato su di esse dall'esterno. Per "invenzione" non bisogna intendere una creazione puramente fantastica, ma una "fabbricazione" a partire da alcuni dati reali la cui unicità viene enfatizzata ("esagerata") allo scopo di determinare in senso unico l'oggetto preso in considerazione.

Infatti per le amministrazioni coloniali e post-coloniali, ogni elemento percepito come differenziale, è stato assunto come costitutivo di una diversità assoluta. Le intenzioni delle politiche degli amministratori coloniali sono state dettate dalla volontà spesso esplicita di creare delle contrapposizioni tra gruppi promovendo questi ultimi allo stato di vere e proprie "etnie", ciascuna in possesso di una cultura (e spesso una lingua) dalle caratteristiche ben distinte e irriducibili a quelle di altre. Lo scopo dell'enfatizzazione e dell'esagerazione degli elementi differenziali da parte di chi governava il paese era quello di prevenire qualsiasi eventuale progetto di unità da parte delle popolazioni dominate contro il potere centrale, di modo da riuscire e controllare le risorse del Sud senza intralcio. Questa logica non ha guidato soltanto le politiche passate, ma ha portato a processi di "etnicizzazione" e "tribalizzazione", e hanno posto le basi per i conflitti attuali. Il processo di invenzione dell' "etnia" parte dalla considerazione e dall'enfatizzazione di alcuni dati reali la cui unicità viene esagerata: è da queste premesse che possono prendere forma i conflitti, definiti "etnici". Con tale definizione non si tiene in considerazione che l'elemento etnico è soltanto una finzione, una costruzione.

Il processo di invenzione sta a significare che alla definizione degli elementi che costitutivi di un'etnia concorrono una molteplicità di fattori: gli agenti politici, i gruppi con cui gli individui si trovano ad interagire, e ovviamente gli individui stessi che attribuiscono delle categorie di attribuzione di differenziazione tra se e gli altri. Le "etnie" emergono, come tali, solo in un contesto di tipo oppositivo e contrastivo. Sono sempre il prodotto di una storia caratterizzata da uno squilibrio dei rapporti di forza. L'analisi dei contenuti e delle caratteristiche alla base dell'identità etnica e delle diverse forme di etnicità chiarisce come, troppo spesso, l'elemento etnico sia utilizzato come strumento per fomentare e far nascere scontri. In Sudan, sul lungo periodo, le politiche coloniali che consideravano le differenze come delle realtà a se stanti, hanno prodotto una forma di "etnicizzazione" delle popolazioni del Sud. Proprio da queste basi si costruirà il conflitto tra i Nuer e i Dinka: a partire dall'enfatizzazione di alcuni elementi differenziali reali, si sono costruite delle "etnie" distinte e irriducibili.

1.2 La strategia governativa del divide et impera

La guerra tra Nuer e Dinka è riconducibile alle logiche e alle politiche promosse da Khartoum. Infatti il centro ha costantemente marginalizzato le differenti realtà, non considerando le potenzialità che potevano produrre, ma soltanto come esse dovessero essere isolate dal resto del paese. I sud sudanesi hanno da sempre considerato l'ineguaglianza economica e l'iniqua distribuzione dei ritorni legati allo sfruttamento dei motivi validi per la lotta contro i governo; questo ha fatto in modo che atteggiamenti di tipo identitario e forme di etnicismo venissero usati per resistere alla marginalizzazione e al sottosviluppo. Ai fini di questa analisi, occorre evidenziare il ruolo e le motivazioni che hanno mosso il gruppo dei ribelli del Sud, il Movimento di Liberazione Popolare del Sudan Meridionale, lo SPLA/M a decidere di abbandonare la lotta contro il nemico comune, il governo del Nord, per dividersi in due fazioni contrapposte. I leader del NIF, il National Islamic Front, sono sempre stati i fautori dell'arabismo e dell'islamismo, come fonti dell'identità nazionale sudanese, e si sono impegnati in un'azione volta a uniformare in senso arabo-islamico tutta la società sudanese: questo tipo di orientamento ha avuto un'influenza negativa su tutte le diverse realtà e, in particolar modo sullo SPLA/M, da sempre favorevole alla formazione di un "nuovo Sudan" unito.

Il Movimento di Liberazione Popolare del Sudan, lo SPLA/M, è nato formalmente in Etiopia nell'estate del 1983, dall'unione delle unità uscite dal Sudan che avevano partecipato alla seconda guerra civile, conosciuta anche col nome di Anya Nya II. Differenziandosi subito dallo schieramento meridionale della prima guerra civile, lo SPLAM, l'ala politica del gruppo ribelle, non mirava al separatismo, ma combatteva per rendere possibile la creazione di un nuovo Sudan di uguaglianza, di giustizia economica e sociale, dove le varie nazionalità del paese avrebbero potuto sviluppare le loro culture in libertà e dove non ci sarebbe stata una religione scelta e fissata dallo Stato. Ciò che quindi l'SPLM/A si prefiggeva era l'antitribalismo e la difesa del Sud, ma nel quadro di una lotta finalizzata alla trasformazione dell'intero Sudan, che avrebbe dovuto rimanere unito e in cui le diversità religiose ed etniche sarebbero state rispettate e tutelate.

John Garang, un Bor Dinka, è diventato da subito il leader indiscusso, e ha definito gli obiettivi principali del movimento; l'indipendenza politica del Sud doveva venire abbandonata in favore della liberazione dell'intero Sudan. Nei civili sud sudanesi le mire di Garang hanno fin da subito hanno risvegliato sentimenti di nazionalismo che si sono rafforzati dall'inizio della prima guerra civile e hanno causato numerosi scontri. Proprio in risposta a tali forme di imposizione politica, nel 1991, alcuni dirigenti politici e militari hanno lasciato il movimento e optato per la separazione del Sud. La scissione si è consumata ufficialmente il 28 agosto 1991, quando in un'intervista al Bbc World Service, i comandanti Riek Machar, Gordon Kong e Lam Akol hanno annunciato la formazione dello SPLA-Nasir, dal nome della città roccaforte, e il perseguimento della separazione del Sud Sudan, in netta opposizione al teorema fondante dell'SPLM/A, cioè quello dell'unità del Sudan. I tre dissidenti hanno giocato anche la carta del separatismo, molto sentita dalla popolazione, in netta opposizione al teorema fondante dello SPLA, cioè quello dell'unità del Sudan. All'annuncio di un tale evento, la maggior parte dei sud sudanesi ha cominciato a nutrire la speranza di poter ottenere riforme politiche, per riuscire poi in una riunificazione del movimento, oppure per stabilire un fronte indipendente contro il Sudanese Army. Ma le loro speranza sono state presto deluse.

I tre dissidenti chiedevano inoltre maggior democrazia all'interno del movimento di liberazione e nelle zone liberate, la tutela dei diritti umani e, in particolare, il rilascio dei detenuti politici, nelle cui fila c'erano anche personalità importanti del movimento meridionale, come Joseph Oduho e Kerubino Kwanyin Bol. La spaccatura del movimento di liberazione è stata netta e ha rappresentato l'inizio di un aspro scontro inter e intraetnico tra le due popolazioni più numerose dello SPLA e del Sud Sudan: i Nuer e i Dinka, un conflitto che ripropone una serie di strategie politiche che hanno più volte caratterizzato i conflitti sudanesi. La divisione ha subito assunto la connotazione di una sanguinosa lotta interetnica: Riek Machar, Nuer, e Lam Akol, Shilluk, hanno da subito giocato sulle lealtà e le appartenenze tribali, oltre che sul diffuso odio per quello che era percepito come lo strapotere Dinka all'interno del movimento, per radunare attorno a se abbastanza uomini da essere considerati un nuovo esercito indipendente.

Il governo centrale da subito ha adottato la solita strategia del divide et impera: ha sfruttato questa divisione, finendo per appoggiare la fazione separatista, capeggiata da Machar, con l'obiettivo di indebolire lo SPLA nel suo complesso. Il risultato era singolare: i separatisti erano armati e sostenuti contro i federalisti, lo SPLA di Garang, contro quello stesso centro di potere da cui da anni cercavano di dividersi. Il leader Dinka ha risposto da subito con la forza, e per mesi gli scontri tra le due fazioni hanno preso di mira soprattutto i civili, costringendo il gruppo di Nasir ad appoggiarsi sull'aiuto militare ed economico del governo di Khartoum per tener testa agli avversari. Le forze di Garang, dopo alcuni mesi di attacchi intensi, all'inizio del 1992, controllavano una gran parte del Bahr al-Gazal e dell'Equatoria, mentre Machar aveva sotto il suo controllo la zona intorno all'Upper Nile. Le forze di Garang erano indubbiamente più forti rispetto a quelle di Riek, non tanto da un punto di vista militare, quanto piuttosto per la solidità del movimento; il suo potere infatti è sempre stato debole e il suo movimento era caratterizzato da profonde divisioni e tensioni, ma anche da numerose defezioni da parte di coloro che tornavano allo schieramento di Garang.

Proprio per questa instabilità lo SPLA Nasir, fu rinominato da Machar, nel marzo 1993, SPLA-United dopo che alcuni ufficiali non Nuer dello SPLA, tra cui Kerubino Kuanyin Bol, un Dinka, che erano stati imprigionati da Garang, sono riusciti a fuggire e ad unirsi allo schieramento di Machar. Questa unione etnica, tuttavia, si sfalderà un anno più tardi. In seguito a continue defezioni e divisioni interne, nel 1994, Machar per tentare di dar forza ai rimanenti sostenitori, di maggioranza Nuer, ha chiamato il suo movimento, Southern Sudan Indipendence Movement/Army (SSIM/A), al fine di attribuire un senso di unità politica. Il governo ha attuato una forte influenza nello scenario di violenza nelle terre meridionali: infatti il suo scopo era quello di indebolire le personalità politiche influenti, in questo caso Garang, così come gli schieramenti che si opponevano al governo centrale; ha sempre cercato di fomentare le diatribe tra i capi locali, al fine di assicurarsi che le popolazioni cui essi erano capo si scontrassero l'una contro l'altra.

Pertanto, la violenza etnica sfociata in seguito alla scissione dello SPLA, rientrava in una strategia manipolata e favorita da Khartoum, volta a sconfiggere, o quantomeno ad indebolire, il potere di Garang, al fine di arrivare ad avere il controllo delle ricchezze petrolifere del Sud. La strategia governativa del divide et impera è sempre stata accompagnata dall'utilizzo della forza: fin dal 1986, il Sudanese Army ha iniziato a rifornire le milizie arabe Baggara, conosciute col nome di murahalin (letteralmente "quelli sempre in movimento"), di armi e munizioni, spingendole a scagliarsi contro le popolazioni Nuer e Dinka, posizionate nell'Upper Nile e a nord del Bahr al-Gazal. La competizione tradizionale tra queste comunità arabe di allevatori e i coltivatori Dinka, del Bahr al-Gazal settentrionale e del Kordofan meridionale, è sempre stata causata dalla necessità di usare per scopi diversi la stessa terra. Durante la prima guerra civile le tribù arabe avevano siglato degli accordi per continuare a pascolare il loro bestiame al Sud durante la stagione secca. Alla ripresa del conflitto, tali accordi non sono stati più rispettati e i contrasti con i Dinka e i Nuer sono degenerati in incursioni annuali armate nel territorio meridionale da parte dei Baqqara, soprattutto contro la popolazione disarmata del Bahr al-Gazal e dell'Upper Nile. La continua serie di incursioni, di rappresaglie e di controrappresaglie, con molti eccessi e violazione dei diritti umani da parte anche dello SPLA, hanno trasformato la guerra in un attacco continuo contro la popolazione civile.

Tuttavia, oltre all'uso indiscriminato della violenza, durante tutti gli anni di scontro, il governo ha continuato a manipolare i capi locali al fine di raggiungere le sue mire: un altro personaggio di cui si è servito per raggiungere i suoi obiettivi è stato Kerubino Kwanyin Bol, un Dinka del Bahr al-Gazal. Nel 1997, divenuto generale maggiore del Sudanese army e nominato un anno dopo vicepresidente del Southern Sudan Coordinating Council, non ha esitato ad accettare l'appoggio di Khartoum per combattere contro la sua stessa popolazione di appartenenza i Dinka dello SPLA, salvo poi abbandonare l'esercito del governo per tornare nuovamente nelle fila dell'esercito dei ribelli. Infatti, nonostante avesse ricevuto molte ricompense, nel gennaio 1998, è tornato nello SPLA, dopo aver organizzato un attacco a Wau, una delle maggiori guarnigioni del governo nella zona del Bahr al-Gazal. Tuttavia, sentendosi ostracizzato sia da Garang che da altri leader del movimento, un anno dopo, è tornato sotto la protezione del governo, che nel frattempo si era ripreso Wau. Khartoum ha sempre cercato l'appoggio di Kerubino, oltre che per la sua tenacia e capacità militare, per il fatto che nonostante fosse un Dinka, era a capo di un esercito formato per la maggior parte da Nuer. Khartoum infatti era interessato ad entrare in possesso delle terre ricche di petrolio sulle quali risiedevano moltissimi Nuer e pertanto gli è stato molto utile ricevere l'appoggio di un leader di tal portata. L'obiettivo del governo era quello di entrare in possesso delle terre e delle risorse del Sud; e per questo motivo non ha esitato a fomentare un conflitto anche tra Nuer al loro interno.

E ancora una volta si è servito dei capi militari al fine di stremare la popolazione civile. Ha iniziato a offrire armi e munizioni a Machar per combattere Garang, ed è riuscito persino a fargli firmare un accordo di pace con il National Islamic Front (NIF), per la costruzione di una pace. "The Peace Charter" dell'aprile 1996, un anno dopo è diventato un vero e proprio Accordo di Pace, che ha impegnato Machar e altri firmatari a convogliare le loro rimanenti forze dell'SSIM/A nell'esercito nazionale, sotto la denominazione di Southern Sudan Defence Forces (Forze di Difesa del Sud Sudan - SSDF). L'accordo prevedeva inoltre l'accettazione dell'Islam. In cambio il governo aveva promesso che i diritti all'autodeterminazione dei sudanesi del Sud sarebbero stati riconosciuti attraverso un referendum di tutta la regione meridionale. Questo accordo, tuttavia, non ha portato ad una pace duratura tra le popolazioni meridionali, sotto il controllo di Machar. Il governo, sentendosi tradito sia da Kerubino che da Machar, e determinato a sgomberare la regione ricca di petrolio del Western Upper Nile dai suoi abitanti Nuer e Dinka, ha iniziato a investire in un altro leader militare, Paolino Matiep Nhial, dando inizio ad uno scontro intraetnico, che ha contribuito ad alimentare lo scenario di violenza.

L'ha rifornito di armi e munizioni per incoraggiarlo ad attaccare la popolazione civile sotto il controllo di Machar togliendogli in tal modo l'appoggio e il supporto militare politico che fino ad allora gli aveva riconosciuto. Tra il 1997 e 1998, il governo è riuscito ad ottenere il controllo militare e politico di alcune zone strategiche, in quanto ricche di petrolio, nelle regioni occidentali dell'Upper Nile, abitate dai Nuer, incoraggiando le forze di Matiep ad attaccare l'esercito di Machar. Infatti a Matiep era stato affidato il compito di cacciare la maggior parte dei Nuer dalle zone petrolifere a nord e a sud di Bentiu; nel giugno 1998 Matiep ha spinto le sue forze contro il SSDF di Machar: e nel dicembre 1999, 70.000 civili Nuer sono stati sfollati dalle loro province e moltissimi altri si sono trovati di fronte ad un'imminente carestia (Humans Rights Watch 2000). Proprio in quell'anno il governo sudanese, assieme a molte compagnie internazionali è riuscito nella costruzione di un oleodotto per trasportare il petrolio dalle regioni meridionali al Nord. I frequenti attacchi dei ribelli hanno reso difficoltoso per la popolazione Nuer proteggere il bestiame e le loro abitazioni. Nell'ottobre 1998 Matiep preoccupato per le continue distruzioni delle terre della sua popolazione, ha abbandonato lo SPLAMainstream di Garang, portando con sé più di mille soldati. Due mesi più tardi, Riek Machar annunciava che gli scontri Nuer contro Nuer sarebbero cessati e che le sue forze si sarebbero ricongiunte all'SSDF.

L'accordo di pace del 1997 ormai non aveva più alcun valore; accusando il governo centrale di ripetute violazioni dei termini dell'accordo, Machar si è dimesso dal governo nel febbraio 2000 e infine si è recato a Nairobi, dove ha cercato in tutti i modi di salvare la sua posizione e importanza politica. Il frazionamento del movimento guidato da Machar è stato causato da una profonda contraddizione tra il perseguimento dell'indipendenza del Sud come fine ultimo della lotta, e il sempre maggior sostegno che lo SPLA-United, l'SSIM/A, continuava a ricevere da Khartoum. Infatti in seguito all'indebolimento militare dovuto da una serie di successive scissioni e dalla strategia del divide et impera perseguita con successo dal governo, dopo alcuni anni passati a Khartoum come fedele alleato del regime e con un incarico di vicepresidente svuotato di ogni potere, dal gennaio 2002 Riek Machar si è riconciliato con Garang, ritornando in seno all'SPLM/A senza molte truppe da portare con sé. Secondo Douglas Johnson, l'eredità più duratura di Riek Machar è l'aver fomentato la guerra civile tra i Nuer e l'aver ceduto i campi petroliferi al governo.

La strategia di Machar di continuo appoggio del governo, non ha avuto esiti positivi per la sua carriera: avendo aderito alla conferenza di pace a Wunlit, si è guadagnato la disapprovazione e la sfiducia dei suoi alleati di Khartoum; e quando, nel gennaio 2000, si è dimesso dal governo, ha dovuto combattere per la sua vita contro un numero sempre maggiore di comandanti Nuer alleati del governo e determinati a porre fine alla sua carriera militare. Di fronte ad una situazione così complicata, la maggior parte dei Nuer e Dinka si sentivano assolutamente impossibilitati a fermare una così tragica espansione di violenza; erano infatti perfettamente consapevoli che né Garang né Machar avrebbero contribuito alla costruzione di una pace duratura che salvaguardasse le terre e le risorse del Sud, ma si sono sentiti per anni completamente impotenti e incapaci di fermare l'orrida violenza che imperversava le loro regioni. E diversamente dalla guerra contro il governo e contro l'esercito nazionale, questa non sembrava avere alcun superiore obiettivo politico oltre alla soddisfazione delle ambizioni personali dei leader militari meridionali. "Quello che sta accadendo adesso è uno scontro politico dall'alto, non dalle radici. Gli anziani a casa lo considerano solo come una lotta tra John Garang e Riek Machar. Stanno solo combattendo per la leadership". Col passare del tempo, i civili Nuer e Dinka hanno cominciato a domandarsi come mai le forze utilizzate per uccidersi gli uni contro gli altri non potessero essere rivolte alla lotta contro il loro nemico comune, ovvero l'esercito arabo del Nord; né riuscivano a comprendere come mai Garang e Machar, rifiutassero qualsiasi gesto conciliatorio verso una riunificazione dell'esercito del Sud.

1.3 La costruzione della guerra

Cartina dell'area del Kordofan in Sudan. FONTE: Sharon Hutchinson, 2000. Quello che verrà analizzato in questo paragrafo riguarda il processo di costruzione dello scenario di violenza che ha permesso ai Nuer e ai Dinka di scontrarsi in tal modo. Per comprendere come un simile scontro abbia avuto luogo, occorre prendere in considerazione una molteplicità di fattori: il contesto storico di riferimento, le diatribe politiche dei capi militari, le motivazioni che i leader attribuivano a tale guerra e quelle che i civili gli conferivano. Al fine di rafforzare le proprie posizioni di potere e di assicurarsi un rifornimento di nuove reclute, Machar e Garang hanno trasformato i tradizionali modelli di conflitto in guerre politicizzate di violenza etnicizzata. I due leader si sono presentati come i protettori della propria gente e in tal modo sono riusciti ad accrescere il proprio consenso. Questo conflitto si è manifestato fin da subito in maniera diversa agli occhi degli stessi civili coinvolti: essi si sono resi conto che la guerra non aveva mai sconvolto le loro terre in tale maniera; è bene quindi partire dalla complessità del contesto di riferimento, senza però tralasciare gli elementi di persuasione e di manipolazione che sono stati innescati dall'esterno sulle popolazioni.

Infatti, lo sviluppo di sentimenti di disparità, è stata percepita dai civili Nuer e Dinka come la nascita di un diverso tipo di guerra: "la guerra degli istruiti" o "dei due dottori", come venivano spesso chiamati John Garang e Riek Machar. Fin da subito, agli occhi degli stessi civili, è apparso evidente come questo conflitto stesse assumendo caratteristiche ben diverse: era una guerra mossa da motivi di tipo politico e dalle mire velleitarie dei due leader. Come ha fatto notare, nel 1998, un capo Nuer, come molti altri, non istruito: "Loro (Garang e Machar) ci dicono che il motivo per cui noi Nuer e i Dinka combattiamo è perché siamo ignoranti. Ma ora guardate a queste uccisioni! Questa guerra tra Nuer e Dinka è peggiore di qualsiasi altra esperienza passata. E questa è la guerra delle elite colte - non è la nostra guerra!"

Questo conflitto, agli occhi degli stessi Nuer e Dinka, ha assunto una connotazione diversa dalle solite guerre incentrate sulle razzie di bestiame e la sparizione delle risorse: i tradizionali conflitti non avevano mai comportato un tale numero di civili uccisi, ma soprattutto duravano solo pochi giorni, trascorsi i quali i capi delle tribù cercavano di trovare un accordo per risolvere le diatribe. La "guerra degli istruiti" invece era caratterizzata e favorita da interessi di tipo politico che hanno fatto in modo che lo stato di tensione tra le due popolazioni durasse per molto più tempo. Molti uomini e donne intervistati da Jok e dalla Hutchinson, hanno sottolineato come i civili Nuer e Dinka non si fossero mai scontrati a causa delle diversità politiche: questo genere di motivi non avevano mai fomentato in passato un conflitto tra loro, e certamente non vi era nessuna ragione che potesse alimentarlo nella guerra attuale. Infatti, per dar ragione alla violenza e per convincere la popolazione a combattere si sono costruite delle motivazioni fittizie, o comunque si è preso spunto da precedenti divergenze irrisorie e se ne sono accentuate le caratteristiche. Confondendo le ragioni politiche con quelle economiche ed enfatizzando per ciascun gruppo il pericolo rappresentato dall'altro, Riek e Garang sono riusciti nel modo più efficace a convincere e incentivare la popolazione a combattere.

I Nuer e i Dinka, si sono trovati coinvolti in un'enfatizzazione di alcuni elementi differenziali, dimenticando tutti quelli che invece li accomunavano e li avevano uniti. I due leader erano consapevoli delle loro capacità di convincimento e del fatto che bastava persuadere i civili che la ricchezza di un gruppo fosse minacciata dall'altro per far in modo che la violenza si perpetuasse nel tempo. Tuttavia, le cose andavano diversamente da come venivano presentate ai combattenti: il bestiame rubato durante i frequenti raid non veniva restituito ai legittimi proprietari, ma veniva considerato "proprietà militare", e veniva distribuito nel modo in cui il comandante riteneva più opportuno. La guerra quindi si è caratterizzata anche come un continuo drenaggio di bestiame attuato sia dai civili Nuer che dai Dinka verso i campi militari dei "signori della guerra". Infatti un comandante per continuare a ricevere un seguito dai suoi sudditi doveva dare sicurezza al suo gruppo e dimostrarsi generoso nell'elargire le risorse ottenute dai vicini Dinka o Nuer.

Il risultato quindi è stato un continuo arricchimento delle elite militari che si sono fin da subito presentate come i protettori della propria gente, quando invece contribuivano soltanto alla diffusione di carestie e povertà a danno dei civili. Dato che lo SPLA, almeno in teoria, aveva l'obiettivo di creare un nuovo Sudan, unito, dove i valori democratici e le libertà religiose sarebbero stati rispettati, la conseguenza della scissione del movimento in due fazioni contrapposte, è stata la nascita di rivendicazioni di un gruppo sull'altro e di accuse in cui ciascuna fazione si proclamava più "nazionalista" dell'altra. Molti Dinka, consapevoli del sostegno che l'SSIA di Machar riceveva dal governo, hanno iniziato ad accusare i Nuer di stare "dalla parte degli arabi", di essere dei traditori e dei codardi per aver cessato di combattere per la liberazione del Sud dalla "tirannia" del Nord. LO SPLA infatti ha incentivato le sue truppe a scagliarsi contro i "nemici" Nuer, convincendo i combattenti che non c'erano differenze tra i Nuer e le milizie arabe; quindi la consapevolezza di essere entrambi sud sudanesi e la secolare unione per opporsi al nemico comune, il governo del Nord, è andata progressivamente sfaldandosi, ed è stata erosa dal peggioramento della violenza etnica.

Dalla prospettiva dei combattenti dello SPLA, gli attacchi dei Nuer erano un ostacolo per il raggiungimento della causa del Sud e una minaccia alla sicurezza dell'intero Sudan. I Nuer, essendo dei nemici, andavano fermati in qualsiasi modo. L'SSIA di Machar, invece, giustificava i propri raid, in quanto mossi dalla volontà di combattere la supremazia Dinka all'interno del movimento. D'altro canto anche Garang è stato più volte accusato di aver aggravato l'iniziale scissione del movimento di liberazione e di aver imposto la propria leadership lungo linee etniche e tribali, accentuando le tradizionali tensioni economiche tra i due gruppi. Inoltre, nel corso degli anni, entrambe le fazioni, grazie soprattutto al sostegno del governo di Khartoum, hanno iniziato ad armare i loro rispettivi gruppi etnici con armi sempre più pericolose al fine di eliminare la popolazione civile.

Molti giovani Dinka hanno cominciato ad acquistare armi dallo SPLA pagandole con pochi capi di bestiame; i giovani Nuer invece sfruttavano la posizione di vantaggio dovuta all'appoggio di Khartoum per acquistare proiettili e pistole. Garang e Machar, consapevoli dello sconvolgimento che lo stato di guerra poteva produrre nella popolazione, fin dall'inizio, hanno attribuito al conflitto una connotazione di tipo "etnico", tanto che la guerra è stata caratterizzata da un progressivo aumento degli scontri tra le diverse popolazioni, che ha colpito principalmente i civili.

Quello che appare più grave è che questi processi di costruzione di un nemico contro cui combattere sono stati dei meccanismi architettati dai due leader per accrescere le proprie posizioni e per migliorare le proprie carriere politiche. Garang non avrebbe mai abbandonato la propria leadership per l'unità e la pace nel Sud: era evidente a tutti la sua determinazione a mantenere la posizione di supremazia all'interno del movimento, nonostante proclamasse pubblicamente la sua intenzione di cercare una soluzione pacifica del conflitto. Il suo crescente appoggio è spiegabile dal timore di molti sudanesi di un'ulteriore frattura del movimento e quindi di un completo fallimento nel raggiungimento della causa sud sudanese. I Nuer e i Dinka hanno continuato a combattere perché convinti dai rispettivi leader della disonestà del gruppo etnico rivale e perché convinti che Kahrtoum non avrebbe mai concesso un pace duratura al Sud; per fomentarli a continuare a lottare Garang diceva: "Meglio la guerra che una cattiva pace!".

Il tentativo di allentare l'importanza delle dimensioni spirituali e lo sviluppo della militarizzazione da parte dello SPLA, ha favorito una sorta di rinascita religiosa; infatti i civili Nuer, di fronte all'esplosione della violenza etnica e ai repentini cambiamenti che questa ha causato nelle tradizionali forme rituali e sociali, hanno iniziato a rifugiarsi nella fede e nella speranza in Dio. Il mondo appariva ai loro occhi come maledetto. La costruzione di una simile forma di violenza innescata sui civili dall'esterno ha avuto conseguenze nella dimensione religiosa. Impossibilitati e incapaci di fermare un tale conflitto, molti Nuer e Dinka hanno trovato rifugio nella fede; ma ancora una volta i capi militari hanno avuto un ruolo centrale in tale processo.

Una guerra come quella con cui si sono dovuti improvvisamente confrontare migliaia di civili Nuer e Dinka, ha assunto subito caratteristiche ben diverse dai precedenti scontri: sembrava un conflitto senza fine. Non essendo in grado di fermare una simile violenza, fomentata sia da quelli che dovevano essere i loro protettori, che dal loro nemico comune, molti uomini e donne Nuer e Dinka sono arrivati a definire le loro interminabili sofferenze come una "maledizione di Dio". Piuttosto che guardare alla realtà della loro mancanza di potere, come individui, per far diventare il mondo di nuovo buono, molti hanno trovato una consolazione psicologica nell'idea che in qualche modo si siano meritati questa guerra, che se la siano attirata su se stessi.

Molti sud sudanesi, che hanno cercato conforto nella conversione al Cristianesimo, e da un'interpretazione di un passaggio apocalittico di Isaia, hanno iniziato a convincersi che Dio li stesse punendo per la loro iniziale "lentezza nell'abbandonare il culto dei falsi dei". Pertanto i Nuer e i Dinka, afflitti dalla guerra, ritenevano che vi fossero pochi motivi per cui l'ira di Dio si potesse placare. Nuer di altri villaggi, invece, attribuivano l'ira di Dio al sangue versato in seguito allo scoppio della violenza etnica tra gli stessi sud sudanesi; inoltre come si è visto, tra il 1998 e il 1999, lo scontro tra Nuer e Dinka è stato amplificato da un altro conflitto, quello tra Nuer contro Nuer, causato dalle forze di Riek Machar e di Paulino Matiep Nhial.

Molti uomini e donne, intervistati dalla Hutchinson, hanno dimostrato il loro pessimismo e la loro consapevolezza di non poter fare nulla per frenare il corso degli eventi, affermando che "questa guerra finirà quando Dio lo vorrà". A questo atteggiamento fatalista e di rassegnazione però, si accompagnavano anche posizioni divergenti, di chi riteneva che questa guerra non potesse causare l'ira di Dio poiché si trattava di una "guerra politica", di difesa delle proprie terre dalle mire velleitarie di Khartoum. Ecco come si sono espressi alcuni membri dell'elite istruita del Sud per dare una giustificazione a questo stato di guerra: "Perché Dio dovrebbe essere arrabbiato con noi? Noi stiamo combattendo per una guerra politica! E come potrebbe essere eventualmente una punizione di Dio il combattere per i nostri diritti politici? Noi stiamo combattendo una guerra di difesa nelle nostre terre per liberarci dalla dominazione politica e dallo sfruttamento economico del governo di Khartoum. Non abbiamo fatto niente per meritarci la collera di Dio!". Un'altra posizione invece si rifaceva alle parole di Ngundeng Bong; si ritiene che Bong, il più famoso di tutti i profeti Nuer, scomparso nel 1906, avesse predetto la venuta di "una grande guerra in cui i Nuer e altre popolazioni nere del Sud si sarebbero definitivamente liberate dalla dominazione degli arabi del Nord".

Queste parole hanno fatto in modo che i Nuer maturassero un senso di fiducia e di speranza per la fine di una guerra che certamente era stata loro imposta, ma che comunque, ai loro occhi e in base ai processi di persuasione innescati su di essi, poteva rappresentare un momento decisivo per tutta la popolazione sud sudanese di ottenere libertà dal governo del Nord. La Hutchinson scrive che già dal 1980 un notevole numero di Nuer occidentali si sono convertiti al Cristianesimo: simboleggiava per loro la possibilità di un'eguaglianza politica e religiosa. Prima di allora, il Cristianesimo aveva avuto poco seguito nelle regioni dell'Upper Nile occidentale: alcuni missionari erano stati espulsi dal Sud nel 1964; e prima dell'inizio dell'attuale guerra, la maggior parte degli abitanti dei villaggi Nuer occidentali pensavano che: "I britannici se ne sono andati assieme al loro Dio". E' evidente che il desiderio di un periodo di pace ha portato i civili sopraffati dalle continue guerre a rivolgersi alla fede per cercare spiegazioni e speranze; ma le speranze di un futuro migliore, senza guerra, e la fiducia nell'esito vittorioso delle loro attuali lotte di liberazione, sono andate frantumandosi in seguito alla nuova fonte di rivelazione di Isaia delle intenzioni di Dio.

Ecco cosa dice a tal proposito la Hutchinson: il dubbio e il pessimismo che si sono infiltrati in questo dialogo in corso tra le tradizioni profetiche indigene e la Bibbia cristiana sono strettamente associati, secondo la mia esperienza diretta, alla frantumazione dell'unità politica e militare del Sud dopo il 1991. I sospetti riguardo alla collera di Dio, benché già sollevati da alcuni evangelisti Nuer e Dinka durante gli anni Ottanta, hanno guadagnato una più larga risonanza solamente dopo che le forze di John Garang e di Riek Machar hanno cominciato a combattere le loro divergenze politiche lungo linee etniche. Non è azzardato affermare, ancora una volta, quanto la violenza etnica, sfociata in seguito alla scissione dello SPLA, abbia causato una vera e propria crisi per i Nuer e i Dinka: le loro comunità si sono trovate a confrontarsi improvvisamente con una forma di violenza mai conosciuta prima che ha stravolto diverse forme delle loro vite. La dimensione religiosa, unica fonte di conforto, ha cercato di adattarsi ai profondi cambiamenti che queste comunità hanno conosciuto nell'arco di pochissimo tempo, non fornendo tuttavia una spiegazione e una speranza adeguate alla crescente ondata di violenza.

1.4 Iniziative di pace dal basso

Tra il 1998 e il 1999, alcuni civili, nonostante i continui scontri dovuti alle divergenze tra Garang e Machar non fossero ancora cessati, hanno iniziato ad intavolare delle iniziative di pace. L'obiettivo era sin dall'inizio quello di "porre fine a questa guerra che i due dottori, le elite militari del Sud, ci fanno combattere". I motivi che hanno spinto la popolazione a riunirsi per porre fine a una tale violenza sono stati molteplici: le profonde delusioni dei Nuer in seguito al fallimento dell'accordo di pace del 1997; le tragiche vicissitudini nell'Upper Nile tra gli stessi Nuer fomentate da Matiep e da Machar; la grave carestia nella zona del Bahr al- Gazal nel 1998, dovuta anche ad una difesa inadeguata da parte dello SPLA; e inoltre la mancanza di volontà da parte di alcuni comandanti del movimento di liberazione di proteggere le abitazioni e le terre dei civili dai continui attacchi. In altre parole la situazione politica era matura per intavolare delle trattative, anche se non era nelle intenzione né di Machar né di Garang parteciparvi e appianare le loro divergenze.

Quindi nel giugno 1998 il New Sudan Council of Churces (NSCC) ha sponsorizzato il primo workshop per la pace, dove si sono incontrati numerosi capi Nuer e Dinka provenienti nelle aree ad ovest del Nilo Bianco, senza la presenza degli ufficiali dello SPLA e dell'SSIA. Si sono incontrati dapprima a Lokichokkio (quartier generale operativo dell'Operation Lifeline Sudan. L'OLS è costituito da un consorzio di agenzie internazionali di aiuto, guidate dall'Onu che dal 1989 operava in quelle regioni), a nord del Kenya: era la prima opportunità, dall'inizio delle ostilità nel 1991, di parlare e accordarsi sinceramente senza interferenze di tipo politico o militare. Sharon Hutchinson (1999) che ha presenziato a tale incontro, riporta le parole di un capo Nuer: "Non c'è niente nei cuori dei Nuer e dei Dinka che possa aver causato questo conflitto. E' successo qualcosa che va oltre i nostri poteri. Questo conflitto ci è stato imposto dall'esterno.

Tra i partecipanti figuravano una decina di leader ecclesiastici Dinka e Nuer, due avvocati Dinka e alcuni organizzatori del NSCC sia sudanesi del Sud sia americani: tutto il personale militare invece è stato escluso per evitare di creare tensioni tra le parti. Ai capi presenti è stato offerto uno spazio dove presentare le loro rimostranze, condividere le loro opinioni sul conflitto e, soprattutto, cominciare a negoziare una tregua. L'ottimismo che è scaturito da questo incontro ha fatto in modo che se ne tenesse un altro a Wunlit, nel Bahr al-Gazal, nel febbraio e marzo 1999, chiamato "Dinka and Nuer Peace Conference". Tale incontro non si sarebbe realizzato senza il sostegno personale del comandante Salva Kiir Mayandit (che ha sostituito Garang al momento della sua scomparsa il 31 luglio 2005). Garang non vedeva di buon occhio la riconciliazione tra i Dinka del Bahr al-Gazal e i Nuer dell'Upper Nile occidentale, perché temeva di perdere potere e autorità. Riteneva che una tregua nelle regioni del Sud avrebbe comportato una ritirata dei Dinka e un abbandono dello SPLA. L'obiettivo di Garang infatti era quello di riuscire ad ottenere il predominio della suo gruppo di appartenenza su tre fronti: tra i Nuer, tra le milizie arabe Baggara e nell'Equatoria. A poco meno da una settimana dall'inizio della conferenza, alcuni pascoli di bestiame Nuer sono stati razziati dalle forze Dinka dello SPLA. Questi attacchi, oltre alle razzie di bestiame, hanno causato numerosi morti e il rapimento di alcune donne e bambini. Tuttavia i capi Nuer non hanno avuto esitazioni e hanno deciso di continuare le iniziative di pace. Machar diversamente dal suo rivale ha dimostrato sostegno nei confronti della conferenza di Wunlit: ha scritto una lettera agli organizzatori del NSCC in cui esprimeva il suo sostegno incondizionato. A Wunlit, ha presenziato anche una delegazione di politici Nuer mandati dal governo: i rappresentanti Dinka si sono dimostrati parecchio perplessi di fronte ad una tale mossa perché temevano sui propositi propagandistici di Khartoum. Nonostante questi dubbi l'incontro ha avuto conseguenze positive per le popolazioni Nuer e Dinka dell'Upper Nile e del Bahr al- Gazal.

Tuttavia, la strategia del governo di Khartoum non si è fermata neppure di fronte a tali eventi: sentendosi minacciato dallo spirito di pace e di conciliazione regionale promosso a Wunlit, intensificò i suoi attacchi, sia per via aerea sia su terra, contro le popolazioni civili Nuer e Dinka situate nelle zone petrolifere. Non solo, ma considerando le conferenze di pace, delle minacce per l'intero Sudan, in quanto promosse da organizzazioni religiose, nel 1999 e nel 2000, ha intrapreso una campagna di reclutamento allo scopo di espandere il suo controllo ai campi petroliferi dell'Upper Nile occidentale e di precludere ulteriori progressi di pace tra i Nuer e i Dinka. Nell'ottobre 1999 si è tenuto a Wichok, nell'Upper Nile occidentale, un incontro tra Bul Nuer, volto a riunirli, in quanto profondamente divisi tra loro. Ma anche qui il governo non ha esitato ad intervenire: ha bombardato Wichok e altri insediamenti Nuer, costringendo quindi i partecipanti a disperdersi. Tutti nel Sud erano consapevoli che l'accordo di pace di Wunlit poteva essere infranto in qualsiasi momento dai saccheggi violenti da parte dei comandanti meridionali, o da bande di giovani Nuer e Dinka alla ricerca di bestiame; oltre al fatto che è stato molto difficile estendere questo accordo ai Nuer, agli Anyuak, ai Murle e alle altro comunità ad est del Nilo. Il terzo incontro, il people to people, che si è svolto a maggio del 2000 a Liliir tra Nuer, Dinka Murle, Anyuak e altri gruppi etnici a est del Nilo Bianco, aveva lo scopo di trovare un accordo tra queste popolazioni. Sfortunatamente l'incontro ha fallito il suo obiettivo e di fatto potrebbe aver intensificato le rivalità politiche tra alcuni gruppi Nuer.

Tuttavia lo spirito di pace e di riconciliazione interetniche è durato, nonostante le ondate di scontri intestini tra fazioni Nuer e nonostante i tentativi del governo per minare le prospettive di pace. Si stima infatti che in seguito all'accordo di Wunlit molti civili Nuer e Dinka siano stati costretti ad abbandonare i campi petroliferi dell'Upper Nile occidentale per una combinazione di milizie arabe Baggara, truppe settentrionali e forze governative guidate da Bul Nuer Paulino Matiep Nhial; e molti sono stati accolti dalle comunità Dinka del Bahr al-Gazal, dove sono stati ricevuti con ospitalità grazie anche al clima di crescente fiducia e armonia dovuto alle prospettive di pace. Tuttavia, nonostante questi problemi, la premessa rilevante di queste conferenze, è stata che non vi erano differenze politiche reali tra i Nuer e i Dinka: la guerra insomma era stata provocata a danno delle popolazioni, senza che esse riuscissero a fermarla. Ecco cosa ha esclamato un capo Nuer a Lokichokkio: "Non sappiamo neanche perché combattiamo!", "Perché noi Nuer e Dinka uccidiamo le nostre donne e i nostri bambini?".

Non erano le diatribe politiche o militari a dividerli: infatti, gli scontri tra i civili Nuer e Dinka, riguardavano principalmente il bestiame o contese di donne e duravano soltanto qualche giorno; tutti concordavano sul fatto che la violenza sfociata in seguito alla scissione dello SPLA fosse responsabilità dei due leader e fosse mossa dalle mire e dalle ambizione politiche di entrambi. I capi riconobbero anche che la restaurazione della pace interetnica avrebbe richiesto di convincere i loro figli combattenti, che questa lotta Sud contro Sud, non serviva agli interessi di nessuno all'infuori degli "arabi". Le popolazioni e i loro capi si erano resi conto, dopo anni di scontri e di morti violente, che i loro leader militari che si ponevano come i loro protettori avevano infranto tutti le norme etiche e i diritti umani e il rispetto nei confronti della popolazione di cui erano a capo. "Se vuoi essere un leader, non puoi uccidere i tuoi figli, se li vuoi governare!". Infatti tutti erano concordi sul fatto che se un capo vuole comandare o avere la meglio sull'altro non deve uccidere la popolazione sulla quale vuole governare. Un leader Dinka paragonò la loro lotta per il potere a "due uomini che stanno litigando per la carne di un bufalo che non hanno ancora preso".

Quel che tuttavia va sottolineato nonostante queste premesse e questi accordi, riguarda il fatto che, dalle testimonianze che mi sono state riportate la pace tra i Nuer e i Dinka è ancora lontana. Esistono infatti ancora scontri interetnici che tra gli stessi Nuer o Dinka al loro interno: non sono conflitti di tipo "etnico", ma tuttavia è l'elemento etnico che viene ancora utilizzato per fomentarli. Quel che però risulta importante sottolineare riguarda principalmente il fatto che tali forme di violenza pur essendosi caratterizzate da una manipolazione e da un utilizzo dell'etnicità come elemento fondamentale, hanno visto un'influenza preponderante di armi e munizioni potenti che hanno reso tali scontri sempre più cruenti e sempre più differenti dal passato. Nel secondo capitolo si affronterà proprio come il processo di crescente militarizzazione, unito all'etnicizzazione della differenza, abbiano reso lo scenario di guerra sempre più violento per le stesse popolazioni coinvolte.



Capitolo II - Militarizzazione ed etnicizzazione .: su :.

Il conflitto Nuer-Dinka è un effetto dell'etnicizzazione delle due popolazioni innescata dal governo e dai capi militari delle due fazioni; questo scontro ha contribuito allo sfaldamento dei principi e dei valori alla base delle loro relazioni. In questo capitolo si evidenzierà come le società Nuer e Dinka siano diventate molto più violente a seguito di questa imposizione dall'esterno, e come il nuovo scenario di scontro abbia giustificato la violazione di norme e valori, prima rigorosamente rispettati. Queste due popolazioni si sono trovate improvvisamente di fronte ad un conflitto nuovo, diverso, poiché mai prima di allora si erano uccise in modo tanto cruento. Quel che si evidenzierà in questo capitolo riguarda l'influenza che hanno avuto armi e munizioni potenti nel cambiamento delle società Nuer e Dinka: il crescente processo di militarizzazione ha contribuito alla definizione di nuove forme di conflitto, e alla riformulazione delle loro concezioni identitarie, valoriali e rituali. Tuttavia, tali cambiamenti hanno avuto luogo per legittimare e giustificare l'uso spregiudicato della forza, prima espressamente vietato.

Occorre comprendere cosa ci sia alla base di un tale stravolgimento e che cosa ha permesso che simili forme di attacco prendessero piede in una società abituata a combattere soltanto con scudi e lance artigianali. L'influenza esterna, delle potenze internazionali e del governo di Khartoum, ha avuto un ruolo determinante all'interno di questo conflitto e quindi nella riformulazione delle forme di vita di queste comunità. Il Sudan infatti è un paese che, nel corso della sua storia, ha sempre subito una forte influenza e ingerenza delle attori internazionali: quel che risulta rilevante sottolineare ai fini di questa analisi, riguarda il crescente rifornimento di armi potenti fornite ai civili Nuer e Dinka, che hanno fatto in modo che ogni segmento della società, compresi donne e bambini, fosse munito di una pistola o un fucile.

Gli scontri che caratterizzavano la loro quotidianità erano sempre stati incentrati su motivazioni economiche, vale a dire sulle razzie di bestiame, e pertanto non prevedevano una simile forma di violenza. Inoltre, essi combattevano con lance, che erano perlopiù artigianali e costruite con la pelle di ippopotamo e di bufalo, oppure con le costole e le corna degli animali. Gli scontri, basati appunto sulla conquista di armenti e animali da allevare, coinvolgevano soltanto gli uomini: donne, bambini e anziani erano totalmente esclusi dai tradizionali scontri. A seguito di questo conflitto estremamente violento, essi hanno cominciato a riformulare le proprie forme identitarie: nell'arco di tempo considerato un crescente numero di Nuer uomini e donne hanno cominciato a rifiutare il concetto di identità da sempre usato, per utilizzarne un altro, di tipo "primordiale". Questa riformulazione significa che essi hanno cominciato a concepire l'essere o il non esse Naath in maniera più rigida: un non Nuer andava ucciso a qualsiasi costo. Questa è diventata la logica di guerra ed è in questo senso che la violenza è andata a caratterizzare ogni ambito della vita e delle due popolazioni. Questa riformulazione ha contribuito ad un continuo aumento della violenza e ad un coinvolgimento di ogni segmento della società negli scontri di guerra; quindi anche di donne e bambini da sempre considerati le parti più vulnerabili e pertanto da proteggere.

Occorre evidenziare però che la violenza ha potuto manifestarsi e svilupparsi anche grazie a tali cambiamenti identitari, che pertanto hanno giustificato e legittimato una simile forme di brutalità negli scontri. Questo cambiamento di prospettiva, innescato sulle popolazioni dall'esterno, ha contribuito anche ad una riformulazione delle forme rituali: le due popolazioni hanno cominciato a ripensare le interpretazioni sociali degli atti di omicidio; si sono verificati dei profondi cambiamenti nella morale, la cui conseguenza principale è stata la legittimazione ad uccidere giovani, donne e anziani, mai coinvolti nei conflitti precedenti. Nelle pagine che seguono si analizzeranno gli aspetti che sono stati interessati da questo scontro, prestando particolare attenzione a quelli che sono stati i fattori esterni che hanno spinto queste due popolazioni, da sempre unite nella lotta al nemico comune, il governo del Nord, a farsi coinvolgere in una guerra che le ha portate ad uccidersi le une contro le altre. L'intero capitolo è incentrato sull'analisi dell'influenza della militarizzazione come elemento fondamentale per lo sviluppo dello scenario di violenza e delle riformulazioni identitarie, etiche e rituali. Prima di affrontare questo aspetto, tuttavia, occorre analizzare come l'elemento etnico sia stato utilizzato dai capi militari per giustificare tale scontro; ancora una volta, è bene sottolineare come non siano state le differenze tra le popolazioni coinvolte a muovere una simile violenza, ma come i leader hanno deciso di utilizzare e gestire tale diversità, per raggiungere le proprie ambizioni politiche.

2.1 L'etnicità come strumento di guerra

La violenza scoppiata dopo la scissione dello SPLA non può trovare giustificazione nelle diversità preesistenti tra i Nuer e i Dinka: gli elementi differenziali sono stati accentuati, enfatizzati e manipolati dall'esterno, per fomentare i due gruppi e per convincerli che l'esistenza di uno era minacciata dalla presenza dell'altro. Si è giocato sull'esistenza delle diversità per giustificare simili forme di violenza; in questo senso il conflitto Nuer-Dinka può venire considerato come un conflitto di natura "etnica", ma questa interpretazione è troppo semplicistica e non spiega in modo adeguato le dinamiche alla base di tale scontro; il conflitto può apparire etnico proprio perché si è ciecamente aderito alla visione che i leader dei gruppi interessati miravano a comunicare all'esterno, ma che in realtà era stato meticolosamente costruito. Le affermazioni di etnicità sono il prodotto di strategie politiche, che, in seguito a determinate contingenze storico-politiche, trovano riscontro e legittimità presso una larga parte della popolazione. L'espediente più efficace di cui si sono servite le elite militari, per fomentare la violenza tra i due gruppi, è stata la "fabbricazione dell'etnia": si sono enfatizzati alcuni aspetti differenziali reali per giustificare lo sviluppo di simili forme conflittuali.

In questo senso l'etnia è diventata una realtà a tutti gli effetti percepita come tale dai soggetti coinvolti; le appartenenza etniche e tribali diventano in questo modo il miglior mezzo per spingere le popolazioni allo scontro. L'etnicità è stata utilizzata come mezzo costruito per alimentare la violenza tra i Nuer e i Dinka: l'etnia è diventata una realtà da cui non si è più potuto prescindere che ha contribuito a cambiare le vite delle popolazioni. Quando si parla di conflittualità etnica si pensa a lotte tra gruppi differenti perché aventi diverse tradizioni, lingue e religioni. Quando gli uomini entrano in conflitto invece non è perché hanno costumi e culture diverse, ma per conquistare il potere, e quando lo fanno seguendo schieramenti etnici è perché quello dell'etnicità diventa il mezzo più efficace per farlo. Troppo spesso infatti si sente parlare di etnicità come di rivendicazione identitaria che si sviluppa in seguito alla "nascita" dell'etnie"; si pensa quindi che la conflittualità tra due gruppi "etnici" derivi da profonde diversità di lingua, tradizioni e religioni.

Questo però porta ad affrontare la questione in termini errati: il crescente numero di conflitti che affliggono il pianeta sono il frutto di processi di etnicizzazione spesso innescati e favoriti dall'esterno. In tutto il Sudan la presenza di una complessa varietà "etnica", linguistica e "culturale" è stata utilizzata per far nascere conflitti e odi insanabili: non è pertanto la differenza in sé ad essere causa di guerre e scontri, ma la gestione e l'utilizzo che di essa fanno gli agenti esterni. Anche il conflitto Nuer-Dinka risponde a questa logica: le due popolazioni non erano mai state mosse da "animosità etnica"; sono state costruite delle "etnie" irriducibili e inconciliabili, enfatizzando alcuni aspetti realmente esistenti. Ad esempio, gli stereotipi negativi che i due gruppi nutrivano gli uni nei confronti degli altri sono stati accentuati; le diatribe per il bestiame sono state accresciute e confuse con le ambizioni politiche che muovevano i capi locali: e pertanto non è stato difficile per le elite militari coinvolgere e spingere allo scontro le due popolazioni.

A conferma di questo processo, ritengo pertinente riportare un'intervista di Sharon Hutchinson e di Jok Madut Jok (1999) effettuata ad un Dinka che combatteva nell'SPLA: "Prova a immaginare Riek o Garang che vanno nelle loro rispettive tribù a persuadere i civili Nuer o Dinka a combattersi a vicenda in modo che Riek o Garang possano diventare il leader del Sud Sudan. Pensi che qualcuno andrebbe a combattere? A noi non importa delle loro carriere politiche almeno non fino al punto di ucciderci a vicenda. Loro lo sanno, ed è per questo che devono far credere che la ricchezza delle tribù è minacciata dalla tribù rivale in modo da convincere la gente a combattere".

Le etnie non corrispondono a delle realtà fisse e immutabili: dal 1991, le identità che i Nuer e i Dinka hanno attribuito a se stessi sono il risultato di processi di etnicizzazione che il governo e i loro stessi leader militari hanno innescato su di loro per spingerli alla lotta armata. Questo processo di riformulazione e costruzione è alla base dell'etnicizzazione: sono state costruite due "etnie" differenti e irriducibili. La realtà dell' "etnia" trova la sua manifestazione esemplare nella violenza dei conflitti; alla base vi è un sentimento che determinati individui hanno di una comune appartenenza ad una "tradizione" che è, il più delle volte, immaginata. Questo sentimento è ciò che Fabietti definisce "etnicizzazione della differenza": una strategia che consente a degli individui che si riconoscono come membri di un gruppo, di progettare - in contrapposizione ad altri gruppi concorrenti e in circostanze ben determinate - azioni comuni in vista di uno scopo di tipo politico.

Nei processi di etnicizzazione è come se gli elementi che accomunano e che uniscono i gruppi coinvolti vengono accantonati in nome di una presunta, in quanto inventata, "supremazia di un'etnia sull'altra". Questo processo è stato innescato dall'esterno: le mire velleitarie di Garang e di Machar hanno avuto un ruolo determinante nella definizione del conflitto e delle forme di violenza. Infatti le motivazione politiche che hanno mosso inizialmente la scissione dello SPLA/M sono state confuse con le motivazioni economiche che muovevano i precedenti scontri: è in questo modo che si è contribuito alla polarizzazione dei due gruppi in entità etniche irriducibili l'una all'altra. L'etnicità deve essere letta come il prodotto di un'interazione tra gruppi con interessi diversi e spesso messi in circolazione da fattori esterni, nel caso dei Nuer e dei Dinka, dai capi militari, mossi a loro volta dal governo centrale. L'etnicità è un modo di percepire l'identità che si può comprendere soltanto in relazione a situazioni sociali o storico-politiche precise.

La "realtà" dei gruppi etnici non deve essere sottovalutata: la loro effettiva esistenza ci giunge sotto forma di contrasti e di conflitti perpetrati in nome di una sorta di ricerca dell'autenticità o peggio ancora di "una supremazia etnica". L'appartenenza ad un gruppo etnico è pertanto qualcosa di assolutamente concreto, anche se Fabietti sottolinea che sarebbe un errore pretendere di trattare il fenomeno etnico senza sapere che dietro l'etnia non vi è alcunché di "naturale" e di "eterno", per non dire di "sacro", di "superiore", di "eletto", ma solo un processo di continua riformulazione dell'identità. Ma sarebbe anche sbagliato l'atteggiamento opposto, e cioè ignorare la realtà dei gruppi etnici. In situazioni di conflitto e opposizione infatti è facile far in modo che i gruppi emergano come costituiti da individui che dichiarano di appartenere ad una determinata "etnia", presentata come vera e autentica e quindi irriducibile ad altre. Ovviamente tale costruzione ha legittimato lo svilupparsi dell'utilizzo della forza e della violenza in qualsiasi ambito; mai nella vita di un Nuer o di un Dinka i conflitti si erano presentati in una forma tanto cruenta; era la bramosia di ricchezza e di armenti a muovere le loro guerre.

Dal 1991 la violenza ha assunto una connotazione di tipo "etnico"; una forma di conflitto diverso da quelli precedenti, che pertanto ha portato ad una completa riformulazione delle forme conflittuali precedenti, che ha avuto come conseguenza principale la legittimazione ad uccidere ogni segmento della società, anche quelli che erano sempre stati tutelati di un ferreo codice etico. Questa riformulazione si è sviluppata in seguito alle nuove forme di violenza e di conflitto, mosse da attori esterni, che hanno caratterizzato lo scenario di guerra.

2.2 Le nuove forme di violenza

Per entrare in possesso delle terre e delle risorse del Sud, il governo ha fornito i capi militari "suoi alleati" di fucili, pistole e artiglieria pesante per fare in modo che gli scontri tra i civili fossero sempre più cruenti. La potenza che più di ogni altra ha collaborato con Khartoum è stata la Cina: gli introiti ricavati dalla vendita di petrolio alla potenza orientale, hanno permesso allo stato sudanese di affrontare le ingenti spese per far fronte ai continui attacchi contro le popolazioni. Il Sudan dal 1999 ha iniziato ad esportare il petrolio: con l'aiuto di molti lavoratori cinesi il governo ha portato a termine la costruzione di un oleodotto tra Bentiu e nuove raffinerie di petrolio e di depositi per l'esportazione nelle regioni del Nord. La Cina importa la maggior parte del petrolio proprio dal Sudan, che è diventato quindi il suo più importante partner commerciale.

Quello che vorrei sottolineare riguarda il fatto che le forme di violenza e la spirale di guerra nelle regioni meridionali hanno potuto svilupparsi proprio per il fatto che il governo sudanese ha potuto finanziare i lunghi anni di assalti e di rifornimento di armi, grazie agli introiti ottenuti da una simile operazione. Senza tali guadagni Khartoum non avrebbe potuto finanziare la messa in fuga della popolazione del Sud Sudan, né i continui raid in Darfur. Inoltre le imprese cinesi partecipano massicciamente anche all'estrazione del petrolio, alla costruzione di raffinerie e di oleodotti nelle terre del Sud; nonostante la grave situazione relativa alla violazione dei diritti umani. L'industria petrolifera sudanese, come anche altri progetti, è stata realizzata anche grazie al sostegno di alcuni collaboranti cinesi. Assieme alla Cina, anche la Russia fornisce potenti armi al governo di Khartoum: le potenze coinvolte continuano ad ampliare la cooperazione con lo stato africano, ignorando completamente le violazioni dei diritti umani, perché interessate sempre a perseguire i propri scopi di guadagni, e ad entrare in possesso delle materie prime necessarie alle proprie industrie. Il continuo rifornimento di armi e munizioni potenti ha avuto, in questo senso, un ruolo centrale nella produzione di differenti forme di conflitto.

Khartoum ha avuto un ruolo centrale in questo processo, le armi infatti sono state fornite dal governo: improvvisamente giovani Nuer e Dinka sono scesi nel campo di battaglia con pistole e fucili. Questo ha portato alla definizione di un nuovo scenario di guerra, in cui le tradizionali armi sono state sostituite con fucili e AK47; ogni segmento della società è stato coinvolto negli scontri, causando quindi uno smantellamento delle forme etiche e valoriali, da sempre esistite. Riporto l'opinione di due persone che erano in Sud Sudan negli anni dello scoppio del conflitto; essi hanno testimoniato l'ingente rifornimento di armi innescato dal governo e dai capi locali sui combattenti Nuer e Dinka. Ecco come si è espressa Natalina Sala, che si trovava in Sud Sudan negli anni Novanta, negli anni degli scontri più cruenti: "Erano improvvisamente pieni armi, armature e di macchinoni che non si sa chi glieli abbia dati".

E ancora il dott. Giuseppe Meo del CCM: "Io lo dicevo a Kizito, ma questi qui hanno troppe armi in testa, uniformi ... si vedeva, si capiva, si sospettava, infatti dopo qualche giorno hanno preso le armi proprio contro la componente dell'esercito indipendentista (lo SPLA/M) e hanno attaccato, con l'aiuto del governo di Khartoum. Ora ci sono armi più potenti, prima lottavano con le lance, ora con le armi cosiddette convenzionali". Luca Zampetti che si trova in a Juba al momento in cui scrivo, mi ha riferito che: "Le dispute per il pascolo o le razzie di bestiame ora si regolano con AK47 anziché con le lance e ovviamente vanno avanti, la diffusione di armi in tutto il Sud è impressionante, la militarizzazione continua ad avere un ruolo impressionante anche nella società del post conflitto".

Queste armi hanno causato uno stravolgimento che ha avuto conseguenza in ogni ambito della vita dei civili; i Nuer e i Dinka hanno sempre combattuto con lance e scudi artigianali prodotti da loro stessi, utilizzando pelli e ossa dei loro animali. In seguito all'interferenza del governo e delle elite militari, le forme di guerra si sono fortemente inasprite: i raid sono diventati sempre più frequenti e si sono fin da subito caratterizzati per la distruzione di case e raccolti; gli attacchi nottetempo si sono differenziati dai precedenti scontri proprio per il tipo di armi utilizzate: le lance non permettevano di uccidere in maniera tanto feroce i membri del gruppo rivale. Molti giovani Dinka hanno cominciato ad acquistare armi dallo SPLA pagandole con pochi capi di bestiame; i giovani Nuer invece sfruttavano la posizione di vantaggio dovuta all'appoggio di Khartoum per acquistare proiettili e pistole. I civili Dinka e Nuer hanno formato rispettivamente un corpo di milizie col nome di Titweng, "guardie di bestiame"e Dec in boor oppure "White Army"; se all'inizio queste milizie avevano uno scopo prevalentemente difensivo, successivamente hanno assunto un carattere più marcatamente violento: incursioni nelle terre dei vicini e attacchi nottetempo hanno esposto i membri di entrambi i gruppi a gravi accuse di violazione di diritti umani contro i civili.

Il ruolo dei capi locali è stato determinate nella definizione dello scenario di violenza e nelle mentalità di guerra dei combattenti. I leader dello SPLA/M hanno inculcato alle reclute un senso di ipermascolinità: atteggiamenti aggressivi, violenti e prepotenti dovevano caratterizzare i combattenti delle fila dell'esercito. In generale, qualsiasi aspetto delle vita dei combattenti doveva essere subordinato all'atteggiamento e alla rigida disciplina da tenersi sul campo di battaglia. La Hutchinson (2000) riporta l'esempio di Kerubino, un ufficiale Dinka, che ha ucciso una donna, perché contesa da tre combattenti: nessuna donna, secondo il comandante, poteva creare tensioni tra le truppe. La logica era chiara: la vita della ragazza non aveva alcun significato rispetto alla solidarietà e all'unità che i soldati dovevano mantenere sul fronte di battaglia.

Un altro aspetto centrale nelle definizione delle nuove forme di violenza riguarda il coinvolgimento nella guerra di ogni segmento della società. Dal 1991, come Riek e Garang, anche i combattenti, spesso su loro ordine o di propria iniziativa, hanno iniziato a tagliare la gola a tutti coloro che incontravano nelle terre di guerra; di conseguenza la spirale di vendetta ha avuto una crescita incontrollata. Gli uomini tradizionalmente erano sempre stati gli unici attori coinvolti; invece anche donne, bambini e anziani hanno iniziato ad essere possibili bersagli di guerra, infrangendo quel codice etico da sempre tutelato. Queste persone, da sempre soggetti protetti, hanno iniziato ad essere coinvolti negli scontri, anche in risposta al cambiamento delle concezioni identitarie. Per i Nuer, ad esempio, prima dello scoppio della guerra, era possibile assimilare un bambino Dinka e "farlo diventare un vero Naath". Dal 1991 in poi queste concezioni identitarie sono andate mutando, sono diventate molto più rigide, con la conseguenza principale di un aumento della violenza e di un completo stravolgimento della morale.

I bambini, infatti, incarnano e rappresentano il futuro del gruppo rivale, pertanto la loro vita doveva essere eliminata ad ogni costo. Anche gli anziani, ad esempio, erano sempre stati protetti da un sentimento di rispetto molto forte, in quanto rappresentanti della tradizione e delle radici comuni. Questa nuova forma di conflitto ha infranto tutti i codici etici contro la violenza, che da sempre hanno onorato numerose generazioni di Nuer e Dinka, trasformando in poco tempo le tradizionali forme di attacco, che colpivano soltanto il bestiame, in assalti militari contro la popolazione civile disarmata, o armata con poco più che lance. Precedentemente, chi era coinvolto negli scontri poteva venire rapito o derubato: ma l'uccisione intenzionale di donne, bambini e anziani veniva considerata come un atto riprovevole.

Tuttavia con l'inasprirsi dei conflitti, questa concezione è andata progressivamente frantumandosi ed ha perso di importanza nella furia degli attacchi di violenza. Da quando i bambini e le donne sono diventati bersagli di guerra e possibili vittime, il fatto di essere considerati codardi o vigliacchi per la loro uccisione è andata perdendo di importanza: l'obiettivo della guerra era l'eliminazione dell' "altro etnico", chiunque esso fosse. In seguito al rigido processo di militarizzazione e al conseguente utilizzo di armi da fuoco, le concezioni valoriali della popolazione sono andate cambiando. Ma, come nella maggior parte delle situazione conflittuali, sono state le donne che, più di tutti, hanno sentito e subito maggiormente l'introduzione delle nuove forme di violenza.

2.3 La violenza nelle relazioni di genere

Questi aspetti di profondo cambiamento delle forme conflittuali, connesse al mutamento dei tradizionali codici valoriali e delle relazioni di genere, rappresentano delle nuove e diverse forme di violenza, mai conosciute prima dai Nuer e dai Dinka. Questo atteggiamento di aggressività e di manifestazione di forza si è espresso in maniera rilevante soprattutto nei rapporti con le donne, andando ad influenzare le relazioni di genere, da sempre tutelate da un ferreo codice etico. Ecco come si è espressa Mary James Kuku (membro del parlamento del Kordofan Meridionale), a proposito del ruolo delle donne sudanesi nello scenario di guerra: "Le donne con le loro bellissime voci, un tempo, accompagnavano i combattenti in guerra, ed ora il loro compito è quello di tradurre le canzoni di guerra. Occorre invece che le donne smettano di cantare canzoni di guerra e cantino canzoni di pace".

La figura femminile aveva un ruolo importante all'interno del contesto di guerra; le donne erano sempre state protette da un rigido insieme di norme morali che le considerava come dei punti di rifugio sicuro per tutti gli uomini che cercavano di fuggire o che si erano feriti sul campo di battaglia. Prima della diffusione della spirale di violenza etnica, le donne, hanno sempre avuto un ruolo importante almeno nelle prime fasi di guerra: accompagnavano i propri uomini, fratelli, figli o mariti, sul campo di guerra per proteggerli e portare via le loro paure o preoccupazioni. Era una dimostrazione di grande responsabilità morale: infatti senza la protezione delle donne, i combattenti Nuer e Dinka potevano anche decidere di ritirarsi.

Una moglie poteva inoltre portare aiuto ad un uomo, caduto in battaglia, e abbandonarsi su di lui, stando sicura che gli altri combattenti non l'avrebbero aggredita né avrebbero tentato di spostarla per finire l'uomo. I ruoli di genere sono sempre stati chiari e ben definiti: se questi segmenti della società venivano coinvolti negli scontri, potevano al massimo venire rapiti, non accadevano mai omicidi intenzionali. Ma quel che appare più grave riguarda il fatto che le donne, come sempre durante gli scontri di guerra, sono diventate vittime di stupri e violenze di ogni tipo. Attraverso gli stupri si impedisce il futuro; al di là della tragedia personale, lo stupro viene usato come tattica di strategia militare per smembrare la comunità dall'interno e fare in modo che non si ricrei. Il corpo umano, infatti, secondo l'approccio di Mary Douglas (1996), può venire considerato come simbolo della società e soprattutto una metafora dei suoi confini. Pertanto, con lo stupro, il legame di filiazione viene spezzato e con questo il futuro della comunità è seriamente compromesso. Lo stupro è considerato una delle vittorie della guerra contro l'identità collettiva del nemico, un'invasione vittoriosa dello spazio della sua riproduzione e quindi del suo futuro.

Vi è una stretta correlazione tra militarismo, virilità e guerra: gli ideali valorizzati in guerra infatti sono l'eroismo e la virilità; la guerra permette e incita l'esibizione di comportamenti aggressivi che in ambito sessuale si traducono in stupro. Esso non è solo una fonte di orgoglio per chi lo commette ma anche un simbolo del suo potere. Le concezioni inculcate in guerra dai capi militari sui combattenti, basate sulla manifestazione di atteggiamenti di maschilismo, di virilità e di aggressività si riflettono anche nelle diverse relazioni interpersonali tra uomini e donne nell'ambito domestico. Le mogli hanno dovuto sottostare a gravi forme di violenza fisica e psicologica, non solo nei campi di battaglia, ma anche all'interno delle mura domestiche. Gli uomini, di ritorno dalla guerra, costringevano le mogli ad avere rapporti sessuali, e di fronte a qualsiasi esitazione, si imponevano con la forza. Se precedentemente alle madri era proibito avere rapporti durante lo svezzamento - prima della guerra i poppanti venivano allatti per almeno diciotto mesi - successivamente hanno dovuto accettare le pressioni da parte dei mariti a diminuire il periodo a nove mesi.

Le donne dovevano sottostare alle volontà dei mariti, e questo si traduce nell'accettazione di forme di aggressione e di violenza. Quel che appare più sorprendente è il fatto che, di fronte alla continua manifestazione della propria forza e mascolinità, gli uomini si sono rivelati essere sempre più incapaci di adempiere al loro tradizionale ruolo di mariti e uomini custodi della famiglia e delle donne. Le donne, che prima non venivano mai coinvolte negli scontri a fuoco, se non per motivi di protezione, sono state vittime di atti di violenza fisica e psicologica. Questo ha fatto in modo che si creasse quella che può essere chiamata una "crisi di mascolinità", una crisi che si è espressa con atti di violenza all'interno della famiglia e con abusi sessuali; le donne infatti sono diventate sempre più esposte a pericoli di violenza fisica e di stupri.

James Mary Kuku ribadisce l'importanza dell'impegno della società civile per quanto riguarda le violenza sulle donne che è ancora presente e non sembra trovare una soluzione anche perché le violenze non sembrano avere fine nelle terre sudanesi: "Una sfida della società civile riguarda la violenza di genere, c'è bisogno di un maggiore impegno politico e noi della società civile ci stiamo impegnando affinché anche la comunità internazionale ci sostenga in questo difficile compito". Tradizionalmente, agli uomini spettava il dovere e la responsabilità di proteggere le moglie e i figli, in quanto soggetti indifesi e vulnerabili: tuttavia, questa forma di protezione è andata annullandosi. È stato lo scenario di guerra sempre più violento a causare questo smantellamento del codice etico; tuttavia si vedrà più avanti, che simili forme di violenza hanno potuto manifestarsi grazie anche alla riformulazione delle norme rituali che ha permesso e giustificato un crescente numero di omicidi. La Hutchinson sottolinea che il ruolo delle donne all'interno del contesto di guerra non è stato soltanto passivo: molte donne Nuer e Dinka hanno rinforzato il processo di militarizzazione, incoraggiando i propri uomini, fratelli e figli a scendere in campo e a partecipare alle razzie di bestiame collettive e agli attacchi di vendetta nei confronti dei vicini gruppi etnici.

In seguito all'uso spregiudicato di armi da fuoco, il ruolo delle donne, seppur sempre fondamentale, è cambiato notevolmente: le donne avevano una forte influenza sui campi di battaglia grazie alla loro capacità di far vergognare i propri uomini riguardo alle decisioni di partecipare o meno ad uno scontro o a specifiche campagne militari. Ancora sono le parole di Mary James Kuku che ritengo possano essere utili per comprendere il ruolo delle donne nel contesto di violenza: "Le donne possono ricoprire un ruolo fondamentale, troppo spesso sottovalutato, quando non addirittura ignorato. Vorrei ricordare un episodio a mio avviso illuminante. Quando in uno scontro tra pastori Baggara e agricoltori Nuba per l'accesso all'acqua un Baggara rimase ucciso, le donne Baggara iniziarono cantare canti di guerra, gridando: "se tra voi ci fossero veri uomini, ci porterebbero le orecchie di colui che ha osato uccidere un Baggara. Così gli abitanti del villaggio andarono nel più vicino villaggio Nuba e uccisero il primo Nuba che trovarono, un anziano che probabilmente nulla aveva a che fare con il precedente omicidio, lo uccisero e gli mozzarono le orecchie".

Infatti in tutte le regioni sudanesi interessate dalle guerra, siano esse il Sud o i monti Nuba, le donne ricoprono tradizionalmente dei ruoli fondamentali e di notevole influenza. Alla luce di queste parole e delle considerazioni fatte, si comprende maggiormente quello che la Hutchinson ha riportato riguardo ad una donna Nuer: "Gli uomini dicono che le donne sono donne ma gli uomini ci danno molto ascolto! Le donne sono molto abili nell'arte della persuasione; possiamo convincere gli uomini con modi molto pacati". Tuttavia Natalina Sala testimonia che le donne hanno avuto anche ruoli decisamente positivi all'interno degli scenari di guerra. Ecco cosa mi ha detto: "Nel 2000 a Liliir c'è stata la pace tra Dinka e Nuer, grazie a Debora: è una donna Nuer che era un militare, combatteva, era stata mandata dal suo governo". Le donne quindi hanno iniziato ad avere un ruolo attivo a seguito della crescente militarizzazione che ha interessato il Sud Sudan, ma in generale anche le altre regioni sudanesi. Esse hanno risposto a delle dinamiche di violenza innescate dall'esterno. La Hutchinston per spiegare tale cambiamento ricorre alle spiegazioni di Cynthia Enloe.

La scrittrice sostiene che i processi di militarizzazione comportano necessariamente la riformulazione e spesso l'intensificazione delle relazioni di genere. Sia che siano guidate da forze nazionaliste, imperialiste o etnico-nazionaliste, i processi di militarizzazione richiedono la mobilitazione e, spesso, l'intensificazione delle identità di genere. La militarizzazione non funziona se gli uomini non accettano determinate norme e le donne non si attengono a determinate forme di femminilità; i movimenti militari tentano di inculcare una sorta di mascolinità alle reclute, che viene associata a dimostrazioni di aggressività, di competizione, e al divieto di manifestare qualsiasi forma di emozione o affettività. Queste riformulazioni di genere sono state permesse grazie all'escalation di violenza che ha interessato le regioni meridionali: il processo di militarizzazione ha permesso che simili azioni, prima espressamente vietate da un codice etico fortemente sentito, potessero manifestarsi all'interno degli scontri. Tuttavia, tali cambiamenti hanno trovato giustificazione grazie alla complessità del contesto di guerra, che divenuto tanto violento ha potuto legittimare l'uso della forza in ogni ambito. La leadership dei capi militari si fondava infatti sull'enfatizzazione dell'importanza del contesto politico attuale e sul valore che la guerra doveva avere, non solo per i sud sudanesi, ma soprattutto per la liberazione dell'intero Sudan.

Questa lotta doveva avere la precedenza sulle concezioni identitarie personali, sulle relazioni sociali ed etniche, ma soprattutto, sul rispetto dei codici comportamentali che per generazioni avevano regolato le forme di conflitto. Lo stato di guerra e di violenza fomentato e incentivato dall'esterno, ha fatto in modo che le due popolazioni riformulassero completamente le proprie concezioni identitarie, la cui conseguenza è stata la legittimazione ad uccidere donne, giovani e anziani. Ma ovviamente queste riformulazioni identitarie non sono semplicemente l'effetto di una tale violenza; essi hanno potuto giustificare simili atti di omicidio. La violenza etnica ha seguito una spirale così forte da coinvolgere l'intera popolazione civile, ed è stata favorita certamente dalla riformulazione delle concezioni identitarie che hanno legittimato l'uso spregiudicato di armi pericolose anche contro i civili disarmati.

2.4 L'identità come effetto e giustificazione della militarizzazione

A seguito della crescente militarizzazione innescata dall'esterno, le società Nuer e Dinka sono diventate estremamente violente: la guerra è andata sempre più caratterizzandosi in attacchi nottetempo, che colpivano, diversamente dal passato, anche i segmenti più fragili della popolazioni, come le donne, gli anziani e i bambini. La riformulazione delle concezioni identitarie ha contribuito ad un grave inasprimento delle dinamiche di guerra e delle forme conflittuali; ma tali atti di violenza hanno potuto verificarsi perché la riformulazione identitaria ha dato loro giustificazione. In questo senso, il processo di riformulazione identitaria è allo stesso tempo l'effetto e la giustificazione della violenza etnica. L'etnicizzazione dell'identità dei due gruppi trova giustificazione in questo inasprimento della violenza: infatti dietro a questi atti di omicidio c'è molto di più che l'espressione di una retorica della vendetta. Le diverse caratteristiche delle forme conflittuali e la violenza che hanno iniziato ad imperversare nelle regioni Nuer e Dinka, hanno trovato giustificazione grazie soprattutto ad un profondo cambiamento delle concezioni identitarie dei due gruppi, anche se, questi cambiamenti si sono sviluppati perché la società è diventata sempre più violenta. Tuttavia, per comprendere la gravità e la profondità di simili riformulazioni e come essi hanno potuto manifestarsi all'interno delle società Nuer e Dinka, occorre analizzare innanzitutto quali elementi essi ritenevano fondamentali nella definizione dell'identità Naath o Jiang. Un qualsiasi elemento, sia esso reale o fittizio, diviene un mezzo, per i soggetti coinvolti, per tracciare dei confini e per stabilire dei segni distinguibili dell'identità etnica. Appartenere e sentirsi parte integrante di un determinato gruppo è qualcosa che va oltre e prescinde dall'uso della stessa lingua, dal colore di pelle o dalla condivisione di determinate norme e valori.

Le nozioni di etnia, etnicità e identità etnica fanno riferimento ad una realtà di ordine culturale e non naturale; appartenere ad un determinato gruppo etnico fa pertanto parte dell'ordine del simbolico. I Nuer e i Dinka parlano la stessa lingua e sono fisicamente simili, tanto che un gruppo può venire assimilato all'altro: ma questi elementi non servono a stabilire chi fa parte di questo o quel gruppo; perché siano reali i sentimenti di appartenenza etnica devono venire avvertiti da coloro che li condividono come "autentici", e la stessa etnia deve essere sentita come qualcosa di radicato in un passato remoto. I soggetti che si sentono parte di un gruppo etnico stabiliscono categorie di attribuzione e di identificazione, grazie alle quali definiscono chi è un membro e chi non lo è. L'esistenza di un confine consente di incanalare la vita sociale, nel senso che la sua esistenza segnala a tutti coloro che sono parte del gruppo etnico che "si sta giocando allo stesso gioco". Allo stesso tempo però, il riconoscimento di un confine comporta l'esclusione di altri dallo stesso gioco e quindi una limitazione dell'interazione tra due gruppi a settori che, sono ritenuti comprensibili da entrambi e da essi ritenuti di comune interesse. Il disprezzo di un Nuer nei confronti di chi non possiede bestiame, serve a delimitare e a stabilire chi è un Nuer da chi non lo è; allo stesso modo, un vero Dinka si ritiene astuto e incline a ricoprire ruoli di comando, diversamente dai Nuer considerati impulsivi e arroganti. Queste immagini che i due gruppi hanno sempre avuto di se stessi concorrono alla definizione della loro identità, in quanto sentimento di appartenenza che prescinde dalle somiglianze linguistiche e fisiche.

Un gruppo etnico non viene stabilito dall'occupazione di un territorio, che prevede l'esclusione di altri gruppi; è il modo in cui gli individui si considerano e si riproducono che determina chi ne fa parte e chi no. Perché dei gruppi siano diversi non basta l'esistenza di una differenza; l'identità è indipendente dalla condivisione di tratti culturali "oggettivi": invece di pensare ad un gruppo etnico come a qualcosa di determinato dai "contenuti culturali", sarebbe più opportuno sostenere che tali contenuti servono per costruire il confine, e quindi definire la cultura di un gruppo. La costruzione dell'etnia e dell'identità è un processo che viene attuato dal gruppo etnico, il quale autoattribuisce ai suoi membri un'omogeneità interna e, contemporaneamente, definisce gli altri come diversi da sé. I gruppi individuano dei criteri per determinare l'insieme dei membri e dei modi per segnalare appartenenza o esclusione.

La concezione identitaria Nuer può essere definita "aperta" e permeabile: essi non reclamano la presenza di una forma primordiale, centrata sull'esistenza di un "vero sangue Naath". Questa differenza è spiegabile con l'espansione del XIX secolo: i Nuer hanno accolto parecchi stranieri non Nuer e hanno fatto sentire gli estranei come fossero interni alla loro stessa comunità, è per questo che si definiscono ospitali. Questi elementi sono essenziali per comprendere come tali forme identitarie sono state stravolte dall'escalation di violenza, ma è necessario soprattutto per comprendere come tali riformulazioni hanno dato giustificazione alla crescente ondata di violenza che ha caratterizzato le regioni del Sud. L'identità dei gruppi coinvolti negli scontri ha subito un forte sconvolgimento in seguito all'imposizione del conflitto etnico. Infatti, dal 1991, essi hanno mutato la propria concezione identitaria, vale a dire che hanno cominciato a concepire l'essenza della propria identità in maniera più "primordiale": per essere considerato Naath non era più semplicemente necessario aderire a determinate norme comportamentali. In generale, per i Nuer e per i Dinka, le forme di definizione identitaria sono diventate più rigide e impermeabili rispetto al passato; questo spiega ulteriormente l'aspetto mobile e processuale dell'identità: essa è soggetta ad una riformulazione continua che viene attivata dai soggetti stessi. La definizione della propria identità è andata assumendo sempre più valore nella determinazione delle cruente forme di violenza: era necessario sapere se chi si aveva di fronte era un Nuer o un Dinka per legittimare la violenza e l'uccisione intenzionale.

I gruppi coinvolti nella violenza hanno cominciato a concepire la propria identità in modo più "primordiale", quasi "razzista"; e in questo modo essi hanno dato giustificazione alla crescente ondata di violenza che ha portato all'uccisione di donne, anziani e bambini del gruppo etnico rivale, che mai precedentemente erano stati coinvolti. Quindi le forme di attacco sempre più brutali e cruente hanno potuto svilupparsi anche a seguito della riformulazione di tali concezioni identitarie. Non è soltanto l'uso spregiudicato di armi e munizioni che può portare a simili forme di violenza; tale violenza ha preso forma ed è arrivata ad imperversare nelle regioni sud sudanesi perché i Nuer e i Dinka hanno trovato una giustificazione che legittimasse simile azioni. È in questo senso che la militarizzazione ha comportato una polarizzazione delle identità etniche; le forme di violenza nelle regioni sudanesi hanno trovato giustificazione grazie anche a tali riformulazioni identitarie, che, a loro volta, hanno permesso che simili forme di attacco continuassero a svilupparsi. È in questo senso che l'etnicizzazione è l'effetto, ma anche la giustificazione del conflitto.

I Nuer hanno cominciato a ritenere che per avere un'identità Naath occorresse avere un vero sangue Nuer. Rivendicando quindi la propria autenticità, hanno iniziato a concepire come legittimo l'uso spregiudicato della violenza anche di fronte a quelle persone che mai prima sarebbero state coinvolte nei conflitti. Per alimentare il conflitto tra i sud sudanesi, la costruzione dell'altro, Nuer o Dinka che fosse, in nemico "etnico" era necessaria, e i due comandanti Garang e Machar ne erano ben consapevoli, tanto che non hanno avuto nessuna remora a fomentare un gruppo contro l'altro. Dal 1991 infatti i capi militari hanno costruito una campagna di propaganda identitaria, creando un senso di appartenenza "etnica", laddove non era mai esistito. A partire dall'enfatizzazione di alcuni elementi reali si sono costruite delle "identità fittizie": in seguito alla defezione dallo SPLA e al continuo rifornimento di armi da parte di Khartoum, i Nuer sono stati accusati di "stare dalla parte degli arabi".

Machar, dal canto suo, ha fin da subito presentato la guerra come una lotta contro lo strapotere Dinka: la costruzione di elementi centrati sull'inganno, sono alla base dell'alimentazione della violenza etnica. L'identità si costruisce in maniera oppositiva e contrastiva: per poter pensare se stesso l'individuo deve mettersi in opposizione a qualcun altro. Essa viene sempre espressa in termini relazionali, ed è in continua riformulazione; nel contesto di guerra, assume significato in contrapposizione al nemico: il combattente Nuer è definito in opposizione e attraverso la negazione del Dinka; e quindi sarà Nuer tutto ciò che non è Dinka e viceversa. È quindi in quest'ottica che si può comprendere maggiormente l'incremento di violenza che è andato a coinvolgere tutti segmenti della società. L'istigazione alla violenza deriva dalla paura dell'altro, dell'identità dell'altro; il conflitto etnico in tal senso si propone l'eliminazione dell'identità dell'altro, fisica oltre che psicologica.

La violenza etnica trova la sua più completa manifestazione nel corpo come luogo in cui essa viene esercitata e come teatro delle azioni più terrificanti, volte all'eliminazione del nemico. Il corpo umano è metafora dei confini della società: esso deve rimanere intatto, integro, privo di contaminazioni esterne, percepite dai membri di un gruppo come pericolose. (Douglas 1996). Il corpo pertanto è uno spazio, un luogo di rappresentazioni e riproduzioni sociali; e, nel caso dei conflitti etnici, l'invasione e la conquista territoriale diventano elementi cruciali che si riferiscono simbolicamente all'eliminazione dell'identità del nemico. Esiste allora una sorta di collegamento tra il corpo dell'altro etnico e la brutalità associata all'assassino etnico; il corpo è il luogo dell'esito violento in situazioni di incertezza: l'altro va eliminato a tutti i costi perché rappresenta e simboleggia quell'incertezza che crea timore e che pertanto va combattuta. Il corpo assume in questo contesto, il mezzo per l'eliminazione di tutti quegli aspetti legati all'identità dell'altro; l'identità Nuer è divenuta più chiusa e più rigida, un'identità rafforzata dall'esclusione dell'altro; questa riformulazione ha infatti comportato un incremento della spirale di violenza etnica e ad una ferrea chiusura nei confronti del nemico.

La questione riguarda, ancora una volta, l'incremento della violenza: le precedenti forme di attacco non erano combattute con armi da fuoco; queste hanno causato un aumento degli atti di ferocia e di furia omicida, che pertanto avevano l'obiettivo di uccidere ed eliminare il nemico in maniera sempre più cruda e atroce. Le tradizionali forme di conflitto si svolgevano tramite l'uso di lance e scudi "artigianali". Il corpo dell'altro etnico, teatro e rappresentazione di crisi e incertezza, poteva essere eliminato con più efficacia con tali armi: con una lancia infatti le persone non potevano morire in maniera tanto forte come con pistole e fucili. Secondo Appadurai, gli omicidi, le torture e gli stupri associati alla violenza etnocida non riguardano solo il problema di eliminare l'altro etnico, ma implicano l'uso del corpo per stabilire i parametri di quell'alterità, facendo a pezzi i corpi per divinare, il nemico al loro interno. (Appadurai 2005: 48). A partire da motivazioni di ordine politico si è costruito un conflitto che è diventato "etnico" per la popolazione coinvolta, e che è stato caratterizzato da un crescendo di violenza che ha modificato e giustificato le concezioni identitarie e ogni aspetto della vita rituale. L'etnia insomma è diventata una realtà effettiva che ha legittimato e permesso forme di violenza mai praticate in precedenza che hanno pertanto stravolto le vite dei Nuer e dei Dinka.

2.5 L'etnicizzazione della sfera rituale

Per i Nuer il compimento di un qualsiasi atto rituale trova la sua più completa esecuzione attraverso il sacrificio di animali. Il bestiame ricopre un'importanza rituale fondamentale in quanto rappresenta la possibilità di soluzione al pericolo di contaminazione: se non fosse per i sacrifici di animali, gli individui sarebbero costretti ad avere ruoli passivi, oppure rischierebbero di incorrere al pericolo di malattie o morti improvvise. È in questo senso che il ricorso all'uso dei buoi o delle mucche serve ai Nuer come mezzo per risolvere la paura della contaminazione; è il sangue sacrificato che permette la risoluzione delle diatribe e degli errori relativi all'adulterio, all'incesto o all'omicidio. Tra i Nuer le uccisioni sono da sempre governate da un insieme coeso di norme etiche e proibizioni religiose finalizzate ad assicurare la rapida identificazione e purificazione dell'omicida e a restaurare rapporti di pace tra la famiglia dell'uccisore e quella della vittima, fornendo una compensazione sotto forma di bestiame.

Evans Pritchard (1940) scrive che appena un uomo commette un'uccisione, è obbligato ad andare a casa del "capo dalla pelle di leopardo"(kuaar muon, una persona sacra, senza autorità politica, ma che viene consultato per questioni riguardanti il bestiame, gli atti di omicidio, e più in generale, in situazioni che richiedono il sacrificio di animali) per purificarsi del sangue versato. Una serie di atti rituali governano questi crimini: l'omicida non deve bere nè mangiare fino a quando il sangue del morto non è uscito tutto dal suo corpo; si ritiene, infatti, che il sangue del morto in qualche modo sia entrato dentro di lui: quindi il capo gli fa due incisioni (bier) sul braccio e sulla spalla; in tal modo è certo di cacciare dal corpo una pericolosa forma di contaminazione, conosciuta col nome nueer. Il rito prosegue con il compimento da parte del capo dalla pelle di leopardo di un vitello, un ariete o una capra e con il pagamento in termini di bestiame da parte della famiglia dell'omicida ai parenti dell'ucciso.

Alla visione proposta dalla Douglas (1996) del corpo come immagine della società si affianca inoltre la paura di una possibile contaminazione; la simbologia dei confini del corpo esprime il pericolo per i confini della comunità. Questa angoscia per la sopravvivenza del gruppo, così incentrato sul mantenimento dei propri confini, rivela la percezione della propria identità etnica come autentica ed originaria e quindi pura ed incontaminata. I pericoli temuti da una comunità servono a garantire l'ordine ideale di una società; le idee sulla contaminazione rivestono allora un valore simbolico che rafforza la pressione sociale. Ciò che è completo e quindi integro, è considerato puro, a volte addirittura sacro. Per impedire ogni tipo di contaminazione tutte le strutture, in particolare il corpo umano, devono restare integre, impermeabili a qualsiasi contagio. La cosa importante è che, nella società Nuer, l'atto di omicidio non riguarda soltanto l'uomo che l'ha commesso ma tutta la sua famiglia, e in modo particolare i parenti agnatici vicini. Tra i parenti delle due parti insorge infatti una mutua ostilità e, nessuno di loro, pena la morte (causata dal nueer), che colpisce chiunque infranga la norma, può mangiare o bere insieme a un nemico o servirsi dai piatti o dalle pentole da cui si è già servito uno dei nemici.

Questa proibizione cessa con il pagamento del bestiame e con dei sacrifici, ma i parenti più vicini delle due parti non devono mangiare più insieme per anni, o anche per una o due generazioni. Secondo i Nuer infatti: "Un osso (il morto) resta tra loro". Questa è una "metafora" usata dai Nuer, che ben riassume le permanenti relazioni di ostilità che si instaurano in seguito ai crimini di omicidio. Si pensa che l'osso dell'uccisore crei una frattura sociale così profonda, che i rapporti di vicinanza, sessuali e di matrimonio, vengono proibiti "per sempre". Era come se, al momento della morte, si formasse una sorta di legame tra la vittima e l'omicida. È il timore della contaminazione, del nueer, associato all'osso che unisce i due individui, che muove e ha sempre mosso queste azioni rituali. L'incertezza e l'anomalia creano, per natura, una sorta di frustrazione e di angoscia negli individui: essi pertanto utilizzano il rito come mezzo per controllare e mettere ordine di fronte al caos dell'esperienza.

Le regole della contaminazione sono riconducibili al tentativo degli essere umani di reagire di fronte all'anomalia. Il rituale è il modo più efficace che essi adottano per cancellare o far fronte alla paura della contaminazione; il sacrificio di animali o il pagamento in termini di bestiame assume nelle loro società un ruolo cruciale, non tanto per stabilire chi o che cosa è responsabile o causa di contaminazione, quanto per far fronte alla contraddizione tra il comportamento esterno e gli stati d'animo individuali. Quello che è importante è il fatto che una volta attuati tali rituali rendono accettabili gli atti anomali e le azioni sbagliate, proprie della natura umana; l'omicidio trova una sua giustificazione: grazie alle incisioni corporee e alla compensazione in bestiame l'uccisore diviene privo di qualsiasi coinvolgimento morale.

Con i riti le persone tentano di controllare e di dare ordine all'esperienza della vita di tutti i giorni; per far fronte alla contaminazione esse ricorrono agli atti rituali per giustificare il dolore o la malattia che li affliggerebbe se tali riti venissero trascurati. La definizione di forme diverse di questo nuovo conflitto hanno portato le società Nuer e Dinka a doversi confrontare con un crescente numero di morti: essi, in ogni momento, avrebbero dovuto espiare le colpe e purificarsi in seguito al crescente numero di omicidi che ogni giorno commettevano in maniera sempre maggiore. La reazione dei Nuer di fronte al crescente numero di uccisioni commesse in seguito allo scoppio della violenza etnica dopo il 1991, può trovare una chiarificazione alla luce delle considerazioni fatte: gli omicidi, che essi commettevano di giorno in giorno in misura sempre maggiore, sono "diventati", perché manipolati dall'esterno, privi di rischi sociali e morali; è stato annullato il pericolo di contaminazione, le morti sono divenute impersonali e anonime e pertanto non vi era più motivo di ricorrere ai rituali di sacrificio o di incisioni corporali. Non è soltanto l'aspetto morale che viene ad essere coinvolto: ma la risoluzione del timore della contaminazione. È importante, non tanto la ricerca del responsabile su cui riversare la disapprovazione morale, quanto la questione pratica della punizione. Ed è in questo senso che i capi militari hanno manipolato queste concezioni; hanno fatto in modo che i pericoli della contaminazione venissero risolti, agli occhi degli stessi civili.

La popolazione civile si è trovata coinvolta in un processo di etnicizzazione che è andato a caratterizzare soprattutto la dimensione etica, vale a dire la dimensione rituale, profondamente rispettata e tutelata da un insieme coeso di norme e valori. Machar ha intrapreso una persuasiva campagna ideologica di differenziazione in due tipi di guerre, che ha portato la popolazione a rivedere le precedenti forme di espiazione degli atti di omicidio. Le morti in nome di una "guerra governativa", mossa con l'obiettivo della liberazione dell'intero Sud, erano prive di rischi sociali e di coinvolgimenti morali. Non era pertanto necessario piangere tali morti, né rispettare le solite pratiche di espiazione. Tale politica era stata attuata con lo scopo preciso di assicurarsi l'assoluta obbedienza delle sue truppe a uccidere a comando. Pertanto i combattenti si sono sentiti legittimati a continuare a compiere simili atti; si spogliavano di qualsiasi responsabilità morale, poiché se commettevano simili omicidi era soltanto per rispettare ed eseguire gli ordini dei loro leader militari. Gli omicidi commessi in nome di una"guerra della propria terra", invece, potevano causare ramificazioni spirituali e comportare notevoli implicazioni sociali e morali.

La "guerra del governo", non veniva presentata come un conflitto tra i Dinka e i Nuer, ma come una lotta, volta a sconfiggere la leadership di Garang e dello SPLA. Un assassino, combattendo per sconfiggere lo SPLA in nome di una "guerra governativa", quindi, non avrebbe avuto bisogno di purificarsi del sangue versato dalla sua vittima e la famiglia dell'uccisore non aveva bisogno di dare una compensazione sotto forma di bestiame per espiare la colpa; il timore del nueer, della contaminazione, non aveva ragion d'essere in questo genere di omicidi. Persuadendo i civili, che tali omicidi non avevano importanza dal punto di vista della purificazione rituale, i leader militari hanno fatto in modo che le uccisioni potessero essere dimenticate, senza che vi fossero conseguenze di ordine morale o sociale. Stabilito che per le morti in nome della guerra governativa, sostenuta da Machar, non vi era necessità di espiare la colpa, e quindi la paura della contaminazione non aveva ragion d'essere, anche la questione della punizione dell'omicida non era più necessaria.

Le morti oltretutto sono diventate spersonalizzate e impersonali: non si sapeva più neppure chi aveva commesso un uccisione, la direzione dei proiettili scagliati con le armi da fuoco era difficile da rintracciare, e quindi non sempre si sapeva se una persona era stata colpita; e se era stata ferita non si aveva la certezza di averla uccisa. Data l'importanza che i Nuer conferivano alle norme relative agli atti di omicidio, i leader si sono trovati nella condizione di trovare un deterrente per annullare le colpe relative alle uccisioni; la riformulazione delle loro consuete pratiche rituali è stato il modo più efficace per giustificare gli omicidi. L'introduzione di grandi quantità di armi da fuoco ha accresciuto l'escalation di violenza: un proiettile, dato che non poteva essere sempre rintracciato - perché penetrava profondamente all'interno del corpo della vittima - sembrava creare una sorta di distanza tra l'omicida e l'ucciso. L'angoscia tradizionale per la contaminazione era risolta, la riprovazione sociale non aveva ragione d'essere, e, pertanto, convinti che le morti per una guerra governativa fossero impersonali, secolari e definitive, i combattenti, hanno cominciato ad uccidersi a vicenda senza sentirsi in colpa e con la certezza di non aver infranto nessun codice etico di guerra.

Inoltre, un soldato non poteva sapere con esattezza se aveva realmente ucciso una persona o se invece l'aveva solo ferita; invece, fino a quando la principale arma di scontro era la lancia, chi aveva commesso l'omicidio era immediatamente individuabile. Machar e anche altri ufficiali dello SPLA, volevano indebolire, se non distruggere, qualsiasi forma di mediazione che si potesse infiltrare tra loro e la fedeltà delle loro truppe, compresi anche i vincoli di parentela. L'utilizzo sempre maggiore di pistole e fucili al posto delle tradizionali lance ha contribuito, non solo, all'inasprimento dei conflitti e al processo di militarizzazione, ma anche a cambiare le concezioni degli stessi Nuer: essi hanno iniziato a chiedersi se le conseguenze sociali e spirituali delle attuali uccisioni intraetniche fossero le stesse degli omicidi commessi con le lance. Le riformulazioni presentate dai capi hanno pertanto permesso che venissero giustificate le uccisioni, che prima avrebbero comportato lunghi sacrifici rituali.

Quel che si è rivelato essere ancora più grave è stata la manipolazione attuata dopo aver scoperto l'associazione che la popolazione ha iniziato a fare tra le cosiddette "vittime dei fulmini" e "vittime dei proiettili". Tra i Nuer, vi era una gran quantità di persone che moriva perché uccise dai fulmini: da qui la denominazione "vittime dei fulmini"; questa particolare categoria di spirito era conosciuta con il nome di "col wic", che avrebbe potuto essere trasformata, quando onorata e propiziata adeguatamente, in uno spirito guardiano e manifestazione della divinità. Queste vittime erano state scelte da Dio per ragioni che la famiglia e i parenti non avrebbero potuto capire, infatti quando una persona veniva uccisa da un fulmine, la comunità Nuer si rassegnava ed eseguiva una serie di atti rituali: si pensava che Dio avesse deciso di colpirlo con un fulmine, questa era una sua decisione, e nulla andava obiettato in proposito. I Nuer hanno cominciato ad assimilare lo scoppio e il lampo degli spari a quelli dei fulmini; quindi hanno cercato di trasformare la loro crescente vulnerabilità alle pallottole governative in affermazioni simboliche di un maggiore controllo individuale sulle conseguenza spirituali degli omicidi. In momenti di grave ed imminente pericolo, quando la morte ormai era vicina, nulla appariva più adeguato per una persona di pregare che lo spirito "col wic" guidasse la famiglia del defunto per ottenere guida e protezione divina.

Quel che risultava più importante era il fatto che una volta morta, il suo spirito col wic era certo del fatto che i suoi familiari sopravvissuti avrebbero fatto tutto il possibile per dargli eredi postumi; ricorrendo al matrimonio col fantasma, si assicurava al defunto la possibilità di avere figli anche dopo la sua scomparsa; infatti, in base a tale usanza i parenti del marito sono obbligati a prendere del bestiame e a sposare sua moglie, di modo da riuscire a fargli avere eredi postumi. In questo modo i figli che la moglie aveva avuto, erano considerati discendenti dello spirito "col wic" dell'uomo morto: i parenti sopravvissuti erano obbligati per dovere divino ad adempiere alle aspirazioni procreative degli spiriti "col wic" prima di sposarsi a loro proprio nome.

Machar, divenuto consapevole dell'associazione che la popolazione stava facendo tra le "vittime dei proiettili" e "le vittime dei fulmini", ha iniziato una campagna ideologica di persuasione per catturare questa associazione spirituale. Gli omicidi causati da armi da fuoco, essendo associato alle "vittime dei fulmini", erano visti come un intervento diretto della divinità dal cielo; inoltre essi ritenevano gli spiriti "col wic" così potenti che avrebbero persino potuto proteggere i loro familiari sopravvissuti alle pallottole. In tal modo, i Nuer avevano maturato la convinzione di poter affrontare le morti causate dai nemici, con la certezza che, se fossero stati uccisi, i loro familiari sopravvissuti, avrebbero fatto tutto il possibile per dare loro eredi postumi. Si pensava che gli spiriti "col wic" fossero in grado di proteggere chi li invocava o chi pregava per loro, inclusi gli uomini coinvolti negli scontri a fuoco. Quel che è interessante notare, è che i Nuer hanno trasformato il timore e la paura nei confronti delle armi da fuoco del governo in affermazioni simboliche di un maggiore controllo personale e collettivo sulle conseguenze spirituali degli atti di omicidio. Con questo tipo di equivalenza religiosa-spirituale i civili hanno tentato di attribuire un significato al loro dolore, hanno tentato di dare una giustificazione alla loro paura del pericolo esterno.

Tuttavia le ricerche condotte dalla Hutchinson sottolineano che tra gli stessi Nuer vi sia un diverso modo di affrontare questo genere di perdite. I Nuer orientali hanno iniziato a chiedersi quali potevano essere le reazioni della Divinità di fronte al mancato rispetto degli obblighi e delle restrizioni relative agli atti di omicidio. Hanno iniziato ad osservare gli uccisori riconosciuti o quelli sospettati di aver commesso un omicidio, con l'intenzione di vedere se dopo il crimine si fossero ammalati, se il nueer cioè avesse agito, come per gli omicidi in nome di una "guerra della propria terra": in tal caso l'omicida sarebbe stato colto da morte improvvisa o da una grave malattia. Sospettavano infatti che il pericolo del nueer, non avesse gli stessi effetti per tutti gli omicidi intraetnici.

Hanno cominciato anche a pensare che il pericolo della contaminazione nueer potesse variare a seconda dell'arma usata. Le morti causate da armi da fuoco infatti erano ambigue: non solo i proiettili erano inclini ad uscire in modo casuale, ma una volta usciti, la loro traiettoria risultava difficile tracciare. Infatti molto spesso gli uccisori non erano certi di aver realmente ucciso qualcuno. Pertanto i Nuer Jikany orientali hanno sviluppato una nuova forma di rituale, specifico per gli omicidi commessi con le armi da fuoco. Questo rito purificatorio era chiamato piu thora o anche "the water of the cartridge shell": l'uccisore doveva versare dell'acqua (preferibilmente mischiata con del sale) nella "conchiglia" e berla. Questo era tutto. Per i combattenti Nuer orientali, gli atti di omicidio non erano soltanto impersonali e spersonalizzati, ma, per le vittime che prima non si conoscevano, erano anche privi di qualsiasi rischio sociale.

L'associazione tra le "vittime dei proiettili" e le "vittime dei fulmini" e il sorgere dell'importanza del rito piu thora, hanno fatto in modo che gli individui attribuissero significato alla misteriosa forza e al forte impatto delle armi da fuoco: il rispetto per queste nuove forme di guerra, si è trasformato simbolicamente in affermazioni di grande controllo individuale sulle conseguenze sociali e spirituali degli omicidi. Quel che è interessante sottolineare sono le differenze di prospettive attuate dalle due popolazioni Nuer: nella comunità occidentale le uccisioni violente con le armi da fuoco venivano simbolicamente trasformate in forze spirituali di protezione (col wic) che potevano proteggere i parenti sopravvissuti, mentre tra i Nuer orientali veniva particolarmente presa in considerazione la malattia, causata dagli atti di omicidio intraetnico nel contesto di una "guerra governativa", e si prendeva in considerazione maggiormente la prospettiva dell'omicida.

Infatti quest'ultimo bevendo dell'acqua poteva disfarsi delle conseguenze affettive e spirituali in seguito ai crimini commessi sul campo di battaglia e aveva in questo modo adempiuto agli obblighi morali anche agli occhi dell'intera comunità. La Hutchinson sottolinea che la differenza dipende dal fatto che i Nuer occidentali avevano, in generale, minori esperienze di guerra e dell'uso di armi da fuoco rispetto ai loro cugini orientali, ed erano più interessati alle forme rituali che permettevano di dimenticare, o di sopprimere pubblicamente, il ricordo dei loro atti di omicidio. Mentre nella parte occidentale si è sentito il bisogno di trovare un senso alle proprie sofferenza, attraverso il ricorso ad associazioni simboliche.

Resta il fatto che queste nuove forme rituali e di espiazione di colpe hanno avuto luogo solo dopo allo scoppio della guerra in seguito alla divisione dello SPLA, e non sono riuscite a diminuire l'impatto effettivo della violenza intra e interetnica tra le popolazioni sud sudanesi. La ridefinizione del significato delle morti violente ha causato un indebolimento del ruolo della Divinità, come ultimo guardiano della morale umana, ed anche un progressivo allontanamento dagli obblighi etici tra parentele, volti ad assicurare eredi postumi ad un uomo morto senza avere ancora avuto figli. La Hutchinson scrive in proposito "che alcune di queste persone hanno continuato a sperare che queste morti sarebbero state opportunamente "ricordate e rispettate" in un futuro, ancora incerto, quando il "mondo tornerà ancora buono".



Capitolo III - La politicizzazione degli aiuti umanitari .: su :.

La politica del governo di Khartoum è sempre stata rivolta ai propri interessi e alle proprie mire velleitarie: il desiderio di conquista delle terre del Sud ha da sempre avuto la precedenza rispetto alla difesa dei diritti della popolazione. Come ha scritto la Hutchinson: Il nocciolo è che il governo del Sudan vuole le terre e le risorse del Sud, ma non la sua gente. L'obiettivo, in linee generali, era ed è chiaro: quello di eliminare la popolazione per entrare in possesso delle risorse di cui la regione meridionale è molto ricca.

La politica del governo si è articolata su diversi fronti, tutti interrelati tra loro: il primo riguarda la continua e costante strategia del divide et impera, basata sulla manipolazione dei capi militari locali, per spingere la popolazione a combattere. Khartoum, inoltre, ha costantemente utilizzato milizie su base tribale per stremare la popolazione del Sud, colpevole di vivere in un territorio ricco di risorse. Questa strategia non è stata confinata soltanto alle regioni meridionali; in Darfur, infatti, i janjawid sono diventati tristemente famosi a seguito della strategia della terra bruciata, che semina panico e distruzione tra la popolazione. Inoltre, per complicare ulteriormente la situazione, si è servito anche degli aiuti umanitari per il raggiungimento dei suoi scopi. È precisamente questo che verrà analizzato nelle pagine seguenti: il modo in cui il governo, ma non solo, anche lo SPLA/M, sono riusciti ad utilizzare gli aiuti come strumenti di guerra, come mezzi cioè per la continuazione dei conflitti. La strumentalizzazione degli aiuti da parte del governo e del movimento dei ribelli ha fortemente invalidato i soccorsi, permettendo quindi un crescendo di violenza, di morti e distruzioni.

Le agenzie internazionali di aiuto hanno certamente portato soccorso in aree che altrimenti sarebbero state abbandonate; ma non hanno portato soltanto aiuto, o quantomeno non l'hanno fatto in maniera "neutrale": gli interventi umanitari hanno subito una crescente politicizzazione, vale a dire che si è andato a formare un legame sempre più stretto tra gli organismi sovranazionali e gli organi politici locali. Gli aiuti sono diventati parte integrante delle dinamiche di conflitto e delle strategie politiche di Khartoum e dello SPLA/M: le agenzie umanitarie infatti sono strettamente legate alle questioni politiche che fanno da sfondo ai conflitti in corso. È bene sottolineare che, ancora una volta, l'intelligenza criminale dello stato non si è rivolta soltanto alla regione meridionale. Khartoum ha vietato per lunghi periodi voli umanitari sui monti Nuba e in altre zone nel Nord in lotta contro il governo centrale, anche quando la situazione alimentare di queste aree era drammatica. Ha spesso permesso il diffondersi di carestie per stremare le popolazioni contro cui si batteva: gli aiuti internazionali, portando soccorso, avrebbero rovinato i suoi progetti. Anche l'SPLM/A ha usato la propria capacità negoziale per negare gli aiuti alle aree sotto il controllo di fazioni meridionali avversarie, ed è stato ripetutamente accusato di dirottare gli aiuti alimentari, destinati ai civili, per sfamare le truppe e continuare così la guerra.

Il costante stato di guerra è strettamente legato ai ritorni economici e alle ambizioni politiche dei diversi attori influenti sulla scena. Tuttavia, se è vero che le motivazioni economiche e politiche hanno avuto un ruolo importante nella creazione della precaria situazione sudanese, non devono essere considerati come gli unici fattori rilevanti: non vanno sottovalutati gli aspetti sociali, storici e culturali, evidenziati nei capitoli precedenti, che hanno mosso e fatto accrescere lo stato di guerra. I fattori di arricchimento delle elite, a seguito delle strategie che hanno contribuito alla continuazione della guerra, e la strumentalizzazione degli aiuti, possono fornire una spiegazione, non della natura e della nascita dei conflitti sudanesi, quanto piuttosto della continuazione della violenza, proprio perché le dinamiche da essa prodotte possono portare a forme di arricchimento di alcuni gruppi, a danno di altri.

Dato che la mia analisi si è incentrata sul conflitto Nuer-Dinka degli anni Novanta, i più difficili per la regione meridionale, le osservazioni riportate in questo capitolo derivano, in parte, da una ricerca da me effettuata all'interno di quelle Ong che erano presenti in Sud Sudan ai tempi dello scoppio del conflitto e che hanno subito un'ingerenza da parte del governo e dello SPLA/M. Occorre comprendere cosa ci sia alla base delle strategie politiche, e quindi cosa realmente invalida gli aiuti, e cosa ha pertanto permesso che un crescente numero di morti continuasse a imperversare le regioni. Si analizzeranno innanzitutto gli strumenti utilizzati dalle istituzioni politiche sudanesi per alimentare la guerra, per poi affrontare la questione relativa ai soccorsi umanitari.

3.1 La spirale di guerra

La guerra ha preso vita e ha continuato ad autoriprodursi traendo forza da un circolo vizioso distruttivo per la popolazione civile e vantaggioso per gli stessi attori che la promuovevano. Uno dei principali mezzi di cui Khartoum si è servito per creare miseria e scompiglio è stato l'utilizzo di milizie tribali; erano legittimate a portare morte e distruzione nelle terre, senza pericolo di incorrere in forme di sanzioni. Dato che la strategia ha funzionato negli scopi che si prefiggeva, ne è stato fatto un ampio uso negli ultimi vent'anni, ed è stata esportata anche al di fuori delle regioni meridionali, senza dare peso al fatto che i raid hanno sempre portato con sé carenze alimentari, quando non vere e proprie carestie e continue violazioni dei diritti umani. Per portare scompiglio nelle regioni meridionali, il governo ha arruolato i cosiddetti murahalin, letteralmente "quelli sempre in movimento"; delle milizie nate inizialmente come forze di autodifesa, che hanno ottenuto finanziamenti e copertura da Sadiq al-Mahdi.

Nate verso la metà degli anni Ottanta, sono state reclutate perlopiù tra le tribù Baqqara del Kordofan e del Darfur meridionale, e hanno preso di mira principalmente i Dinka del Bahr al-Gazal, per portare a termine l'intento del governo di combattere lo SPLA/M di Garang. Nei loro attacchi, i villaggi venivano dati alle fiamme, il bestiame catturato, i civili, compresi donne e bambini, uccisi, per essere portati al Nord o venduti come schiavi. Il loro utilizzo da parte del governo, per fomentare e accrescere scontri e guerre, ha esposto Khartoum a gravi accuse di violazione di diritti umani: le milizie, in quanto legittimate dallo stato, non sono mai incorse in sanzioni e pertanto hanno continuato e continuano tuttora a seminare panico e morte nelle regioni sudanesi; basti pensare ai janjawid, che dal 2003, commettono atrocità ai danni delle popolazioni africane del Darfur.

Le conseguenze di queste incursioni nelle già precarie aree sudanesi sono sempre state immediate: diffusione di carestie, epidemie e malattie tali da condurre ad un vero e proprio eccidio di civili. Le incursioni e distruzioni di villaggi hanno alimentato la spirale di guerra e violenza fomentata dallo stato anche perché è sempre stato negli interessi degli attori politici coinvolti che il disordine si perpetuasse; e questo a danno, ancora una volta, della popolazione civile. Non sono state mai adottate delle misure per l'interruzione di simili violazioni di diritti umani; anzi, gli attacchi hanno continuato ad inasprirsi, dando giustificazione ad azioni di guerriglia e di vendetta sempre più cruenti.

Il dottor Giuseppe Meo è la prima persona che ho intervistato. È presidente del CCM (Comitato Collaborazione Medica) di Torino; mi ha fornito delle informazioni molto interessanti. Ecco come si è espresso a proposito delle logiche di guerra mosse dal governo per alimentare la violenza: "E' stato denunciato l'intento del governo di vietare i voli umanitari, di come usare cioè gli aiuti umanitari come strumenti di guerra... C'è sempre stata un'azione militare da parte del governo sulla popolazione civile, un eccidio di persone, e questo fa salire il livello della guerra. (mi cita un documentario di una giornalista inglese relativo ai missili lanciati a raso terra sulla popolazione). Era questo l'obiettivo, quello di accrescere le diatribe e gli scontri. Ho assistito ad uno scontro tra Dinka; sono morti tutte le persone coinvolte, tranne un bambino che aveva una brutta ferita sulla fronte. È stato ucciso anche il fratello di un medico che lavora con noi; capisce, in questo modo nascono forti sentimenti di vendetta".

La violenza ha svolto in questo senso una vera e propria funzione economica, creando un contesto nel quale sono stati possibili abusi e illegalità ancora maggiori di quelli solitamente perpetrati. È stata proprio questa situazione di costante disordine che ha permesso ad alcuni gruppi di trarre vantaggio dai conflitti; anzi tali guerre hanno continuato a svilupparsi grazie anche alla manipolazione da parte di queste elite. Ad esempio, le carenze alimentari, derivate dalle continue incursioni, sono state strumentalizzate: venivano cioè usate per esporre la fazione avversaria all'accusa di aver provocato e non prevenuto simili forme di miseria, per dare segno di visibilità internazionale al proprio gruppo di appartenenza politica e soprattutto per danneggiare la visione della parte rivale. La politicizzazione delle carestie è stata utilizzata per continuare la guerra e per dar ragione del proprio potere: quando infatti una coalizione è fragile, servirsi della colpevolezza dell'avversario come causa di scontro è una tattica che ha riscosso molto successo.

Il movimento dei ribelli ha sfruttato la sua influenza e la precarietà delle genti a cui era a capo; un grave caso di opportunismo politico, ad esempio, è stato quello dello SPLA/M, che ha più volte usato le trasmissioni radio per colpevolizzare il governo di Khartoum per la sua immobilità di fronte ai continui casi di carestie, quando invece lo stesso movimento di liberazione, con i suoi attacchi e le azioni di guerriglia causava spesso miseria e carestie. E ancora, il movimento dei ribelli ha cercato di attrarre capitali stranieri in vista del gran numero di sfollati che, fuggiti dalle loro terre a causa di carestie ed epidemie, tornavano nelle loro aree di abitazione e versavano in condizioni precarie. Ma, se tale strategia può sembrare scorretta per le modalità in cui si presenta, lo è maggiormente per i risultati che si osservano: gli introiti e gli interventi non hanno avvantaggiato la popolazione civile realmente bisognosa, ma hanno alimentato la spirale di guerra e di arricchimento delle elite militari locali. Le fazioni di guerriglia hanno sistematicamente confinato i flussi di cibo in aree specifiche al fine di indebolire i mezzi di sostentamento pubblici dei loro avversari e di rafforzare le risorse dalla loro parte.

Si è sempre giocato su una sorta di privatizzazione della questione relativa alle carenze alimentari: la questione di interesse pubblico, o meglio soltanto dei civili, è diventata di "responsabilità privata", cioè del movimento o della personalità politica che in quel momento si trovava al potere. Al di là delle accuse vicendevoli, nessuna istituzione politica si è mai rivolta all'interesse della popolazione e a tentare di eliminare il problema alla radice. Spesso i comandanti dello SPLA/M utilizzavano il cibo per rifornire i combattenti e per continuare in tal modo la guerra; o comunque rifornivano i capi dei vari gruppi perché persuadessero la popolazione nella continuazione della lotta; non sempre i rifornimenti andavano a chi aveva più bisogno. Nonostante il Sudan avesse le capacità tecniche e le potenzialità politiche per prevenire disastri alimentari, non è mai riuscito a frenare le crisi che hanno causato morti e distruzioni. Si è verificato nel corso delle guerre un costante declino del senso di responsabilità politica, associata alla dipendenza economica dagli aiuti dei donatori occidentali, e una crescita di estremismo politico.

Ad esempio, le forze democratiche che si opponevano al dispotismo di Nimeiri hanno formato una strategica alleanza contro di lui per la sua indifferenza e il suo immobilismo di fronte alle crescenti e numerose carestie; questi fattori, insieme ad altri hanno infatti contribuito alla sua caduta. Tuttavia, dopo averlo eliminato dalla scena politica ed essere riusciti a ricoprire le cariche politiche desiderate, alcuni dei suoi oppositori, che lo avevano più volte denunciato per la sua noncuranza nei confronti della popolazione, hanno scaricato il problema relativo alla scarsità alimentare alle agenzie di aiuto internazionale. Si vedrà nel prossimo paragrafo che senz'altro anche il ruolo degli agenti internazionali ha avuto un ruolo determinante nella spirale di guerra; tuttavia non è certo una strategia encomiabile da parte di una qualsiasi delle istituzioni politiche, quella di delegare la questione a qualcun altro, liberandosi di ogni coinvolgimento politico e sociale.

Ne è risultato ancora una volta un continuo arricchimento delle consuete figure istituzionali, del governo e delle elite militari a danno della popolazione civile, vittima impotente di fronte a tali catastrofi sociali e politiche. Un altro fattore che ha contribuito in maniera rilevante alla continuazione delle guerre è quello relativo al ruolo che i capi militari svolgevano all'interno del contesto di guerra: lo stato di conflitto garantiva loro dei riconoscimenti e la possibilità di acceder a cariche statali a cui essi stessi ambivano da sempre. Quello di Kerubino rappresenta un caso esemplare in questo senso: per assicurarsi l'assegnazione di alte cariche statali, ha più volte abbandonato il movimento dei ribelli, per poi appoggiare il governo di Khartoum, per ritornare successivamente nelle fila dello SPLA/M.

Era nei suoi interessi che la guerra si prolungasse: infatti le continue rappresaglie e contro rappresaglie rientravano in una logica chiara e precisa fomentata dall'esterno, volta ad un suo progressivo arricchimento, e all'ambizione di ricoprire alte cariche di comando. Il governo, per assicurarsi l'appoggio di alcuni capi locali assegnava loro cariche di prestigio, in tal modo era certo che essi l'avrebbero seguito e aiutato nelle sue strategie politiche. Kerubino, una volta nominato dal governo, vicepresidente del Southern Sudan Coordinating Council, ha organizzato un attacco a Wau, una guarnigione del Nord. Si ripropone la costante strategia governativa del "divide et impera": Khartoum ha cercato in questo caso l'appoggio del leader Kerubino per sconfiggere i suoi oppositori, i ribelli dello SPLA/M. A tal proposito, ritengo pertinente riportare la testimonianza di Natalina Sala: "Kerubino era sempre più avido di potere tanto da arrivare a distruggere le terre della sua stessa regione natale, il Bahr al-Gazal. Prima della carestia, Kerubino, nella primavera del 1998, è riuscito ad impadronirsi di Wau, una guarnigione governativa, ed è stato proprio in quel momento che l'ha venduta, diciamo, allo SPLA del Sud. Però poi gli arabi l'hanno ripresa dopo pochi giorni. Wau, Aweil, sono due città che si trovano al Sud, ma che in realtà appartenevano al Nord: il motivo è che sono città strategiche per la ferrovia, che è l'unica ferrovia. Al governo del Nord non interessa quali possano essere le conseguenze e i costi umanitari, lui vuole soltanto seguire i suoi interessi, l'ha sempre fatto".

Khartoum, sentendosi ingannato, si è servito dei due capi militari Nuer Paolino Matiep e Riek Machar per dare vita ad uno scontro intraetnico: il governo mobilitando le forze dei due capi militari, interessati ancora una volta soltanto al proprio tornaconto, ha alimentato azioni di guerriglia per cacciare ed eliminare dai territori del Sud le popolazioni Nuer, colpevoli solo di risiedere in terre ricche di petrolio. Ho citato questi esempi di manipolazione dei capi locali da parte di Khartoum perché anch'essi hanno contribuito alle dinamiche di guerra e all'inasprimento della spirale di violenza nelle regioni del Sud; hanno cioè avuto interesse nella continuazione e nel proseguimento della guerra, aspirando a cariche a cui probabilmente in un contesto diverso non avrebbero potuto ambire.

Un altro aspetto da evidenziare, riguarda il fatto che le carestie e le violazioni di diritti umani ad esse correlate non sono mai diventate uno scandalo in Sudan. L'opposizione del governo del Nord non ha mai manifestato in questo senso nessun interesse a garantire l'interruzione delle distruzioni e della povertà. Chi si opponeva e denunciava le violazioni ha dovuto più volte sottostare ad accuse ed arresti; un giornalista sud sudanese Mike Kilongson è stato arrestato per un suo rapporto sulla carenza alimentare e sulla conseguente immobilità dello stato per soccorrere i civili. Le riviste, i giornali e i periodici hanno sempre manifestato scarso interesse in proposito; oltre al Sudan Times (diretto da un sud sudanese), solo il giornale comunista al Meidan ha riportato alcune informazioni relative alle implicazioni politiche delle milizie. Ad esempio, quando nell'aprile 1988, un treno proveniente dal Bahr al-Gazal è arrivato a Khartoum con moltissime persone, tra cui anche bambini, ridotte in miseria, nessun giornale ha menzionato né denunciato la gravità dell'evento.

Questo ostracismo e questo silenzio è ancora una volta riconducibile alla politica dispotica ed intimidatoria del governo sudanese. Le libertà di espressione e di associazione sono ancora estremamente ristrette, i difensori di diritti umani, i giornalisti, gli studenti, i partiti politici di opposizione continuano ad essere bersagliati per le loro attività. Ne è un esempio Mudawi Ibrahim Adam, un ingegnere responsabile del SUDO (Sudan Development Organization). Amnesty lo segnala nel proprio rapporto perché il 24 gennaio 2005 è stato arrestato e trattenuto in carcere senza accuse fino al 3 marzo. L'8 maggio 2005 è stato nuovamente arresto mentre stava lasciando il Sudan, diretto in Irlanda, per ricevere un premio sui diritti umani dalle mani della presidenza irlandese. In seguito alla pressione internazionale è stato rilasciato il 17 maggio.

Le strategie politiche finora evidenziate hanno contribuito alla continuazione delle guerre, e alla distruzione dei civili. L'utilizzo delle milizie da parte del governo, le ambizioni politiche delle elite militari, il declino del senso di responsabilità politica e morale nei confronti della popolazione, i casi di interdizione delle libertà di stampa, sono tutti fattori che hanno contribuito alla continuazione delle guerre e del rafforzamento delle elite militari. Questi fattori sono stati determinanti e hanno rappresentato il contesto all'interno del quale hanno preso forma le ingerenze delle istituzioni politiche nei soccorsi umanitari. Questo aspetto verrà affrontato, nel paragrafo successivo: l'interdizione di soccorsi umanitari è stata un'altra terribile strategia utilizzata per la continuazione della guerra e della spirale di violenza.

3.2 La strumentalizzazione degli aiuti umanitari

La politica del governo e delle elite militari di incidere sulle condizioni di vita della popolazione non si è fermata all'uso della forza e all'incremento delle logiche e delle politiche di guerra. Khartoum e gli stessi capi militari locali hanno più volte impedito l'accesso di aiuti umanitari: il caso che ha destato molto scalpore è stato quello del 1998. Il governo infatti ha vietato l'accesso per aiuti umanitari nell'area di Bahr al-Gazal, dove era già in corso una carestia. La carestia è ovviamente il risultato delle logiche e delle politiche di guerra: l'interdizione di accessi umanitari è uno dei meccanismi volti alla complicazione e alla continuazione degli scenari di scontro. Per comprendere e affrontare l'aspetto relativo agli aiuti umanitari in Sudan occorre innanzitutto comprendere il ruolo e la posizione dell'Operation Lifeline Sudan. L'OLS è il caso esemplare di soccorso umanitario diventato parte integrante dei conflitti in corso, in quanto strettamente collegato alle logiche governative. Infatti per intervenire le Ong dovevano rispettare un patto tripartito che prevedeva il consenso del governo sulle zone in cui prestare aiuto. Vediamo in che modo.

L'OLS è un consorzio di due agenzie ONU - l'UNICEF e il World Food Programme (WFP) - formata da più o meno 35 Organizzazioni Non Governative. È stata istituita in risposta alla grave carestia del 1988 avvenuta in Sud Sudan. Le violente inondazioni dell'estate 1988, infatti, avevano portato a Khartoum un gran numero di giornalisti stranieri, e in tal modo, hanno risvegliato anche l'attenzione internazionale per le migliaia di civili in fuga dal Bahr al-Gazal. Il governo sudanese è riuscito ad imporre dei vincoli molto rigidi relativi alle modalità e alle aree di intervento, impedendo in tal modo la possibilità da parte delle organizzazioni membro dell'OLS di portare soccorso. Tuttavia, parlare con persone competenti mi ha permesso di capire le dinamiche reali e il ruolo che l'OLS ha avuto nella definizione della condizione sudanese degli anni Novanta. Se da un parte gli aiuti si pongono come dei "surrogati" ai fallimenti delle istituzioni politiche, la politica ricopre comunque una forte influenza sulle scelte e sui comportamenti dei soccorsi umanitari. Nelle situazioni attuali, non esiste una sorta di intervento "neutro"o di aiuto "fine a se stesso"; ma sembra che la logica umanitaria sia ormai strettamente associata alla politica; sembra che l'aiuto umanitario sia diventato ormai centrale nelle politiche internazionali e che abbia anch'esso alimentato la spirale di guerra e violenza alla base delle politiche discriminatorie perpetrate dagli agenti istituzionali.

Le questioni politiche non sono quindi semplicemente uno sfondo dei conflitti che le agenzie umanitarie si propongono di risolvere; la politica e le questioni relative ad essa influenzano le scelte e i comportamenti delle agenzie di aiuto; pertanto, spesso risulta necessario negoziare l'accesso o il soccorso a quelle aree o a quei segmenti che sono più vulnerabili all'interno di questi stessi conflitti. Le agenzie umanitarie non possono prescindere dalle dinamiche conflittuali alla base dei loro interventi; il contesto entro cui si trovano ad agire assume un importanza fondamentale per le operazioni umanitarie. Non è probabilmente possibile un intervento "neutro" perché le logiche alla base degli scontri vincolano le modalità di aiuto: in Sudan, a prescindere dagli interessi economici e politici che muovono gli scontri, non è possibile intervenire in maniera libera e svincolata. Le logiche e le strategie dei movimenti politici sono imprescindibili dalle modalità di soccorso e in molti casi bloccano gli interventi a favore della popolazione.

L'OLS è stata protagonista di questo processo: è riuscita certamente a portare aiuto in aree che in questo determinato periodo altrimenti sarebbero rimaste isolate; ma è stata fortemente strumentalizzata a proprio vantaggio dalle istituzioni politiche. A tal proposito, ritengo utile riportare le parole di Daniele Panzeri, che lavora per la Cooperazione Italiana, in cui nominativo mi è stato dato da Stefania Giacco del CESVI. Ecco come si è espresso in proposito al ruolo del governo con l'OLS e ai divieti emanati: "L'OLS è nata come coordinamento delle Operazioni Umanitarie in Sud Sudan, sin dall'inizio si è occupata oltre che della logistica e dei trasporti anche della sicurezza di tutte le organizzazioni che ne facevano parte, e a questo riguardo hanno fatto firmare degli accordi alle Ong che hanno deciso di parteciparvi, molto rigidi, in cui veniva richiesto di attenersi perfettamente ad un codice di condotta che prevedeva tra l'altro di partecipare a dei security meetings prima di partire per qualsiasi missione in Sud Sudan e indicazioni molto chiare sulle aree in cui poter operare e come farlo. Le aree di operazione dell'OLS erano concordate anche col governo di Khartoum e, in quanto tali, è chiaro che alcune aree non erano coperte; l'esistenza dell'OLS ha però permesso attività di carattere umanitario in un contesto che altrimenti sarebbe stato totalmente inaccessibile. Questo a parziale giustificazione di un sistema che se è vero che non era affatto perfetto, ha tuttavia permesso alla macchina degli aiuti di poter lavorare. Tutto ciò che non era incluso nelle aree OLS, era zona sensibile, soprattutto in considerazione delle preoccupazioni che il governo di Khartoum aveva per possibili spie, giornalisti e infiltrazioni. Non tutto il Sud Sudan era aperto alle operazioni, quindi, e questo non solo per ragioni politiche, ma anche per oggettivare condizioni non di sicurezza sul campo. Al momento l'OLS non è più operativo, e perché le Ong operino in Sud Sudan è sufficiente solo la registrazione presso il South Sudan Relief and Rehabilitation Commission (SSRRC) del Governo del Sud Sudan (GoSS). Per quanto riguarda il personale espatriato che lavora in Sud Sudan, basta ottenere un permesso di viaggio dall'SPLM a Nairobi".

Ritengo l'OLS un esempio del fatto che gli operatori umanitari si sono trovati costretti ad adeguarsi e adattarsi alle politiche imposte dalle istituzioni locali, senza pertanto permettere eccezioni alle rigide regole imposte dal contesto politico sudanese. Ma si vedrà più avanti, con l'esperienza del dott. Zucchello del COSV, che spesso l'interdizione per l'accesso ad alcune aree è stata imposta anche in vista di una reale condizione di insicurezza e di pericolo sul campo per le organizzazioni: oltre ai continui bombardamenti da parte del governo, anche le fazioni di guerriglia dei ribelli sud sudanesi hanno avuto un ruolo centrale nella definizione dello scenario di violenza e rischio. Vero è, come sottolineato, che un'operazione come l'OLS è stata anche fortemente strumentalizzata per i costi esorbitanti e per il fatto di essere stata più volte accusata di essere in complotto col governo.

Fino agli accordi di pace del 2005, quindi, ogni Ong che interveniva in Sud Sudan doveva rigorosamente rispettare l'accordo tripartito tra Khartoum, l'OLS e lo SPLA/M. Chi non si atteneva alle rigide imposizioni veniva immediatamente fermato; questo a conferma della rigidità del sistema politico sudanese. Ritengo pertinente a tal proposito riportare l'esperienza di arresto del dott. Meo, del Comitato Collaborazione Medica, che evidenzia come la libertà di movimento per chi interveniva al Sud fosse vincolata e limitata dalle ingerenze politiche degli organi istituzionali sudanesi; infatti è stato arrestato perché è uscito dalle zone previste dall'OLS.

"Noi siamo presenti in Sudan dal 1983, e dal 1991 nelle regioni del Sud, che sono controllate dai movimenti indipendentisti, e che hanno risentito degli effetti distruttivi delle guerre civili. Attualmente operiamo con strutture sanitarie fisse nella regione del Bahr al-Gazal: a Billing nel 1992, ad Adior dal 1994, a Rumbek dal 1999, ad Aliap dal 2001, a Bunagok dal 2003, a Tonj dal 2004. Abbiamo iniziato a Wau con una scuola di assistenza per infermieri. Ma poi è stata chiusa per motivi di sicurezza. Wau infatti è una guarnigione, che è un'isola di governo molto difesa per la sua posizione. Nel 1992 siamo diventati membri dell'OLS: con l'Operation Lifeline Sudan vi era un accordo tripartito che andava rispettato tra governo di Kharoum (GoS), le Nazioni Unite e il movimento degli indipendentisti (SPLA/M). Stabilivano mensilmente le sedi in cui si può intervenire. È l'OLS che ti portava nelle varie aree. Gli aiuti vengono portati dagli aerei, non esistono altri modi per portare soccorsi. Non abbiamo mai avuto rapporti diretti con Khartoum; ma nel 1995 siamo stati espulsi". Ero già a conoscenza del fatto che il CCM fosse stato espulso dall'OLS, perché me lo aveva riferito sua moglie pochi giorni prima al telefono; ma quello che mi interessava sapere era il motivo reale di tale allontanamento e cosa questo aveva comportato.

Il dott. Meo mi ha raccontato che nel 1995 lui e la sua equipe avevano volutamente infranto il divieto di rimanere nelle aree indicate dall'OLS, secondo l'accordo col governo e lo SPLA/M. Hanno deciso di portare soccorso anche a Pariang, poiché era in corso un'epidemia mortale e pertanto volevano aiutare i bisognosi. Tuttavia era piuttosto restio ad entrare nel merito della questione e a fornirmi i particolari della questione che io desideravo conoscere. "Siamo stati arrestati perché quella era una zona proibita, perché era una delle tante zone sensitive dove il governo e lo SPLA/M non volevano la cooperazione internazionale. Il comandante degli indipendentisti ci ha traditi e io e il dottore che era lì con me siamo stati arrestati, siamo stati portati a Khartoum. Sono zone cosiddette sensibili, c'è il petrolio. I divieti dipendono da motivi di sicurezza, oppure da motivi di accordo e di direttive del governo di Khartoum. Nel 1996 siamo stati però riammessi (nell'OLS) grazie anche alla spinta diplomatica dello SPLA/M. Ma in seguito all'espulsione abbiamo dovuto chiudere immediatamente gli ospedali nell'Upper Nile, perché ci hanno bloccati i finanziamenti dall'Unione Europea. È l'OLS che ti portava in Sudan e dava accesso ai voli, ma non potevi sgarrare a quei tempi. Ora è diverso. Dall'accordo del 2005 il governo non dovrebbe più ostracizzare nessuna azione, e nessun intervento. Ci sono stati dei passi avanti dalla pace. Ma la situazione in Sud è tutt'altro che risolta, ci aspettiamo milione di rifugiati dai paesi vicini, ci sono infatti tantissimi profughi che, dopo l'accordo di Nairobi, da Khartoum tornano al Sud".

Per dimostrare ancora una volta l'ingerenza della politica nei soccorsi umanitari riporto l'esperienza di due persone Natalina Sala e Callixte Minani, che hanno assistito ai continui bombardamenti da parte del governo per disincentivare e scoraggiare le Ong presenti e gli aiuti umanitari. Ritengo utile riportare in proposito la loro testimonianza al momento della carestia del 1998: "Già nel 1997 quando eravamo nella zona del Bahr al-Gazal si stava male, Kerubino faceva scappare la gente, la spaventava, uccideva e bruciava case e bestiame. Il 1998 è stato un anno difficile, ancora più difficile per la popolazione: c'era poco raccolto perché non aveva piovuto, e la gente mangiava da delle noci di cocco selvatico che ti avvelena: non c'era altro. Nel 1998, l'anno della piena carestia, non ci sono stati interventi internazionali, nessun aiuto, solo le chiese hanno tamponato l'emergenza del cibo. Il governo del Nord non ha voluto aiutare il Sud: non sono arrivati aiuti".

Il 1998 è stato l'anno in cui il governo sudanese ha dimostrato la sua politica ostruzionista: gli aiuti umanitari non hanno infatti raggiunto le popolazioni bisognose, esponendo pertanto i responsabili ad accuse di violazioni di diritti umani. Del resto, gli aiuti umanitari avrebbero ostacolato le sue strategie: l'obiettivo è sempre stato quello di eliminare la popolazione, non certo di portare aiuto. Nel proseguo del discorso Natalina e Callixte mi hanno raccontato l'esperienza dell'anno 1999. In quegli anni, in cui sono iniziati gli interventi e gli interessi nei confronti del Sud del Sudan, il 1999 è stato l'anno in cui erano terminati i lavori dell'oleodotto tanto atteso dal governo del Nord. "E' stato l'anno in cui hanno cominciato a bruciare e lì ci sono stati moltissimi Nuer che hanno sofferto. Era per il petrolio che hanno cominciato ad interessarsi al Sud, prima no; la gente era disperata, si beveva l'acqua delle pozzanghere. Si stava male. Comunque l'anno 1999 è stato un anno difficilissimo, quando hanno scoperto il petrolio hanno iniziato a bombardare il Sud per distogliere l'attenzione delle Ngo; hanno mandato un gas che era nocivo per la gente. Bombardavano nel niente per terrorizzare e uccidere la gente; volevano spaventare noi, le Ngo, così poi espatriavamo. Ma è stato in proprio in quel momento che abbiamo deciso di rimanere, per non lasciare da sola la popolazione. Il 1999 è stato l'anno più forte perché hanno bombardato, ed lì che abbiamo detto, no, noi non ce ne andiamo, stiamo qui perché altrimenti l'hanno vinta loro e la gente continua a stare peggio. Abbiamo visto aerei umanitari del World Food Programme che davano cibo e, contemporaneamente, persone che venivano uccise dai bombardamenti scagliati da Khartoum, perché non voleva che gli aiuti arrivassero al Sud. Ho visto una donna, in fila per ricevere i rifornimenti che è morta perché colpita da una bomba. Hanno più volte bombardato anche gli ospedali, dove ovviamente c'era gente che stava male e che stava morendo a causa loro".

Ritengo lecito sottolineare ancora una volta, che per semplificare, spesso si addita il governo come unico ente in grado di decidere sulle sorti della popolazione. Sebbene, il suo ruolo sia centrale e determinante più di qualsiasi altro, proprio per la posizione che intende ricoprire, ci sono molti altri fattori ugualmente influenti che concorrono al peggioramento dello scenario di guerra. Anche il Movimento di Liberazione aveva una grande capacità negoziale e un'importante peso in campo politico e diplomatico; innanzitutto è importante ribadire che era ed è un ente assolutamente riconosciuto a livello internazionale. Si è visto dalle parole del dott. Meo che il CCM è stato riammesso nell'OLS grazie anche alla spinta diplomatica dello SPLA/M. Si è già visto come le carestie siano state manipolate anche dal movimento dei ribelli, per attirare i capitali internazionali e per ricevere le risorse necessarie alla continuazione della guerra.

Di seguito le parole del dott. Giorgio Zucchello del COSV, che mi ha comunicato la sua esperienza in merito al rapporto con l'OLS e con lo SPLA/M. "La prima missione si è svolta nel 1994 insieme al responsabile sanitario sudanese dell'SRRA, che era la componente umanitaria di una delle due fazioni, SPLA e SSIM. Siamo arrivati attraverso una rappresentanza a Nairobi e siamo venuti a contatto con quest'organizzazione per intervenire in Sud Sudan: hanno scelto loro (quelli dell'SRRA) ovviamente, le priorità. Siamo andati a Nhial che ora si chiama Unity, che si trova nell'ex Western Upper Nile. L'OLS ci ha dato il volo per intervenire. L'OLS dava il supporto logistico aereo per intervenire in una certa zona, quindi una Ong si doveva iscrivere all'OLS. Come prima spedizione ci ha dato una finestra umanitaria di due o tre giorni; poi ci hanno permesso di estendere in altre aree, e quindi non solo a Nihil. Ci siamo occupati solo del settore sanitario, con una rete di primari health care. Noi non abbiamo mai avuto rapporti diretti con Khartoum. L'OLS garantiva la zona in cui era permesso di intervenire senza che si creassero problemi col governo di Khartoum. Era Khartoum che dava l'ok sulle zone.

L'OLS esiste ancora per la questione di sicurezza, ma non per la negoziazione col governo. Infatti, come lei saprà, è cambiato, dopo la pace del 2005: il Sud si gestisce da sé. Invece il dott. Meo è intervenuto anche in zone non sotto l'ombrello dell'OLS, ed è per quello che è stato arrestato perché quell'area era vietata". Se è vero che il governo ha rigidamente imposto delle aree di intervento, è vero anche che in alcuni casi questo è stato attuato in vista di situazioni di pericolo per le stesse agenzie di intervento che avrebbero dovuto intervenire in aree sotto il completo controllo dello SPLA/M, e quindi alle azioni di violenta guerriglia da parte dei gruppi rivali. Ne è un esempio quello che mi ha raccontato il dott. Zucchello nel proseguo del discorso. "Abbiamo poi avuto problemi con lo SPLA/M ... abbiamo aperto una location tra le due fazioni SPLA/M e SSIM, e tra il 1996 e il 1997 a Nihial Diu, eravamo lì da un anno o due, e hanno bruciato tutto ... i ribelli dello SPLA/M, hanno invaso la zona che era gestita dal SSIM, e hanno distrutto tutto. Abbiamo dovuto ricominciare da capo".

Le situazioni di pericolo causate dalle dinamiche e dalle logiche di guerra non vanno sottovalutate; il governo armava milizie, ma il movimento dei ribelli ha sempre risposto alle azioni guerriglia, incrementando il clima di pericolo e di disordine e contribuendo all'inasprimento della spirale di guerra. La politica di opposizione del governo si rifletteva anche nei divieti, o a veri e propri scoraggiamenti, di accedere nella parte meridionale. Bisognava cancellare le prove che testimoniavano di essere stati al Sud. Mi è stato spiegato infatti che moltissime persone in quegli anni, dovevano nascondere di essere state al Nord, anche se erano riconosciuti dall'esercito di Liberazione del Sud, cioè dallo SPLA. Natalina e Callixte mi hanno raccontato di una ragazza che è stata catturata e portata in treno fino al Nord: "E' stata tenuta in ostaggio dal governo perché era irregolare, perché non aveva il permesso dal Nord. Per riuscire a passare da una regione all'altra del Sudan, dal Sud al Nord, si facevano aiutare dal Kenya: non si facevano stampare il passaporto. In tal modo era facile cancellare le prove di essere stati nelle parte meridionale. Ora per fortuna ci si può spostare liberamente dal Nord al Sud e viceversa; ma prima venivi arrestato".

Nonostante la situazione sia considerevolmente migliorata, le strategie di interferenza di Khartoum, laddove possibili e seppur in maniera minore, si manifestano ancora. Il governo è sempre stato legittimato ad imporsi anche con l'uso della forza per evitare che aiuti e soccorsi intervenissero nelle regioni meridionali; se ora la situazione è migliorata, non significa che si sia risolta: i tentativi intimidatori ci sono ancora. Ecco come si è espresso in proposito Daniele Panzeri: "Il governo di Khartoum utilizza strategicamente il proprio potere per interferire o rallentare le operazioni umanitarie a Sud, ma anche su questo è importante tenere presente che le colpe non sono tutte da un parte. I ritardi nell'implementazione dei progetti, nella realizzazione dei risultati è determinata anche dal GoSS, in gran parte per la sua inesperienza ma anche per gli appetiti che a livello di singoli, la nuova ondata di finanziamento ha generato. Ci sono cose anche molto banali o semplici, come il ritardi nell'ottenimento dei visti di ingresso o dei permessi di lavoro, che non rappresentano nessun tipo di violazione grave sui diritti dei cittadini stranieri che vogliono andare a lavorare in Sudan, ma sono comunque volti a scoraggiarli".

Queste quindi le testimonianze a conferma della politica ostruzionistica e intimidatoria di Khartoum nelle regioni meridionali negli anni Novanta. Tuttavia, si vedrà più avanti che la situazione, sebbene parzialmente migliorata, non è totalmente risolta. Khartoum dopo la sigla della pace si serve di altri mezzi a sua disposizione per rallentare il processo di pace nelle regioni meridionali; oppure basta osservare la tragedia in corso in Darfur per comprendere che le strategie politiche non sono terminate. Le persone con cui ho avuto modo di parlare sono esponenti di Ong che non hanno una forte influenza a livello internazionale: dalle loro parole si nota un'aperta opposizione alle logiche del governo sudanese. Ritengo utile ora evidenziare il ruolo svolto da agenzie internazionali più ampie e più influenti nella realtà politica, che hanno alimentato lo scenario di miseria, senza contribuire a realizzare dei progetti di reale miglioramento a vantaggio della popolazione.

3.3 Le ambiguità degli aiuti umanitari

Un altro problema relativo agli interventi umanitari riguarda gli effetti che essi producono sulle strutture economiche e sociali locali che essi si propongono di migliorare e aiutare. Anche per quanto riguarda la situazione in Sud Sudan, sembra che gli aiuti alimentino un'economia di guerra vantaggiosa per coloro che conducono il conflitto. Ad esempio i cosiddetti "signori della guerra", sia personalità influenti come Kerubino o Garang, che figure di minore risonanza, manipolano le agenzie umanitarie usando i rifornimenti alimentari, anche in situazione di grave carenza alimentare; danno da mangiare alle truppe, oppure utilizzano i fondi per il carburante per rifornire gli aerei o le infrastrutture logistiche per occupare i territori. A conferma dell'imponente militarizzazione attuata in Sudan, troppo spesso, portare cibo equivaleva a fornire potenti strumenti di artiglieria pesante: gli aiuti infatti potevano essere facilmente scambiati con armi e munizioni.

In Sudan, come in molti altri paesi, che necessitano di aiuto internazionale, poiché versano in situazione estremamente precarie, si ritrova ormai, una sorta di "interferenza" da parte degli agenti umanitari in quelle che sono le logiche politiche dei paesi in difficoltà. L'aiuto è diventato, parte dei meccanismi di oppressione e di violenza che sono all'origine degli stessi conflitti e della stessa politica discriminatoria del governo. Inoltre, ci sono casi in cui gli aiuti corrompono il già precario tessuto sociale distruggendo la debole economia locale. L'opinione di Natalina Sala e di suo marito è pertinente in proposito e conferma la necessità del potenziamento delle capacità locali, senza continue ingerenze e interferenze di attori esterni, che non propongono un reale miglioramento della situazione sud sudanese, ma che troppo spesso seguono le proprie mire economiche.

"Il problema di questo paese è che tutto viene portato dall'esterno. La zona dell'Equatoria, ad esempio, potrebbe produrre ed essere un gran granaio; dovrebbe non ricevere dall'esterno e invece funziona che tutto arriva da altre parti, dal Kenya, ad esempio. Oppure il World Food Programme per business non vuole che il Sudan produca da sé, perché? Perché vuole portare lì il suo prodotto e quindi guadagnarci. Ognuno segue i suoi interessi, e non si pensa alla popolazione. Questi paesi vengono usati per ricevere soldi. Non si insegna alla popolazione la capacity building". In generale mi hanno spiegato che, per quella che era stata la loro esperienza, degli aiuti umanitari c'è sempre stato un grande spreco: "I soldi non vanno mai a chi ha bisogno".

Spesso la struttura e la macchina dei rifornimenti contribuiscono alla creazione di un mercato parallelo, controllato il più delle volte dalle potenze occidentali, ma non solo. In tal modo si contribuisce alla dipendenza del sistema economico: i paesi, abituati a ricevere sostegno, diventano agenti passivi e dipendenti dall'esterno. Ovviamente la contropartita di tutto questo non è un intento umanitario puro e semplice, volto all'aiuto della popolazione, ma un progressivo arricchimento del sistema economico delle potenze internazionali. Il dovere e la responsabilità non si concentrano soltanto nell'alleviare le sofferenze o nelle semplici politiche di intervento; le agenzie umanitarie si pongono il problema del contesto entro cui si trovano ad operare e pertanto le questioni politiche sono parte integrante ed ineliminabile dei conflitti in corso e delle modalità di azione umanitaria.

La capacity building si fonda su aspetti diversi, vale a dire sul tentativo di instaurare nelle popolazioni locali un grado di conoscenza e autonomia tale da permettere loro di riuscire poi a gestirsi e ad andare avanti. "Ad esempio AMREF - prosegue Natalina - sta facendo una scuola nel Sud, ha formato queste figure, i clinical officer, che non sono dei veri medici, ma sono figure che possono sostituirli. Nel Sud non c'è ancora un sistema unico che funziona per tutte le Ngo. È ancora tutto da fare. Ad esempio, noi, nel 2001, a Nairobi, abbiamo creato un sistema sanitario, grazie a dei contatti con l'UNICEF e Medici Senza Frontiere, si è iniziato un progetto di coordinamento tra il governo e l'Organizzazione Mondiale della Sanità per il passaggio dei farmaci necessari per la cura della lebbra e della tubercolosi. Questo è un sistema, poi abbiamo creato degli ospedaletti. Abbiamo 15 progetti sanitari e ogni progetto è integrato con altri progetti. Ed ora stiamo iniziando dei progetti per creare delle attività così che i sud sudanesi si possano sostenere da se". Mi sembra che i metodi di Natalina e Callixte, del CCM e del COSV, possano essere considerati "neutrali" e utili per il rafforzamento e per il benessere della popolazione civile, prima di tutto.

Il dott. Giorgio Zucchello del COSV sostiene la necessità di creare una struttura "unitaria" che sia in un certo senso standard per tutte le Ong che intervengono in Sud Sudan; solo così potrebbe essere possibile un accrescimento delle potenzialità locali. "Oggi, dopo l'accordo del 2005, si sta cercando di lavorare con il governo del Sud, di Juba. Tra il 20 e il 25 gennaio 2007 si terrà a Juba una riunione con la nuova struttura del Ministro della Sanità per iniziare delle politiche sanitarie; prima le Ong intervenivano secondo la propria testa e i propri metodi, non c'è mai stato al Sud un sistema unico per tutte le Ong. Ora cominciamo a standardizzare; si sta cercando di creare una struttura standard. Ad esempio, stabilire quale dev'essere il salario di un infermiere e fare in modo che sia sempre quello; vedere cos'è e come deve essere la struttura di un ospedale ... tutte queste cose qui".

Ho riportato finora delle prospettive e delle opinioni di chi si trovava in nelle regioni meridionali del Sudan negli anni Novanta e che pertanto, tramite la propria esperienza, mi ha aiutato a delineare lo scenario degli aiuti umanitari nel Sud nel periodo considerato. In alcuni casi mi hanno riportato i loro progetti in corso, volti non all'arricchimento personale, ma ad un reale desiderio di veder migliorare e di contribuire al potenziamento delle risorse locali per favorire una forma di economia propria priva di ingerenze straniere. A tale proposito, ritengo pertinente riportare il progetto che AMREF sta portando avanti relativo alla costruzione di una scuola a Maridi per clinical officer, basato sul potenziamento delle capacità locali e sulla capacity building. Mi sembra che tale strategia possa rivelarsi utile per favorire un reale miglioramento locale, senza creare una sorta di dipendenza o di svilimento delle potenzialità locali.

Ho parlato con Paola Magni che mi ha subito chiarito le sue competenze. Si occupa di Sud Sudan da poco tempo e pertanto non era assolutamente a conoscenza della situazione degli anni Novanta. Si è pertanto dimostrata disponibile a raccontarmi l'attuale progetto in corso di AMREF: si serve di personale locale e stilla il metodo della capacity building. "Noi ora abbiamo questo progetto a Maridi, e lavoriamo in un'area di intervento ben specifica, l'area sanitaria, per la formazione di assistenti medici, i clinical officer, che è una figura intermedia tra il medico e l'infermiere, sono figure molto rilevanti laddove si parla di ricostruzione. Noi formiamo questi studenti, abbiamo questa scuola, che è governativa; abbiamo collaborato nella costruzione delle infrastrutture, nella formazione sia con il personale sia con i corsi veri e propri, attraverso i quali gli studenti diventano clinical officer; in questo modo stiamo cercando di rafforzare la struttura del personale, facciamo molta capacity building in questo caso, stiamo dando una mano al governo per facilitare la ricostruzione del personale, perché ovviamente il personale è alla base ancora prima forse della documentazione per portare avanti i programmi sanitari.

Quindi, per fare questo e ogni attività che si inserisce nei progetti di cooperazione, è sempre una forma di accordo col governo, col governo del Sud Sudan, io ti parlo sempre del periodo post accordo di pace 2005, post sigla della pace, quindi ora la collaborazione con la parte governativa è pressoché totale. Quello che noi facciamo è il rafforzamento della capacità governativa di deliver tutto ciò che riguarda la struttura sanitaria, che molto di quello che fanno le Ong sul campo, cioè rafforzamento delle capacità governative, la capacity building. Noi quindi lavoriamo insieme al governo; AMREF, che si occupa in particolar modo dell'ambito sanitario e del rafforzamento delle strutture locali, in questo caso in Sud Sudan, sta cercando di supportare il governo locale nella creazione di ... cioè non è il fatto di arrivare e di mettere quattro ospedali, ma bisogna rafforzare le capacità locali. Il governo del Sud Sudan sta scrivendo le linee guida della formazione sanitaria, cioè nel momento in cui tu intraprendi il percorso che ti porta a diventare infermiera esistono a livello governativo, ad esempio anche qui in Italia, dei moduli, una cosa a livello governativo, statale, se no non lo diventi ... Invece, in Sud Sudan non esiste questa cosa, non esistono iter attraverso la formazione del personale che diventa la forza del terreno. Non esiste, AMREF sta aiutando il governo a fare questo".

L'analisi del contesto e degli scontri che determinano la necessità di intervento sono determinanti per la definizione delle strategie e delle modalità di intervento delle diverse organizzazioni umanitarie. Gli esempi qui riportati testimoniano innanzitutto dei tentativi di rafforzamento a partire dalle politiche locali e l'utilizzo di personale locale per fare in modo che le strutture creare appunto non vengano imposte dall'alto, creando una dipendenza dalle forme economiche, politiche e sociali dei paesi "donatori". Mi preme anche sottolineare che la mia ricerca non si è rivolta all'analisi delle modalità di intervento; non sono a conoscenza dei possibili introiti e dei ritorni che, AMREF, in questo caso, o le altre organizzazioni con cui sono entrata in contatto, ricevono. Ho voluto riportare queste esperienze per dare conferma alla mia impostazione di partenza, secondo cui, ogni tipo di intervento si inserisce nelle questioni e nel contesto politico di base da cui prendono avvio poi le logiche di intervento. Dopo il 2005, c'è un maggior tentativo cooperativo da parte del governo del Sud, si sta tentando di costruire; non sono organizzazioni che creano dipendenza o forme di mercati paralleli, volte a scoraggiare la macchina locale sudanese; le strutture locali sono infatti formate da personale sudanese, e pertanto non esiste una sorta di intento paternalistico dall'alto.

3.4 Le conseguenze delle guerre in Sud Sudan

Dopo aver delineato lo scenario relativo agli aiuti umanitari, degli anni Novanta in Sud Sudan, vorrei evidenziare la situazione in cui versano al momento le regioni meridionali; quali sono cioè le conseguenze che le logiche di guerra e la strumentalizzazione degli aiuti hanno prodotto nella parte meridionale del paese. Le informazioni riportate in questo paragrafo derivano da quanto mi è stato riferito dalle persone che si trovavano in Sud Sudan negli anni del conflitto, e che tuttora agiscono nelle regioni meridionali insieme alle Ong di cui fanno parte. La precarietà delle condizioni attuali è ovviamente conseguenza dei lunghi anni di guerre e soprattutto delle logiche politiche che hanno contribuito alla continuazione dei conflitti. Si è già analizzato come la guerra abbia continuato ad autoriprodursi e ad alimentarsi, traendo forza da un circolo vizioso, distruttivo per i civili, e remunerativo per altri attori coinvolti, che né le accuse di violazione dei diritti umani, né la denuncia da parte delle compagnie internazionali, né i vari tentativi di pace sono riusciti a frenare.

Ora la situazione tra Nord e Sud dovrebbe essere sulla via della stabilizzazione: dall'accordo di pace del 9 gennaio 2005, di Nairobi, il Comprensive Peace Agreement, il cosiddetto CPA, che ha segnato la fine alla lunga guerra tra le due parti del paese, alcuni passi in avanti, seppur lenti, dovrebbero verificarsi. È evidente che non basta la sigla della pace per porre fine a lunghi anni di guerra; soprattutto in considerazione del fatto che queste guerre sono state il prodotto di logiche e strategie mosse dalle stesse istituzioni politiche sudanesi. Occorre quindi che cambi quella politica di base che ha permesso che la guerra si perpetuasse per anni. Tuttavia questa politica discriminatoria, che si è incentrata sulla strumentalizzazione degli aiuti e sull'uso della violenza, non sembra essersi placata. Al Sud la condizione è parzialmente migliorata anche se le questioni che hanno portato alle catastrofi sud sudanesi ora si ripresentano in Darfur: il governo quindi non ha mutato le proprie strategie e continua a seminare panico e distruzione con i janjawid, e sta ancora ostacolando l'arrivo di soccorsi umanitari.

In questo paragrafo, cercherò di delineare la situazione in cui versano le popolazioni nel periodo immediatamente successivo agli accordi di pace, e di definire in che regioni e in che misura si ritrovano ancora le logiche governative che hanno portato il paese in questo stato precario. Cercherò di analizzare se la strategia del governo di fomentare gli scontri locali, di indebolire le popolazioni e di strumentalizzare gli aiuti umanitari è davvero terminata, o se si ripropone in diverso modo. Ho voluto ricostruire il percorso che mi sono proposta di analizzare: mi sono chiesta se le dinamiche alla base del conflitto tra Nuer e Dinka dopo gli accordi di pace del 1998, 1999 il 2000, rispettivamente a Lokichokkio, a Wunlit e a Liliir, sono realmente mutate e quali sono le condizioni al momento. Da quanto emerso dai racconti delle persone con cui sono entrata in contatto, la situazione è tutt'altro che risolta, e molto resta ancora da fare perché la crisi si stabilizzi, all'interno delle regioni meridionali e anche tra gli stessi gruppi al loro interno. Tra i vari gruppi infatti la situazione non si è ancora potuta risolvere: le diatribe e gli scontri armati tra le diverse fazioni di guerriglia, come tra i Nuer e i Dinka, al loro interno, permangono.

Gli scontri armati sono ancora presenti; le condizioni sono ancora gravi e la pace è minacciata da frequenti focolai di guerriglia tra gruppi diversi ma anche e soprattutto tra gli stessi gruppi al loro interno, anche tra gli stessi Nuer. Ecco come si è espresso Luca Zampetti, che si occupa di Sudan dal 2002 ed è stato uno dei rappresentanti del governo italiano ai colloqui di pace Nord-Sud dal 2002 al 2005, ed ha anche partecipato al negoziato di pace per il Darfur ad Abuja per conto delle Nazioni Unite: "Per quanto riguarda i Nuer e i Dinka, non si scontrano più come ai primi anni Novanta, ma la situazione non è migliorata, c'è il conflitto armato, ci sono ancora due forti correnti e sono ancora in contrasto l'una con l'altra, come esistono anche dei gruppi che non sono allineati né con l'uno né con l'altro. Non è per forza un'affiliazione etnica, ma è facile usarla per fomentarli; i problemi tra di loro ci sono, ancora anche se non si scontrano più come prima. Ci sono milizie prevalentemente Nuer che si scontrano con lo SPLA. Inoltre, le dispute per il pascolo o le razzie di bestiame si svolgono con AK47 anziché con le lance. E ovviamente vanno avanti, la diffusione di armi in tutto il Sud è impressionante; la militarizzazione ha avuto un ruolo incredibile nel conflitto e continua ad averlo nella società del post conflitto; le armi sono così diffuse che si parla di un fucile pro capite, contando tutti, donne e bambini compresi".

I fattori di ordine politico che avevano dato vita allo scoppio si sono pertanto placati; infatti Machar nel 2002 è ritornato a far parte dello SPLA/M e si è riconciliato con Garang. Tuttavia, la precarietà e la situazione problematica dell'intero paese porta i differenti gruppi a scontrarsi per la spartizione delle risorse che sono ancora precarie. Le divergenze per fattori di tipo economico per la spartizione di acqua e altre risorse permangono; anzi, a causa della guerra sono diventate sempre più precarie. A segno che, se gli attori coinvolti non strumentalizzano le diatribe e non accentuano le caratteristiche di scontro, dei passi in avanti ci possono essere, ritengo interessante riportare quanto mi è stato raccontato da Natalina e Callixte; essi infatti sono riusciti in un approccio di collaborazione tra le due popolazioni. Ecco cosa hanno detto: "Nel 2004, abbiamo intrapreso questo progetto con la Caritas, con le donne Dinka e Nuer; prima erano divisi in due classi distinti perché sai non sempre si possono vedere, poi sono state unite. E nel 2005 è iniziato questo progetto in cui fanno il sapone, le donne, con un olio di un frutto di un albero, così riescono a mantenersi. Nonostante la pace, le inimicizie rimangono, ma si riescono a portare avanti questi progetti con dei piccoli lavoretti: sono lavori che fanno insieme i Nuer e i Dinka". Ho chiesto anche al dott. Giorgio Zucchello quale fosse ora la situazione al Sud, e in che relazioni si trovano i Nuer e i Dinka dopo il conflitto.

"Abbiamo ancora difficoltà nelle zone in cui operiamo, il livello di sicurezza è peggiorato. Si sparano ancora e anche tra Nuer, non solo contro i Dinka. La situazione non è tranquilla. Dove stiamo intervenendo il livello è quattro o tre ... che significa che è grave, molto grave. Siamo pertanto costretti ad evacuare e andiamo avanti grazie al personale locale. Oggi i problemi ci sono ancora, si sparano tra Nuer. Ma i problemi tra le popolazioni non sono razziali o etnici, e non vi erano questo tipo di problemi neanche ai tempi della scissione del Movimento di Liberazione. Le diatribe erano incentrate sul controllo dei pascoli, sulla spartizione delle terre o sulle fonti idriche". Il fronte di conflitto sembra essersi spostato: le azioni di guerriglia attualmente sono di tipo intraetnico piuttosto che interetnico come negli anni Novanta. Anche se ritengo che l'etnicità alla base di tali scontri è ancora utilizzata come uno strumento di guerra, non è certo la causa dei conflitti. Il mosaico variegato del Sud continua ad essere gestito in maniera non adeguata, contribuendo ad alimentare la spirale di guerra.

Dei segnali di positivi mi sono stati segnalati anche da Daniele Panzeri: "La situazione attuale è piuttosto incerta. Giungono notizie di allineamento di truppe del Nord sui confini col Sud Sudan, segnali di nervosismo da parte dell'amministrazione del Sud. Frustrazioni da parte della popolazione locale, che, a due anni di distanza dalla firma della pace, non sta ancora vedendo miglioramenti sostanziali nella loro vita di tutti i giorni, scontri interetnici che, solo marginalmente sono tra Dinka e Nuer, ma molto più frequentemente tra gruppi Dinka o Nuer al loro interno. Ma da questo fenomeno sono coinvolti anche altri gruppi culturali. È inutile nascondere che ci sono segnali di stanchezza e pessimismo sulla situazione e il futuro del paese però anche alcuni segnali positivi e a tale riguardo ti mando in allegato un articolo apparso sul sito dell'agenzia MISNA di qualche giorno fa".

Tale articolo riporta un accordo di pace che ha posto fine a scontri tra i diversi gruppi locali e che pertanto permette di sperare in un futuro privo di ulteriori divisioni; l'accordo è stato permesso anche grazie al ruolo svolto dal NSCC, New Sudan Council of Churces, un organismo ecumenico che ha permesso anche la le iniziative di pace tra Nuer e Dinka a Lokkichokio e a Wunlit. La situazione e gli scontri inter e intraetnici permangono; tuttavia non sono gli unici esempi che minacciano il consolidamento della pace. Le logiche di Khartoum non sono mutate, ma si sono "spostate": utilizza cioè quelli che sono gli strumenti in suo potere, come il ritardo nella realizzazione delle norme relative al CPA, per allontanare le possibilità per una concretizzazione di uno scenario di pace. Per quanto riguarda l'accesso degli aiuti umanitari nelle regioni meridionali, la situazione sembra notevolmente migliorata, e questo sembra un fatto oggettivo; i voli sono ormai permessi e se ci sono dei problemi, non è più a causa di Khartoum. Relativamente alla situazione post sigla della pace 2005, ecco come si è espresso Luca Zampetti in proposito:

"Per quanto riguarda gli aiuti al Sud, l'OLS non esiste più, sulla carta non c'è più. Alcune strutture dell'organizzazione sono state mantenute, era un accordo tripartito tra lo SPLA/M, Khartoum e le Nazioni Unite. Al Sud i voli ci sono, non c'è più bisogno di trattare gli accessi; Khartoum non ha più modo di intervenire almeno in questo. Da un punto di vista dell'intervento umanitario la situazione è molto migliorata, il World Food Programme nel 2005 portava ancora l'80% del cibo con aerei, ora è il contrario, solo il 20% va in volo, quindi miglior accesso via terra, aria ed ora anche con la navigazione sul Nilo. Ci sono però ancora problemi di alcune sacche dovuti alle milizie non allineate, gli "other armed groups" per usare una terminologia del peace process, soprattutto nelle aree petrolifere (e cioè nell'Upper Nile nell'Unity e dintorni) e per i ribelli dell' LRA (Lord Resistance Army, Nord Uganda) che è ora presente sia in eastern che in western Equatoria. Si può dire che il legame col governo è più nascosto. Ma ci sono elementi per poter dire che l'LRA è ancora in qualche modo favorito, anche se non sostenuto, da alcune parti del governo del Nord. La situazione è migliorata, anche se occorre relativizzare alla realtà sud sudanese. L'accesso è un miglioramento drastico, commerci, movimento di persone, ritorni di rifugiati. Non ci sono infrastrutture, luce e acqua ... zero. In Sud Sudan non bisogna ricostruire, bisogna costruire; ora si sta facendo qualcosa, ma come diceva il "buon" Garang. La pace ha aperto il Sud all'accesso umanitario per tutte le aree, gli scontri, sebbene gravi, sono localizzati, i servizi sono ancora inesistenti, però ci sono grossi progressi in educazione e sanità".

Dei passi avanti sotto questo punto di vista sembrano allora evidenti: tuttavia soltanto nella regione meridionale. A conferma di quanto riportato nei paragrafi precedenti, la situazione globale stenta a risolversi a causa delle continue ingerenze e politiche discriminatorie di Khartoum: al Sud esistono ancora dei problemi, e la tragedia in corso al momento in Darfur minaccia il consolidamento della pace. Vorrei riportare le parole di Asha El-Karib 25, un'attivista dei diritti umani e una ricercatrice delle questioni di genere. Lavora per alcune Ong ed è impegnata in particolare per le organizzazioni di donne in Sudan. È rappresentante di Acord (una coalizione di Ong africane) per il Sudan.

"Il CPA ha fermato la guerra nel Sud. Questo è stato un grande indiscutibile importante risultato. Nel Sud non ci si uccide più l'un l'altro a causa della guerra. Come rappresentante della società civile, io sto ancora attendendo segnali che dimostrino che sono giunti quei cambiamenti attesi nello spirito del CPA, non sto parlando dei cambiamenti tecnici e istituzionali, che sono evidenti, ma di mutamenti del comportamento e dell'approccio delle istituzioni. Gli antichi modi di comportarsi, basati sul sospetto reciproco, sulla mancanza di fiducia e sull'assoluta trasparenza e responsabilità. Vivo a Khartoum, ma viaggio spesso nel Sud, ed è proprio nel Sud che si può constatare l'assoluta mancanza di mutamenti significativi nella vita quotidiana. In particolare per quello che riguarda i servizi di base come la scuola e la sanità. Poco tempo fa ero nelle aree rurali attorno a Juba, a incontrare gruppi di donne. Mi dicevano: "Sì ascoltiamo la radio, abbiamo sentito della pace formata, ci siamo anche rese conto che i combattimenti sono terminati. Però continuiamo a soffrire, ogni giorno, nella stessi identica maniera in cui soffrivamo prima. Tirare avanti è altrettanto duro. Non abbiamo acqua potabile. Dobbiamo andare fino a Juba, a piedi per vendere qualcosa come un po' di manghi, per racimolare un minimo di soldi. Che pace è mai questa? In Sudan non c'è più la guerra, ma non c'è ancora la pace. La pace in termini di sicurezza di una vita migliore non c'è ancora. E nemmeno si vedono i segni che essa possa giungere in tempi brevi.

Non si tratta di pazientare un mese o due. Inoltre nel Sud quasi nessuno conosce esattamente cosa sia questo CPA, come deve venire messo in pratica quando e dove. Inoltre molti gruppi hanno ancora le armi con sé. Ci sono già fazioni che soffiano sul fuoco, si sono registrati incidenti, non si tratta di guerra ma di segnali negativi. Alcuni di questi gruppi o fazioni inoltre non sono politicamente rappresentati a Khartoum, quindi si sentono doppiamente esclusi dal CPA. Inoltre i membri dello SPLA che hanno una posizione di potere devono forse cambiare atteggiamento, per mostrare a tutti i sudanesi che non sono lì solo per tornaconto personale. Io credo nella solidarietà internazionale. In Sudan la maggior parte della comunità internazionale ha cercato di dare aiuti di emergenza, negli ultimi anni, in Darfur".

Ancora una volta: non sono i risultati effettivi e pratici che preoccupano; quello che occorre cambiare è l'atteggiamento del governo e degli organi politici istituzionali che ora come in passato hanno contribuito a creare lo scenario attuale. Questa logica si ripresenta nella regione del Darfur: gli aiuti vengono ancora ostacolati, pertanto non è cambiata né la strategia, né l'intento del governo di appropriarsi delle risorse delle terre delle regioni sudanesi. Ecco come ha continuato Luca Zampetti:

"È in Darfur che è ora in corso una vera e propria crisi a livello umanitario, e Kahrtoum nega l'accesso ad alcune aree. Al Sud c'è un migliore accesso più o meno ovunque; se non arrivano, non è più a causa del governo. Ora almeno al Sud le catastrofi del 1998 non si ripetono. Ma sta succedendo lo stesso in Darfur. Il Darfur è una vera e propria tragedia, che merita tutta l'attenzione che ha, anzi, ne meriterebbe ovviamente di più, meriterebbe una soluzione. Detto questo però, è attualmente strumentalizzato dal governo per tenere tutta la comunità internazionale in ostaggio. Il governo sa troppo bene attuare il dividi et impera anche con la comunità internazionale. La comunità internazionale quindi è completamente votata al Darfur ... con i risultati che osservi. Ci sono però degli incoraggianti segnali di ripresa dell'interesse del il Sud. Almeno ora al Sud puoi andare ovunque con voli commerciali se vuoi, o meglio lo si faceva anche prima ma a rischio di prigione, come è successo al dott. Meo di CCM o di essere abbattuti. Si riesce ad andare tranquillamente al Nord, volando, voli nazionali senza bisogno di mostrare passaporto a Khartoum. Su questo almeno grossi passi avanti. Invece per strada è più difficile: non ci sono strade che congiungono Nord-Sud. Il fronte si è spostato, il governo ora può ritardare i trasferimenti delle oil revenues al GOSS, o ritardare l'implementazione del CPA come sta facendo ad esempio per il censimento. Dipende molto da come lo SPLM riesce a "giocare" a Nord. Ancora può accadere qualcosa di positivo. Diciamo che il GoSS è qui, stanno lavorando, ma se si riesce ad arrivare in pace al referendum è già bene ... parlo del referendum del 2011".

Infatti è stato stabilito che il Sud gestirà 6 anni di autogoverno, cui seguirà un referendum per la sua indipendenza; la Sharia sarà imposta solo nella parte settentrionale, ad esclusione di Khartoum e non sarà applicabile ai non musulmani; le regioni di Abyei, Nuba Mountains e Blue Nile avranno uno status amministrativo speciale per 6 anni; i proventi del petrolio saranno divisi equamente; nel governo centrale ci sarà una ripartizione di potere pari al 70% per gli arabi islamici ed il 30% per gli africani cristiano-animisti, mentre nelle 3 province contese il rapporto sarà di 55% per il governo centrale e 45% per il governo del sud.

Continua ad esserci il tentativo di monopolizzare l'accesso economico e di impadronirsi delle regioni; la logica di guerra continua a ripresentarsi e riproporsi in ogni ambito; le solite minoranze sembrano volere la continuazione della guerra: il fronte si è spostato, come ha sottolineato Luca Zampetti, e proprio per questo le prospettive future non sono incoraggianti. Ritengo, da quanto mi è stato detto, che le motivazioni che hanno prodotto e alimentato le continue guerre sudanesi, non sembrano scomparire e non cessano di alimentare i desideri economici e le ambizioni politiche. Continua ad essere presente un'elite che sfrutta le risorse del paese, che controlla l'apparato dello stato e impone politiche per il soddisfacimento dei propri interessi. Alle popolazioni continua a venire negato il diritto di decidere delle loro ricchezze e di partecipare agli affari del proprio paese.

Come ha sottolineato il dott. Meo: "La pace risulta più solida di quanto non ci aspettassimo: c'è una lenta e lieve ripresa, ma c'è. Ora gli aiuti arrivano. Però ci sono sempre dei focolai interetnici che esplodono in qualsiasi momento e rappresentano dei veri pericoli per la pace; ma di questa pace poi non è soddisfatta una gran parte dei dirigenti, cioè dell'elite militare". Infatti, nonostante i propositi per l'implementazione della decentralizzazione e della federazione e per una equa redistribuzione del potere e della ricchezza, la dominazione e l'egemonia della solita minoranza si è accresciuta e questo grazie anche alla continuazione dei conflitti. Il dott. Giuseppe Meo di CCM, sostiene l'esistenza di segnali positivi, certamente da non sottovalutare, ma anche dei segni di peggioramento derivanti dall'arricchimento di una piccola minoranza a scapito della popolazione: "C'è un processo che nonostante le mille difficoltà ... la morte di Garang subito dopo, in un incidente aereo (30 luglio 2005, presso i confini con il Nord Uganda), però anche il fatto che è stato eletto presidente del Sud Sudan un soldato, il numero due, Salva Kiir, che è un vero militare, non dotato della preparazione politica e militare che aveva Machar, che era laureato, però questo uomo è riuscito a mantenere abbastanza unito il movimento più di quello che si temeva, anche se al suo interno ha una grossa opposizione, sta di fatto che il Paese risulta più solido e i segni di un ,seppur lento, progresso ci sono. Ci sono anche dei segni di deteriori, l'inflazione, anche il fatto dell'inflazione bestiale: pernottare in una tenda a Juba costa 100 dollari. Però ci sono stati dei segni di progresso, dopo la pace, ci sono stati".

In conseguenza del persistere di questa struttura la maggioranza della popolazione vive ancora nella povertà, nella malattia e nella deprivazione; ha conosciuto soltanto una realtà che è quella della guerra, delle carestie e delle epidemie, soprattutto nelle aree rurali. Queste sono tutti fattori che per anni hanno alimentato la guerra e che ancora non sembrano scomparire. A questo punto ho chiesto a Luca Zampetti, in quanto competente riguardo alla situazione in Darfur, se la logica che muove il governo fosse la stessa di quella che si ritrova nelle regione meridionale. "In linee generali sì, anche se è un po' più complicato di così, il target non è mai stata la popolazione, ma l'eventuale sostegno della popolazione alla fazione contraria. So che sembra un sofismo ma è importante. Diciamo che a grandi linee sì, la logica è la stessa; in Darfur negano i voli, i permessi radio e i visti. La logica è il dividi et impera. E si paga per alleanze che purtroppo qui sono a buon mercato".

Da queste parole quindi si vede che le logiche alla base delle strategie economiche e di potere che hanno mosso le guerre sudanesi non si sono affatto placate. Tutt'altro, i ritardi nella realizzazione del CPA sono un segno che la logica delle istituzioni politiche sudanesi persiste e si ripropone in ambiti e contesti diversi; il governo si serve degli strumenti che possiede per continuare la sua logica. La tragedia in corso in Darfur sembra non trovare soluzione proprio perché gli interessi personalistici ancora una volta precedono la tutela dei diritti della popolazione. Ritengo che i segnali di ritardo dell'implementazione del CPA ripropongano la solita politica del governo sudanese: se prima si poteva servire delle interdizioni di voli per aiuti umanitari in Sud Sudan, ora la utilizza in Darfur; e ancora, si sta servendo di altri mezzi che ha a disposizione per danneggiare le popolazioni, ritardando l'effettiva concretizzazione della pace. Quello che rende problematico la tutela dei diritti dei civili sono le continue strategie politiche che si ritrovano su diversi fronti: le milizie che alimentano la guerra, e che sono ancora in parte presenti; i conflitti locali vengono manipolati, e i voli umanitari ostacolati; la popolazione continua ad essere vittima delle spinte economiche e politiche che rendono difficoltoso il delinearsi della pace.



Conclusioni .: su :.

In queste pagine conclusive vorrei cercare di ricostruire il percorso che ho sviluppato per sottolineare gli aspetti che ho affrontato, e per tentare di capire quali elementi meriterebbero di essere affrontati per una prospettiva diversa per il Sudan. Innanzitutto, ho voluto analizzare i conflitti che sconvolgono il paese africano, tentando di spiegare la violenza e le forme estreme che essa assume, con l'analisi del significato che le viene attribuito dal contesto culturale; infatti, soltanto considerando quest'ultimo, gli elementi alla base dei conflitti possono essere adeguatamente compresi ed interpretati. Lo studio della cultura in quanto tale infatti non porta a comprendere le reali motivazioni che spingono i cambiamenti, così come per analizzare adeguatamente il fenomeno etnico occorre prendere in considerazione il passato e la funzione che assumono i simboli evocatori alla base del senso di appartenenza "etnica". L'analisi della guerra tra Nuer e Dinka trova una sua giustificazione e spiegazione in riferimento ai processi di costruzione e manipolazione politica, mossi dall'esterno, che hanno contribuito ad una radicalizzazione delle tradizionali forme identitarie e dei rapporti tra i due gruppi.

Ho cercato di spiegare, in generale, come i conflitti sudanesi siano mossi da una complessità di elementi, tutti interrelati tra loro, ed ugualmente influenti, che hanno portato alla definizione di un tale scenario; ho voluto porre in evidenza come le "costruzioni etniche", i fattori sociali, culturali, economici e le problematiche storico-politiche, siano elementi fondamentali per comprendere a fondo le dinamiche che continuano a muovere i conflitti in Sudan. Occorre ad esempio tenere in considerazione che la frammentazione e le diverse forme di "etnicità" non sono altro che delle "invenzioni", e divengono spesso gli strumenti più efficaci per fomentare i conflitti; allo stesso modo, vanno tenuti in considerazione la complessa diversità che caratterizza il paese, la gestione che di essa è stata fatta, così come i meccanismi per la continuazione della guerra, utilizzati da chi da questo stato conflittuale ne ha sempre ricavato guadagno.

Infatti, lo sfruttamento del petrolio e delle ricchezze da parte del governo di Khartoum e delle compagnie internazionali, sono stati analizzati come elementi per alimentare lo scenario di guerra e aumentare la spirale di violenza. Così come non tutti coloro che vi sono coinvolti hanno da perdere da una situazione di conflitto, non tutti hanno da guadagnare da un ritorno alla "pace". Si è infatti affrontato nel terzo capitolo come la spirale di guerra e violenza abbia seguito un circolo vizioso che l'ha portata ad autoriprodursi e a essere incentivata e promossa da quei gruppi che da essa hanno sempre ricevuto guadagno. Quello che vorrei evidenziare, alla luce delle considerazioni fatte, riguarda la definizione di un possibile scenario futuro, in cui tutte le diversità presenti in Sudan possano vedere legittimata la propria identità, e quindi, contemporaneamente possa affermarsi una disposizione all'ascolto e all'accettazione della diversità. In Sudan sembra permanere la questione relativa al governo centralizzatore, alle periferie, da sempre marginalizzate; il problema di fondo è sempre stato legato al ruolo di Khartoum e questo problema non sembra risolversi: il centro ha sistematicamente emarginato e marginalizzato le differenti anime presenti all'interno del paese, tentando di omogeneizzare la complessità del contesto linguistico, etnico e culturale presente.

Ancora oggi si riscontra una grave difficoltà per le minoranze di qualsiasi regione sudanese di poter esprimere e decidere delle questioni locali; questi differenti gruppi non sono mai stati presi in considerazione relativamente alle decisioni locali che li riguardavano. Si dovrebbe tentare un approccio che includa tutto il Sudan, colto nella sua complessità e diversità: le difficoltà e le tendenze a reprimere le diverse anime del paese sono gli elementi di base che hanno contribuito a delineare la precaria situazione attuale. Il problema di fondo, in seguito a tali considerazioni, riguarda il fatto che non è mai stato affrontato con un approccio olistico, vale a dire un approccio che si proponesse di considerare interamente tutto il paese, colto nella sua interezza e complessità.

Secondo Durkheim la società deve essere studiata come un tutto, e questo tutto non deve essere visto come la mera somma delle sue parti; la società infatti non è da considerarsi come un semplice aggregato di individui. Allo stesso in modo, in Sudan, occorre considerare le varie regioni e le differenti realtà secondo un approccio globale, unitario, non regionale o locale come è sempre stato fatto. Anche quando si è tentato di stabilire delle forme di accordo, queste intese erano sempre locali, riguardanti cioè una forma di pace tra la regione in questione e il governo centrale. Ad esempio è stato firmato il CPA, tra il governo e lo SPLA/M del Sud, si è giunti ad un'intesa con il DPA, per ciò che concerne il Darfur. Tuttavia, queste questioni e queste regioni non sono qualcosa di diverso dall'intero Sudan. Come ha detto Mudawi Ibrahim Adam: "Di fatto il problema è che le persone del Sud non possono parlare del problema di tutto il paese, ma solo del problema locale; solo a Khartoum spetta il compito di discutere dei problemi generali e quindi, quando, ad esempio i sud sudanesi, cercano di condividere il problema con Khartoum, il governo li respinge perché essi possono essere rappresentativi solo della propria regione di appartenenza, non di tutto il Sudan. L'unico modo per risolvere la questione di tutto il Sudan è cercare di attuare un approccio globale; l'unico modo per risolvere la questione di tutti sudanesi è cercare di assumere questo approccio olistico; quindi, non servono soltanto accordi limitati, regionali, locali, come il CPA, o il DPA.

Non basta affrontare il problema del Darfur, del Sud o dei monti Nuba, occorre porsi un problema globale. Occorre che ci sia un sistema di governo che tenga in considerazione e permetta alle diversità di manifestarsi e di decidere delle proprie vite, creando un senso di appartenenza alla propria zona locale, una condivisione delle risorse e delle ricchezza, un governo centrale che abbracci le varie diversità locali". I programmi di pace infatti includono la decentralizzazione del potere; sarebbe auspicabile una sorta di federalismo che coinvolga tutte le regioni del paese. Diversamente da quanto è sempre stato fatto, il Sudan meriterebbe di essere affrontato prendendo in considerazione la molteplicità delle sue componenti: secondo l'approccio olistico, le varie parti di un sistema non possono essere studiate indipendentemente le une dalle altre: esse possono essere comprese nello loro interrelazioni e nei termini della loro connessione con il tutto. Attuando una simile prospettiva, probabilmente le diverse realtà locali possono assumere un ruolo all'interno dell'intero paese, e possono finalmente essere chiamate in causa per ciò che concerne le decisioni che le riguardano direttamente. In generale, in questo modo può esistere e prendere forma una convivenza etica e pluralista che accetti e ascolti senza reprimere le differenti anime del paese. Occorre, inoltre, che tutta la società civile venga coinvolta nei negoziati, tutti devono partecipare e prendere parte al tavolo negoziale.

La popolazione del Sud non sente questa pace come qualcosa che interessa la loro vita e il loro futuro. Quello che emerge riguarda il fatto che, oltre ai cambiamenti del sistema politico istituzionale, occorre che la popolazione civile senta e percepisca questa pace come reale e concreta; occorre che ci sia un vero tentativo da parte del governo di portare a compimento il CPA, non soltanto in termini di tecnici e istituzionali. E del resto, lo stesso CPA non prevede che esso debba essere un trattato partecipativo, un testo che debba essere tradotto in un linguaggio comprensibile per tutti. È in questo senso che l'atteggiamento nazionale non è ancora cambiato. Se continua a persistere un approccio frammentato e locale, non si riesce a raggiungere una pace globale, inclusiva, in cui ogni membro della società civile riesca ad essere coinvolto. Dalle parole delle persone che ho avuto modo di contattare emerge uno scenario precario, complesso e ancora restio a trovare una soluzione.

Alcuni ritengono che ci sia la possibilità concreta che il paese si divida in due parti. Natalina Sala sostiene che nonostante il paese sia fortemente frammentato e che probabilmente una divisione tra Nord e Sud potrebbe portare ad un miglioramento della situazione, "…non divideranno mai il Sudan, per le acque del Nilo, che produce moltissimo ed è una grande fonte di ricchezza". C'è chi auspica infatti che il paese, dividendosi, possa vedere risolti molti dei suoi problemi. Ma ai fini di questa analisi occorre ribadire che la differenza tra il Nord e il Sud Sudan non riguarda soltanto la spartizione di terre e risorse; esiste una divisione che è stata accresciuta da lunghi anni di scontro. Riguardo ad una possibile convivenza tra le due diverse metà, Lina dice: "La guerra in Sudan dura da troppo tempo, gli arabi e gli africani si guarderanno sempre con diffidenza". La convivenza di forme diverse di cultura non significa necessariamente mancanza di scontro o conflitto.

Quello che è sbagliato, piuttosto, soprattutto per un paese complesso come il Sudan, è condannare l'esistenza dell'ibridazione o del sincretismo, o l'esistenza stessa di diversità; quello che va eliminato, per favorire un'interazione, un dialogo tra culture, è un atteggiamento esclusivista delle diverse forme identitarie. Il governo sudanese è stato da sempre l'esempio di una tendenza all'omogeneizzazione dell'intera struttura, senza provare ad affrontare un approccio più aperto che potesse prendere in considerazione anche altre forme identitarie. Ritengo utile riportare una storia tratta dal libro cry of the owl di F. M. Deng; in questo libro vengono esposte le profonde variabili di pregiudizio sociale e culturale che hanno caratterizzato la divisione tra Nord e Sud Sudan; diversità costruite soprattutto su differenti concezioni identitarie, basate legami di sangue e di discendenza comune. La storia ha come protagonista un giovane Dinka, che, cresciuto conoscendo soltanto guerra e violenza, ha maturato un odio insanabile nei confronti delle milizie Baggara del Nord, anche in considerazione del fatto che con i loro attacchi hanno ucciso la madre e ferito il fratello. Quando questo ragazzo si innamora della figlia di un potente leader arabo, il giovane Dinka prende in considerazione l'idea di convertirsi all'Islam, per poterla sposare. La storia mostra come l'integrazione nazionale e una disposizione etica all'ascolto, anche in Sudan, possa essere possibile, nonostante i lunghi anni di scontro e odio reciproco.

Non occorre che una differenza culturale venga sacrificata in nome di una omogeneizzazione strutturale; non occorre sacrificare le proprie credenze e il proprio senso di appartenenza alla comunità. La storia esprime come il paese sia fortemente diviso e come ancora i legami di sangue rimangano l'elemento centrale nella definizione identitaria e come elemento di appartenenza, che si oppone a qualsiasi altri forma di rivendicazione. Occorre, per convivere in uno spazio comune, preservare e coltivare le differenze all'interno di un contesto nel quale tutti possano veder riconosciuta la propria identità; identità che pertanto vanno relativizzate, senza che ne vengano assolutizzate le differenze. Ogni diversità, infatti, può trovare spazio in una società ampia e complessa: purchè il contesto di riferimento non tenti di omogeneizzare l'intera struttura sociale. Come dice Fabietti, mentre si legifera in favore dell'identità e mentre si dà il via ad interventi sociali in difesa dell'identità, si deve lavorare per costruire una regola intersoggettiva che tutti facciano propria. Una regola fondata sulla coscienza di un'identità "sentita", ma "relativa", di una differenza "legittima", ma non "assoluta", di una possibile complementarietà dei modi di essere e di pensarsi, di una necessaria convivenza delle diversità in nome di un nuovo "illuminismo". Dall'analisi di queste parole desidero concludere il mio lavoro, riportando una frase di Levi-Strauss con la quale ho iniziato: quel che va salvato è la diversità, non il contenuto storico che ogni epoca le ha conferito e che nessuna può perpetuare al di là di se stessa.

Solo in questo modo, in Sudan, come in molti altri stati del continente africano, è possibile che si formi una società che riesca ad accettare e a condividere le differenze, di modo che tutti possano vedere riconosciuta la propria identità. Questo non significa che in Sudan debba presentarsi una sorta di panorama di pace idilliaco, senza conflitti e competizioni. Non perché questo non possa essere auspicabile, quanto piuttosto perché, in un paese complesso come il Sudan, per una convivenza serena occorre cominciare dalla possibilità di veder espresse le proprie forme identitarie. Occorre però che ogni elemento culturale venga considerato nella sua legittimità, senza perdere di vista ovviamente la complessità del contesto entro cui tali diversità si manifestano e prendono forma. Occorre infatti analizzare le motivazioni sociali, economiche e politiche che muovono gli esseri umani, per arrivare a comprendere i fattori che possono portare alla guerra o a scontri.

Il conflitto Nuer-Dinka non è mosso da differenze culturali o etniche; piuttosto, è stato mosso da chi queste diversità non le ha mai volute capire e le ha sfruttate e costruite a proprio vantaggio, per tutti quei motivi che sono stati analizzati. Detto questo però non va sottolineato il ruolo che deve svolgere il governo, nello sforzo di rendere effettivi i cambiamenti promossi dal CPA. È l'atteggiamento nello spirito delle politiche che deve cambiare. E, molto spetta anche alla comunità internazionale. Si è visto come in Sudan siano sempre intervenute politiche di aiuto umanitario per affrontare crisi ed emergenze legate direttamente e indirettamente alla guerra. Occorre, quindi, che dopo questa pace i sudanesi non vengano abbandonati a se stessi; sarebbe paradossale se la comunità internazionale e le Ong fossero più numerose a attive durante la guerra, che non durante la pace; il rischio sarebbe quello di porre i civili nella condizione di pensare di avere ricevuto maggiori aiuti in durante la guerra, che non in tempi di pace.

La comunità internazionale e le Ong possono contribuire al consolidamento di una pace stabile; in passato, infatti, nonostante le numerose critiche e accuse, hanno portato aiuto in aree che altrimenti sarebbero rimaste isolate; tuttavia è necessario che esse supportino la società civile, per creare quegli strumenti alla base della costruzione di una pace duratura. Occorre che contribuiscano ad un potenziamento delle capacità, non solo materiali, ma che venga trasmesso un know how, che venga utilizzata la capacity building nelle realtà locali, incrementando anche i rapporti tra le varie organizzazioni. Le organizzazioni devono rispondere alle esigenze dei locali, senza imporre la loro opinione ascoltando le persone e ciò che le gente realmente vuole, e ciò di cui ha effettivamente bisogno, per favorire una situazione di parità. Partendo quindi dalle esigenze, dalle necessità e dalle idee della società civile sudanese.



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Vedi anche:
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