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Cambiamento dei modelli di crescita

Massimizzazione del profitto o economia del bene comune?

Pogrom bedrohte Völker n. 269-270, 1-2/2012

Bolzano, dicembre 2012

Index

Editoriale, Sabrina Bussani | Notizie in breve | Tutto pronto per la corsa alle risorse delle foreste dell'Ecuador | Il contributo dell'Italia al progetto Yasuní - ITT | Kichwa di Sarayaku vs. Ecuador | Gli Shipibo-Konibo e l'arte della bellezza | Il collettivo d'arte Barin Bababo

Editoriale [ su ]

Di Sabrina Bussani

Cambiamento dei modelli di crescita: massimizzazione del profitto o economia del bene comune? pogrom / bedrohte Völker 269-270 (1-2/2012). Cambiamento dei modelli di crescita: massimizzazione del profitto o economia del bene comune? pogrom / bedrohte Völker 269-270 (1-2/2012).

Care lettrici, cari lettori,

che questi siano tempi di crisi ormai si sa, e poiché l'economia è globalizzata, la crisi riguarda tutto il mondo. Non vi è quasi atto politico, decisione economica e ripartizione delle spese che non sia in qualche modo condizionata o giustificata da "la crisi" e dalla necessità di "rilanciare l'economia". Per tornare in salute, l'economia ha allora bisogno di "necessari sacrifici", che per milioni di persone in ogni luogo del mondo si traducono più concretamente in disoccupazione, povertà, indigenza, perdita della propria salute. Ecco quindi che da noi come altrove crescono e guadagnano visibilità tutti quei gruppi e movimenti che mettono in discussione il modello economico vigente e si battono per un modello economico più rispettoso dell'uomo e del suo ambiente.

Le moltissime e variegate proposte e strategie adottate fanno perlopiù riferimento a concetti quali decrescita, sostenibilità, solidarietà e sempre più spesso si sente parlare anche del "buen vivir", ossia del "buon vivere". Il concetto del "buen vivir" è parte integrante della cosmovisione dei popoli indigeni del Sudameriche ma la traduzione non fa giustizia a un concetto assai più complesso che con sole piccole sfumature tra le diverse culture indigene riassume un concreto modo di vivere. Che si tratti del "sumak kawsai" dei Kichwa, del "suma qamaña" degli Aymara, del "teko porã" dei popoli Guaraní oppure ancora del "küme mogen" dei Mapuche, il "buen vivir" implica il vivere quotidiano in equilibrio e armonia con sé stessi, con gli altri e con il proprio ambiente, vivere correttamente, avendo a disposizione quanto basta, in un mondo caratterizzato dalla reciprocità che non esclude nessuno. Nella cosmovisione indigena il "buon vivere" non è una specie di utopia, bella da sognare ma in fondo irrealizzabile, è invece un concetto molto concreto che dovrebbe guidare tutte le piccole decisioni quotidiane del singolo e della comunità e che finiscono per delineare il modo in cui viviamo e affrontiamo la vita.

Le nuove costituzioni di Ecuador (2008) e Bolivia (2007) hanno accolto il concetto del "buen vivir", riconoscendo così un modello alternativo di società proposto dai popoli indigeni. Arrivare a questo riconoscimento non è stato né facile né indolore ed è il risultato di lunghissimi anni di lavoro e innumerevoli battaglie per la difesa della propria cultura e dei propri diritti. In Ecuador il punto di svolta può essere identificato nella marcia degli Indigeni dell'Amazzonia del 1992, quando circa 1.200 rappresentanti indigeni camminarono per 500 km fino alla capitale Quito per reclamare in modo pacifico i loro diritti e se ne andarono solo dopo aver ricevuto i titoli di proprietà collettiva per i loro territori ancestrali.

In Bolivia la determinazione della popolazione indigena divenne evidente con quelle che furono poi chiamate le guerre dell'acqua (2000) e del gas (2003) quando migliaia di persone, perlopiù indigeni, scesero in strada per opporsi alla privatizzazione di beni fondamentali e per reclamare il proprio diritto alla vita. L'estrema durezza con cui le autorità reagirono alle proteste non fece altro che ampliare le manifestazioni e le richieste. Il culmine venne raggiunto quando l'ex presidente Gonzalo Sánchez de Lozada diede l'ordine di aprire il fuoco sui manifestanti. Furono uccise 65 persone e innumerevoli altre furono ferite. Dopo la fuga del presidente negli USA, per la Bolivia si aprì quella stagione di cambiamenti che avrebbe portato al primo presidente indigeno della sua storia, alla proclamazione di uno stato plurinazionale e a una costituzione che riconosce l'esistenza e la validità di un modello di vita e economico alternativo.

Certo, sia l'Ecuador che la Bolivia non hanno risolto tutti i loro problemi e i due paesi andini non si sono trasformati come per incanto in piccoli paradisi terrestri. Come vedremo nelle pagine seguenti, l'applicazione concreta del "buen vivir" continua a scontrarsi con interessi e priorità dettate proprio dal modello economico vigente. Ciò nonostante sono stati registrati anche alcuni successi che fungono da ispirazione non solo per altri popoli indigeni. In un'economia globalizzata quale la nostra, la battaglia per i diritti dei popoli indigeni è strettamente collegata alla nostra battaglia per un modello economico alternativo, e le scelte di spesa e di definizione delle nostre priorità diventano, come suggerisce il concetto del "buen vivir", scelte che determinano la salute del pianeta e dei suoi abitanti.

Sabrina Bussani

Notizie in breve [ su ]

Malesia/Sarawak: Indigeni Penan presentano piano per la salvaguardia delle foreste

Lo scorso 22 maggio 2012 i rappresentanti di 18 comunità Penan della parte malese dell'isola di Borneo hanno ufficialmente presentato la loro proposta per l'istituzione del Parco per la Pace Penan (Penan Peace Park). Il progetto è il risultato di un intenso lavoro comunitario. Innumerevoli riunioni sia all'interno delle singole comunità sia tra le diverse comunità hanno portato infine alla stesura di un progetto che unisce la salvaguardia dell'ambiente, lo sviluppo economico sostenibile, la salvaguardia di cultura, lingua e tradizioni allo sviluppo di strutture istituzionali e all'affermazione del diritto all'autodeterminazione. Il progetto del parco infatti prevede la tutela di circa 163.000 ettari di foreste, tra le ultime ancora veramente intatte della regione, attività di raccolta e documentazione della lingua e delle conoscenze tradizionali dei Penan, lo sviluppo di attività economiche qua-li il turismo sostenibile comunitario, pratiche di agricoltura, la coltivazione e lo sfruttamento sostenibili e la commercializzazione di prodotti del bosco e lo sviluppo delle strutture ed istituzioni comunitarie per garantire nel tempo la gestione corretta e comunitaria del parco e delle attività collegate.

Nelle intenzioni degli ideatori, il Penan Peace Park potrebbe costituire un'alternativa valida ai progetti del governo provinciale del Sarawak che nella regione intende costruire 12 dighe e procedere al disboscamento di ampie parti di foreste. Negli ultimi trent'anni il disboscamento legale e soprattutto illegale ampiamente tollerato dal governo provinciale ha di-strutto la maggior parte delle foreste del Sarawak. (ud)

Costa Rica: Attentato al leader del popolo Bribri

A metà settembre 2012 Sergio Rojas Ortiz, leader del popo-lo Bribri del Costa Rica, è stato vittima di un tentato omicidio. Degli sconosciuti hanno aperto il fuoco contro Rojas Ortiz che miracolosamente è rimasto illeso. L'attentato si inserisce in una serie di minacce di morte e aggressioni compiute contro leader indigeni che lottano per il rispetto dei diritti dei loro popoli come quello alla terra. Ne-gli scorsi mesi diverse sentenze hanno obbligato proprietari terrieri che si erano appropria-ti in modo illegale della terra a restituirla ai suoi legittimi proprietari. L'organizzazione delle associazioni indigene FRENAPI (Fronte Nazionale dei Popoli Indigeni) chiede al governo del Costa Rica di indagare sull'attentato, trovarne i responsabili e di garantire maggiore protezione ai portavoce e ai leader dei popoli e delle popolazioni indi-gene del paese. (as)
Fonte : www.npla.de, 1 ottobre 2012

Malesia: Indigeni bloccano la strada di accesso alla mega-diga di Murum

Dal 26 settembre 2012 circa 200 donne, uomini e bambini dei popoli Penan e Kenyah mantengono bloccata la strada di accesso al cantiere per la futura diga di Murum sull'isola malese di Borneo. I manifestanti chiedono che vengano risolte le questioni ancora aperte legate ai diritti di proprietà e la fine dei dislocamenti forzati di popolazione. Una volta terminata, la diga comporterebbe l'inondazione di quasi 250 km2 di foreste e terre agricole e richiederebbe lo spostamento forzato di 1.400 persone. La fine dei lavori, con-dotti da una ditta cinese, è prevista per i primi mesi del 2013. (hs)
Fonte : Bruno-Manser Fonds, 27 settembre 2012

Ecuador : Congelati i beni alla Chevron, non paga multa da 19 miliardi di dollari

Un tribunale dell'Ecuador ha ordinato il blocco di tutti i beni nel Paese del gigante petrolifero Chevron. La decisione è stata presa in seguito al rifiuto della compagnia statunitense di pagare una multa da 19 miliardi di dollari comminata nel febbraio 2011 da un tribunale ecuadoriano. La Chevron è accusata dalla popolazione locale, 30mila persone, di aver provocato, tramite la sua controllata Texaco, gravi danni ambientali durante il periodo in cui estraeva petrolio nella foresta amazzonica, tra il 1964 e il 1990. Chevron ha fatto sapere di rifiutare la decisione del tribunale, che interviene una settimana dopo che la Corte suprema degli Stati Uniti, cui la compagnia si era rivolta, ha rifiutato di bloccare la multa miliardaria.
Fonte : Il Sole24ore, 17 ottobre 2012, www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-10-17/ecuador-congelati-beni-chevron-090656.shtml?uuid=AboC1vtG

Etiopia : Contadino accusa la Gran Bretagna di violazioni dei diritti umani

Un contadino della regione di Gambella in Etiopia fuggito in Kenia accusa il governo britannico di aver reso possibile alcune delle violazioni dei diritti umani commesse dal governo etiope. Il padre di famiglia ha raccontato a degli avvocati inglesi di essere stato dislocato con forza da soldati etiopi in novembre 2011. Accusa l'esercito etiope di violenza, stupri e di far sparire persone poco accomodanti. Dopo il dislocamento lui e la sua famiglia non hanno ricevuto né nuova terra, né alimenti o acqua potabile. Il programma di dislocamenti del governo mira a radunare in villaggi contadini e nomadi isolati per "liberare" terreni da appaltare a imprese nazionali e internazionali. Secondo gli avvocati inglesi, il programma di ricollocamento è sostenuto dal Ministero britannico per la Cooperazione Internazionale. (hs)
Fonte: BBC, 5 settembre 2012

Ecuador: a rischio il progetto Yasuní [ su ]

Tutto pronto per la corsa alle risorse delle foreste dell'Ecuador

Di Nico Heinzer, Stefanie Falk, Yvonne Bangert

Pubblicità per il Fondo-Yasuní contro l'estrazione del petrolio nella riserva naturale. Foto: Archivio GfbV. Pubblicità per il Fondo-Yasuní contro l'estrazione del petrolio nella riserva naturale. Foto: Archivio GfbV.

Il progetto Yasuní è certamente un progetto unico e tra i più innovativi nell'ambito della tutela ambientale. Lanciato nel 2007 dal governo dell'Ecuador, il progetto dovrebbe garantire la salvaguardia del parco nazionale di Yasuní. L'Ecuador è disposto a rinunciare allo sfruttamento dei giaci-menti di petrolio nella riserva naturale se la comunità internazionale si dichiara disponibile a compensare una parte dei proventi mancati con un fondo gestito dal Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) e da utilizzare per finanziare progetti per l'energia rinnovabile. Il progetto però rischia di fallire, fondamentalmente perché manca-no gli "investitori" stranieri, che al di là delle belle parole sembrano essere poco disposti a investire nella salvaguardia di una parte di pianeta.Nel sottosuolo del Parco Yasuní si nasconde il maggiore giacimento petrolifero (Ishpingo-Tambococha-Tiputini - ITT) non sfruttato dell'Ecuador, ma la foresta è anche casa di circa 2.000 nativi Waorani e di diversi gruppi dei popoli Tagaeri e Taromenane che hanno scelto di vivere in isolamento volontario lontano dalla cosiddetta "civiltà dei bianchi". L'estrazione del petrolio comporterebbe un'interruzione violenta del loro isolamento e quindi una reale minaccia per la loro vita e per la loro sopravvivenza come popolo. Ma lo sfruttamento petrolifero distruggerebbe anche quella che è considerata una delle aree con la maggiore biodiversità al mondo, tanto che nel 1989 è stata dichiarata dall'Unesco Riserva mondiale della biosfera.

Nel 2008 la Germania è stato uno dei primi paesi europei ad assicurare il proprio sostegno al progetto attorno al quale l'allora ministro per lo sviluppo Heidemarie Wieczorek-Zeul era riuscita a ottenere un'ampia coalizione. Ma già nel 2010 il suo successore Dirk Niebel annunciò che la Germania non avrebbe partecipato al fondo per le energie rinnovabili proposto dal Progetto Yasuní e non avrebbe quindi investito per evitare la distruzione della foresta di Yasuní né per sviluppare progetti di energia rinnovabile. Secondo il ministro per lo sviluppo Niebel, la Germania si sarebbe piuttosto impegnata in progetti che avrebbero fatto capo ai meccanismi REDD (Reducing Emissions from Deforestation and De-gradation - Riduzione delle emissioni da deforestazione e degrado). I meccanismi REDD sono però fortemente criticati da molte organizzazioni indigene e ambientaliste poiché essi permettono la commercializzazione dell'ambiente e delle emissioni. La singolarità del progetto Yasuní invece sta proprio nel fatto che si interviene prima di distruggere la natura, che il petrolio dovrebbe re-stare sotto suolo e che di conseguenza non verrà disboscata la foresta. Mentre i meccanismi REDD assegnano un valore commerciale alle emissioni, con il progetto Yasuní queste non verrebbero nemmeno prodotte. In un'intervista al quotidiano tedesco Die Tageszeitung (taz) rilasciata in settembre 2011, Alberto Acosta, ex ministro per l'energia e l'attività mineraria dell'Ecuador, ha paragonato i meccanismi REDD alle perline di vetro con cui i conquistadores spagnoli derubavano gli Indigeni delle loro enormi ricchezze d'oro.

L'iniziativa Yasuní potrebbe fungere da progetto pilota e diventare un esempio da seguire in altri territori indigeni minacciati dallo sfruttamento incontrollato del sottosuolo, tra cui altre aree dello stesso Parco Nazionale di Yasuní. Infatti, al di fuori dell'area Yasuní-ITT, l'estrazione petrolifera non sembra trovare grandi ostacoli e il presidente Correa sembra voler tenere il piede in due scarpe: da un lato il progetto di salvaguardia ambientale Yasuní-ITT e dall'altra la possibilità di sfruttare economicamente gli enormi giacimenti di petrolio dell'area. L'impresa petrolifera statale Petroamazonas ha già presentato uno studio di impatto ambientale per lo sfruttamento dei campi petroliferi di Tiputini e di Tambococha e nel vicino Blocco 31 - anche questo situato all'interno del Parco di Yasuní - l'estrazione di petrolio dovrebbe essere avviata già nel 2013. Il governo intende rilasciare 21 licenze di estrazione, di cui sette ancora nel 2012, in parte per estrazioni in territorio del popolo Kichwa. A profittarne sarà soprattutto la Cina che in cambio di generosi crediti otterrà i diritti sul 52% del petrolio ecuadoriano.

In realtà, sia la Costituzione dell'Ecuador sia la ratifica della Convenzione ILO 169 obbligherebbero il governo di Quito a rispettare i meccanismi di consultazione e il diritto alla co-decisione delle popolazioni indigene, nonché il principio del "buen vivir", in armonia con la natura. La Costituzione dell'Ecuador infatti considera la Terra come un soggetto a sé con specifici diritti da rispettare e tutelare. Le popolazioni indigene col-pite dalle conseguenze dell'estrazione di petrolio nelle regioni di Orellana, Pastaza e Morona Santiago hanno deciso di opporsi alla distruzione del loro ambiente. In marzo 2012 si sono messi in marcia verso Quito attirando così l'attenzione pubblica sulla loro situazione e le loro richieste. Nella regione di Pastaza si trova anche la comunità di Sarayaku la cui opposizione pacifica e innovativa viene sostenuta da anni dall'APM. Ma tornando al progetto Yasuní-ITT, mentre la Germania ha ritirato attraverso il suo ministro Niebel il sostegno al progetto scatenando le proteste di attivisti per i diritti umani e ambientalisti, altri paesi sembrano più propensi a investire nel futuro del pianeta. Per ora i con-tributi al fondo creato presso l'ONU sono arrivati da Cile, Perù, Colombia, Spagna, Italia, alcune regioni del Belgio e della Francia, da imprese e da persone private.

I contributi però non bastano e qualcuno accusa il presidente Correa di "estorsione", ma anche il Time Magazine statunitense scrive che "il nocciolo del progetto è più che giusto".

Il futuro dell'Ecuador? - Petrolio e attività mineraria
Lo scorso 6 marzo 2012 il presidente ecuadoriano Rafael Correa ha firmato con l'impresa cinese Ecuacorriente un contratto per l'estrazione di rame su larga scala nella provincia di Zamora Chinchipe nell'Amazzonia meridionale. Secondo diverse stime la miniera di Mirador conterrebbe circa 5 miliardi di libbre di rame la cui estrazione dovrebbe iniziare verso la fine del 2014. L'attività della miniera Mirador dovrebbe garantire all'Ecuador introiti per 4,5 miliardi di dollari mentre l'impresa mineraria ha promesso di reinvestire 100 milioni di dollari in progetti di sviluppo per le regioni vicine. Secondo un comunicato dell'agenzia di stampa Sapa-AFP del 6 marzo 2012, durante la firma de-gli accordi il presidente Correa avrebbe dichiarato "non possiamo comportarci da mendicanti e contemporaneamente restare seduti su un sacco pieno d'oro" e annunciato l'inizio di una "nuova era" per l'industria estrattiva del piccolo paese andino. Il viceministro per l'attività mineraria, Federico Auquilla, ha definito il petrolio e l'attività mineraria come il futuro del paese e del suo sviluppo. Le organizzazioni ambientaliste e la Confederazione delle Nazionalità Indigene dell'Ecuador (CONAIE) ha già annunciato che si opporrà alla distruzione della biodiversità, all'inquinamento dell'acqua e al dislocamento delle persone nelle regioni interessate.
(Stefanie Falk)

Ecuador [ su ]

Il contributo dell'Italia al progetto Yasuní - ITT

Di Sabrina Bussani

Nel parco nazionale Yasuní. Foto: © Joshua Bousel. Nel parco nazionale Yasuní. Foto: © Joshua Bousel.

Secondo una nota della Farnesina del 27 settembre 2012, Italia, Ecuador e ONU hanno firmato al Palazzo di Vetro - a margine dei lavori della 67a Assemblea Generale dell'ONU - un accordo trilaterale per la tutela del parco ecuadoriano Yasuní. Secondo questo accordo l'Italia converte 35 milioni di euro di debito del paese sudamericano su un debito complessivo di 58 milioni di euro nel fondo istituito presso l'UNDP per il progetto Yasuní-ITT. Con il contributo di 35 milioni di euro - si legge nella nota - "l'Italia diventa uno dei principali sostenitori del progetto". Sembrerebbe un ottimo accordo che non cancella però le perplessità circa il modo in cui una parte consistente del debito ecuadoriano nei confronti dell'Italia è stato contratto.

Nel 2007 il governo di Quito dell'allora neo-eletto presidente Rafael Correa istituì una commissione per l'analisi della composizione del debito estero (CAIC) contratto dal paese fra il 1976 e il 2006: dei 360 prestiti ottenuti, circa un terzo fu dichiarato illegittimo, per un ammontare complessivo di 4 miliardi di dollari. Fra questi risultò anche il prestito che l'Italia erogò all'Ecuador nel 1995 per la costruzione della centrale elettrica di Marcel Laniado De Wind, nei pressi della diga di Daule Peripa. Il finanziamento di 45 milioni di euro risultò essere un aiuto "interessato": la gara d'appalto per la costruzione della centrale fu ristretta alla partecipazione di sole imprese italiane in associazione con imprese ecuadoriane e l'appalto fu infatti assegnato al consorzio capeggiato dall'italiana Ansaldo Gie SpA. In corso d'opera i costi di costruzione lievitarono del 160% a causa della decisione improvvisa di aumentare la potenza della centrale. Tuttavia in base alla verifica tecnica della CAIC sembrerebbe che le turbine installate siano in realtà di potenza inferiore a quella dichiarata nel contratto, per cui il popolo ecuadoriano ha pagato un prezzo altissimo per un'opera di scarso valore, che non produce più di un terzo dell'energia attesa.

Dal canto suo, il governo italiano ha mancato ai suoi doveri di cosiddetta "due diligence": non è stata verificata l'effettiva necessità del progetto, non sono state effettuate le obbligatorie consultazioni per il consenso della popolazione indigena là residente, non sono state considerate le conseguenze negative (15.000 persone sono sta-te sfollate, 63 comunità sono rimaste pressoché isolate e le comunità locali residenti sulle isole di terra rimaste emerse dopo la creazione dell'invaso vivono oggi in condizioni peggiori rispetto al periodo precedente alla costruzione della diga e dell'annessa cen-trale idroelettrica, con minori servizi di base, senza vie di trasporto e comunicazione, senza le terre e i fiumi da cui prima traevano un sostentamento più che dignitoso) e anche le valutazioni ambientali si sono rivelate non conformi alle direttive interne della Banca Mondiale.Lascia perplessi anche la convenzione finanziaria firmata tra Mediocredito (per il governo italiano) e l'allora governo dell'Ecuador "per la realizzazione della centrale idroelettrica da 130 MW di Daule Peripa" , e in particolare gli articoli 5 e 6 che fissano in modo dettagliato le modalità di utilizzo del credito. Da queste risulta che il credito sarebbe stato utilizzato solo per pagare le fatture del costruttore italiano, lasciando anche presupporre che il credito d'aiuto sarebbe in realtà transitato solamente tra le casse di Mediocredito e quelle del costruttore del progetto, senza entrare, nemmeno virtualmente, nello stato ecuadoriano. Tutto farebbe pensare che il credito di aiuto concesso dal governo italiano per la centrale di Marcel Laniado De Wind sia andato a pieno beneficio di Ansaldo e del consorzio costruttore, senza però raggiungere gli obiettivi di sviluppo prefissati.

Centinaia di progetti di questo tipo, orientati a rispondere a interessi privati più che di lotta alla povertà, hanno costellato l'esperienza della Cooperazione Italiana, così come quella di tanti altri paesi europei. I costi delle centinaia di "cattedrali nel deserto" finanziate negli ultimi 30 anni tramite la cooperazione internazionale pesano ancora oggi sulle spalle dei paesi più poveri nel Sud e sui bilanci dei loro governi. Un debito generato da operazioni volute non solo dalla classe politica poco lungimirante o a volte corrotta dei governi del Sud, ma anche dalle aziende occidentali, sempre alla ricerca di appalti facili e ben pagati, e dai governi creditori, corresponsabili nell'approvare e finanziare progetti rivolti a soddisfare il proprio tornaconto. La Norvegia è stato il primo paese europeo a riconoscere il danno subìto in termini di mancato sviluppo a causa dei progetti di sviluppo "interessati" e così nel 2006 ha cancellato unilateralmente e incondizionatamente i debiti contratti da diversi paesi, tra cui anche l'Ecuador, e riconducibili a questo tipo di progetti.

Tra il 1995 e il 2008 l'Ecuador ha continuato a pagare ai suoi creditori gli interessi sul debito con tassi d'interesse che in alcuni casi raggiungevano anche il 40%. Almeno fino al 2003, anno in cui fu firmato un accordo tra Italia e Ecuador per la conversione dei ratei debitori (pari a circa 26 milioni di Dollari) per un quinquennio in un fondo destinato a finanziare programmi di lotta alla povertà e di protezione dell'ambiente, l'Italia ha comunque potuto contare con introiti derivanti da interessi su un debito che in misura notevole ha favorito più aziende italiane che non la popolazione del paese sudamericano. Con la conversione del debito al fondo di salvaguardia Yasuní-ITT l'Italia, insomma, "regala" dei soldi - 35 milioni di euro - a cui forse, almeno dal punto di vista morale, avrebbe ormai avuto ben pochi diritti. A conti fatti sarà comunque l'Ecuador a dover trovare i fondi per tutelare una parte di ciò che a ragione viene chiamato "l'ultimo polmone del pianeta" e ancora una volta i paesi del nord di fatto delegano al sud del mondo una parte importante della salvaguardia ambientale del nostro pianeta.

Fonti: I fattori che determinano l'illegittimità del debito sono analizzati nel rapporto Le responsabilità italiane nel debito illegittimo dell'Ecuador curato da Elena Gerebizza per la Crbm in:
- www.manitese.it/materiale/campagne/pubblicazione_debito_ecuador.pdf
- www.ambquito.esteri.it/Ambasciata_Quito/Menu/I_rapporti_bilaterali/Cooperazione_allo_sviluppo/Attivit%C3%A0/
- www.esteri.it/MAE/IT/Sala_Stampa/ArchivioNotizie/Approfondimenti/2012/09/20120927_Onu.htm
- www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/italiano/iniziative/Paese.asp?id=35
- www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_stampa.php?intId=2019
- www.cdca.it/spip.php?article2020
- www.peacelink.it/latina/a/31507.html

Kichwa di Sarayaku vs. Ecuador [ su ]

Un importante precedente per tutti i popoli indigeni dell'America Latina

Di Ann-Kathrin Dreber

Il presidente dell'IDH, Diego Garcia-Sayán (centro). Il presidente dell'IDH, Diego Garcia-Sayán (centro).

Il 21 aprile 2012 è una data importante nella storia dei procedimenti giudiziari della Corte Interamericana per i Diritti Umani (IDH). Infatti, per la prima volta una delegazione composta da giudici della Corte Interamericana dei Diritti Umani (IDH), rappresentanti di diverse istituzioni e dello stato coinvolto, si sono recati sul luogo del contenzioso. In vista del procedimento "Kichwa di Sarayaku contro Ecuador", la delegazione dell'IDH si era recata a Sarayaku per farsi un'idea della situazione in loco. Il procedimento contro lo stato dell'Ecuador era stato avviato dai Kichwa che chiedevano un risarcimento per le concessioni petrolifere assegnate illegalmente nel loro territorio. Il verdetto dell'IDH, se favorevole ai Kichwa, avrebbe dato un segnale importante per tutti i popoli indigeni dell'America Latina e rafforzato notevolmente le loro richieste nei confronti dei vari governi del continente.

Il caso dei Kichwa di Sarayaku all'IDH
Il 27 dicembre 2003 l'Associazione dei Kichwa di Sarayaku aveva consegnato una petizione alla Commissione Interamericana per i Diritti Umani (CIDH) in cui chiedeva un risarcimento per le concessioni assegnate dal governo dell'Ecuador all'impresa argentina Compañía General de Combustibles (CGC) senza aver prima svolto delle consultazioni appropriate tra la popolazione locale. Inizialmente i danni provocati al territorio di Sarayaku erano conseguenza dell'attività sismica provocata dalle trivellazioni esplorative effettuate dalla CGC, ma il 26 luglio 1996 il governo ha autorizzato la CGC ad avviare l'estrazione di petrolio in una zona conosciuta ormai come blocco 23. Il 65% del blocco 23 si trova sul territorio ancestrale dei Kichwa di Sarayaku. Nel periodo da ottobre 2002 fino a febbraio 2003 le attività della CGC ha riguardato 37.700 ettari di terreno dei Kichwa, pari al 29% del loro territorio. L'attività petrolifera ha reso impossibile la vita della popolazione indigena, per loro era diventato impossibile continuare a vivere secondo lo stile di vita tradizionale, la loro libertà di movimento sul proprio territorio era ed è tuttora fortemente limitata anche a causa di una tonnellata e mezza di esplosivi abbandonati in oltre 600 punti diversi del territorio Kichwa. I Kichwa inoltre accusano lo stato di arresti arbitrari e di attacchi alla loro integrità dovuti alla presenza dell'esercito che in base all'accordo "Military Security Cooperation Agreement" del 2001 era stato dislocato nella zona per garantire la sicurezza degli impianti e dei collaboratori della CGC. Dopo aver esaminato la petizione, il 26 aprile 2010 la Commissione Interamericana per i Diritti Umani (CIDH) si era appellata a nome dei Kichwa alla Corte Interamericana per i Diritti Umani (IDH) denunciando lo stato dell'Ecuador per le violazioni dei diritti umani fissati nella Convenzione Americani dei Diritti Umani e vincolanti per gli stati firmatari. La motivazione per la richiesta di condanna si richiama soprattutto al diritto alla vita e al rispetto della vita, al diritto a un trattamento umano nel senso del rispetto per l'integrità psichica, mora-le e mentale delle persone. Due anni dopo la consegna della denuncia, il sopralluogo dell'IDH a Sarayaku ha sicuramente costituito l'apice di tutta la procedura giudiziaria.

La visita della delegazione a Sarayaku
La delegazione composta da giudici e avvocati, tra cui anche lo stesso presidente dell'IDH, e da rappresentanti della CIDH aveva deciso di voler verificare in loco la situazione descritta negli atti di denuncia. Ad accompagnare la delegazione c'erano anche diversi rappresentanti del governo dell'Ecuador, tra cui il ministro della Giustizia e dei Diritti Umani Johana Pesántez e il consigliere giuridico alla presidenza Alexis Mera.

Il presidente dell'IDH, il peruviano Diego García-Sayán, ha dichiarato che la visita a Sarayaku "si è svolta nel rispetto di entrambe le parti in causa, secondo modalità costruttive che contenevano anche la possibilità di un compromesso". Dopo l'accoglienza nella "Casa de la Asamblea del Pueblo Kichwa de Sarayaku", il presidente dei Kichwa José Gualinga e altre autorità della comunità hanno raccontato alla delegazione le loro esperienze con l'impresa petrolifera. Poi gli ospiti hanno potuto approfondire il tradizionale stile di vita e la cosmologia della comunità Kichwa. Durante la conversazione il consigliere giuridico Alexis Mera ha ammesso la responsabilità dello stato per le violen-ze e i danni subiti dalla comunità. Si è inoltre dichiarato disponibile a trovare una soluzione di compromesso e al pagamento di un risarcimento da parte dello stato. La comunità Kichwa ha apprezzato il mea culpa del governo e José Gualinga lo ha definito "il trionfo della dignità, della verità e della giustizia che premia la comunità per i lunghi anni di lotta. Questo ci permette", ha proseguito Gualinga, "di poter realizzare le nostre richieste e la nostra posizione in rispetto con la nostra cosmologia e la nostra relazione con la foresta".

Conseguenze per la situazione dei diritti umani in America Latina
"Nuovi venti soffiano sull'Ecuador e sull'America Latina, venti di democrazia", ha dichiarato alla stampa il giudice Diego García-Sayán, presidente dell'IDH. "Le persone vivono secondo concezioni e convinzioni diverse, i po-poli dell'America vogliono democrazia e reale partecipazione. Questi nuovi venti permettono alle persone di poter-si rivolgere alla Corte Interamericana quando pensano che i loro diritti siano stati violati. Tutto ciò non sarebbe stato possibile nell'America di solo 20 o 30 anni fa".

La dichiarazione del giudice García-Sayán ha fatto pensare a molti che il verdetto della Corte sarebbe stato a favore dei Kichwa, e in effetti, il 27 giugno 2012 è arrivata la sentenza che condanna lo stato dell'Ecuador a riconoscere pubblicamente le proprie responsabilità nel caso, a pagare un risarcimento, ad adottare misure legislative per rendere effettivo il diritto alla consultazione previa dei popoli e delle comunità indigene, ad intervenire in loco per la rimozione dei danni secondo modalità concordate con la comunità stessa e a organizzare dei corsi di formazione obbligatori sui diritti umani dei popoli e delle comunità indigene per le proprie forze di polizia, militari, giudici e chiunque altro abbia a che fare con questioni legate ai popoli e comunità indigene. La sentenza costituisce un importante precedente per tutti i popoli indigeni del continente e di fatto rafforza le loro lotte contro le molteplici e variegate minacce al loro stile di vita e all'ambiente, li sprona a resistere e li incoraggia a impugnare il sistema dei diritti umani in America latina così come fissato e strutturato dall'Organizzazione degli Stati Americani (OSA). Le maggiori istituzioni a difesa dei diritti umani latinoamericane sono la Commissione Interamericana (CIDH) e la Corte Interamericana per i Diritti Umani (IDH). Le due istituzioni lavorano in sinergia e possono essere chiamate in causa da qualsiasi cittadino. La Commissione accoglie le petizioni e quando queste hanno buone possibilità di successo redige le denunce da inoltra-re alla Corte. Quasi tutti i paesi latinoamericani si sono assoggettati alla giurisdizione della Corte Interamericana e sono vincolati dalle sentenze che questa emette. Il caso "Kichwa di Sarayaku vs. Ecuador" ci fa credere che in America Latina ci siano delle istituzioni sovrane effettivamente capaci di supervisionare e controllare il rispetto dei diritti umani. Il caso però ci induce anche a pensare che la perseveranza dei popoli indigeni nella loro lotta per i propri diritti non sia vana.

Fonti:
- pogrom 269-270 (1-2/2012)
- www.corteidh.or.cr/docs/casos/articulos/seriec_245_esp.pdf
- http://cejil.org/categoria/autor/cejil-y-otras-organizaciones?page=2

Perù [ su ]

Gli Shipibo-Konibo e l'arte della bellezza

Di Luisa Belaunde, antropologa amazzonica

Una fase della lavorazione della ceramica. Foto: Andrea Balice. Una fase della lavorazione della ceramica. Foto: Andrea Balice.

La bellezza secondo il pensiero Shipibo-Konibo si nota a fior di pelle. Le persone, o le cose, sono belle quando hanno il Kené, ossia quando hanno il corpo coperto da una rete di segni geometrici che avvolgono la pelle con linee rette e curve, circuiti di energia che creano una nuova pelle fatta di luce e colore.L'arte del Kené appartiene tradizionalmente alle donne, che secondo la Cosmologia, impararono a fare i disegni copiandoli dal corpo di una donna Inka proveniente dall'eterno mondo del fuoco del sole, che attraversò il fiume che separa gli immortali dai mortali.

Questa donna aveva sulla pelle i disegni dell'anaconda, la potente proprietaria cosmica dei fiumi e dell'arcobaleno che rappresenta il cammino che unisce l'acqua al sole. Secondo il pensiero Shipibo-Konibo, i disegni di tutto ciò che esiste hanno origine nelle forme della pelle dell'anaconda primordiale; per questo, per poter vedere e fare i disegni é necessario consumare le piante che manifestano il potere dell'anaconda come il Piripiri e l'Ayahuasca. Fin da piccole le bambine vengono trattate con Piripiri, una pianta Cyparacea che rende la vista più acuta e fa vedere i disegni nella mente, per poterli poi plasmare con precisione sulla pelle, sulle tele, sulla ceramica e sul legno. Le donne dipingono con bastoncini di legno e pennelli fatti con i propri capelli usando tinte naturali; inoltre ricamano, tessono tele e lavorano con perline colorate.

Nelle fiere artigianali del Perù si vedono spesso le donne Shipibo-Konibo vendendo i loro prodotti, però poche persone conoscono la complessità del loro pensiero artistico e la destrezza necessaria per produrre tali disegni. Le donne non hanno bisogno di bozzetti, infatti disegnano direttamente ciò che vedono nella loro mente, rendendo più bello il quotidiano, trasformandolo a immagine e somiglianza del mondo Inka. Se non ci fossero le donne che disegnano il Kené, gli uomini non avrebbero ornamenti materiali e il mondo non potrebbe assomigliare a quello degli dei.

Alcuni uomini possono vedere disegni nella loro mente, anche se tradizionalmente non coltivano la abilità di materializzarli. Le visioni del Kené permettono loro di praticare lo sciamanismo, che normalmente è una specialità maschile. Durante la cerimonia di Ayahuasca, chi partecipa visualizza la rete di filigrana di luce e colore che copre tutte le cose, che indica lo stato di salute fisica, mentale e spirituale delle persone. Attraverso il canto, lo sciamano entra in comunicazione con l'energia dell'anaconda primordiale e con gli spiriti delle piante, e la sua voce traccia disegni immateriali che avvolgono l'assistito curandolo. Cantare equivale a fare disegni immateriali di guarigione, chiari e profumati.

Il Kené è l'unione dell'estetica con la medicina, del materiale con l'immateriale, del femminile con il maschile. Vedere e disegnare il Kené equivale a mimetizzarsi con l'energia delle pian-te che hanno in sé il potere generativo dell'anaconda primordiale. Tutte le forme visuali, olfattive, sonore e tattili del disegno Shipibo-Konibo sono una celebrazione alla bellezza dell'anaconda e richiamano all'Inka eterno che risplende luminoso nel cielo.

Perù / Shipibo-Konibo [ su ]

Il collettivo d'arte Barin Bababo

Di Andrea Balice

Artigianato Shipibo-Konibo. Foto: Andrea Balice. Artigianato Shipibo-Konibo. Foto: Andrea Balice.

Il popolo indigeno Shipibo-Konibo vive nella regione Ucayali, nella foresta centrale peruviana, regione che è anche tristemente conosciuta come il "corridoio della povertà". La cultura Shipibo-Konibo è custode di una straordinaria conoscenza ancestrale della natura. La tradizione di questo popolo insegna a vivere in simbiosi con l'ambiente, a imparare dalla vita delle piante e degli animali.La vita nelle comunità che ancora vivono a qualche ora dalla città scorre in armonia con le stagioni. Si vive di caccia, di pesca, di agricoltura e di artigianato. A quest'ultima attività si dedicano soprattutto le donne che fin da piccole vengono educate all'arte della ceramica e del ricamo. Gli sciamani curano i propri pazienti con cerimonie di canti chiamati Icari e con decotti di erbe medicinali come l'Ayahuasca.

Nelle cerimonie religiose e per scopi magico-terapeutici i popoli indigeni del bacino del Rio delle Amazzoni utilizzano da tempo immemorabile il decotto della porzione lignificata e polverizzata delle liane di Banisteriopsis caapi e delle foglie di Psychotria viridis per ottenere l'Ayahuasca. Il più antico oggetto conosciuto legato al cerimoniale dell'Ayahuasca è una coppa ricavata da una pietra intagliata e decorata con incisioni, trovata nella foresta ecuadoregna e legata alla cultura Pastaza (500 a.c.-50 d.c.). Ciò dimostra come l' Ayahuasca sia conosciuta ed utilizzata da almeno 2.500 anni.

Ad oggi alla situazione di estrema povertà in cui questo popolo vive da alcuni decenni si sommano l'influenza delle varie congregazioni religiose evangeliche e protestanti che pretendono di convertire la popolazione allontanandola dalle proprie tradizioni originarie, la minaccia delle grandi multinazionali petrolifere, interessate a questa zona ricca di petrolio, ed infine la distruzione ambientale generata dal commercio illegale del legno. Molti giovani cercano fortuna emigrando nella capitale Lima, lasciando la propria casa e le proprie terra in cambio di una vita fatta di miserie e stenti.

In tale contesto nasce il Collettivo di artisti Barin Bababo formato da un gruppo di giovani della comunità di San Francisco di Yarinacocha, che si trova a quaranta minuti da Pucallpa, capoluogo della regione. Questi pittori dipingono straordinari quadri che rispecchiano e raccontano la cosmovisione . L'arte della pittura è divenuta per loro un mezzo importante per diffondere la propria cultura e a questo scopo sono già state organizzate diverse mostre sul territorio locale e internazionale di discreto successo che a questi giovani artisti ha dato la speranza di poter vivere della propria arte ed ha risvegliato in loro la volontà di agire, di parlare e di farsi sentire.

Al Collettivo Barin Bababo si sono uniti non solo giovani appassionati alla pittura dei disegni chiamati Kenè, ma anche artigiani e artigiane della comunità che, cercando di guadagnarsi il necessario per vivere attraverso l'arte prodotta, cercano anche di diffondere la propria cultura e sensibilizzare l'opinione pubblica sul pericolo che corre il loro popolo. Chiaramente rispetto al devastante impatto perpetuato dal sistema socio-economico dominante, per ora il loro operato risulta essere minimale, generando sì arte, attraverso la cultura millenaria degli Shipibo-Konibo, ma altresì, lasciando gli artisti nell'immane compito soli, privi di supporto e risorse sufficienti alla salvaguardia del loro patrimonio di conoscenze. Le enormi difficoltà affrontate da questi artisti indigeni sono le difficoltà proprie dell'Occidente, incapace di cooperare efficacemente rispetto alla tutela delle culture locali, della salvaguardia del territorio e della dignità umana.

La corsa al ribasso, l'incapacità di prendere coscienza del valore intrinseco di ciascuna opera e di proporre agli artisti il giusto compenso per il lavoro creato preclude agli artisti Shipibo-Konibo la possibilità di essere attori economici attivi. Purtroppo finora la loro arte elaborata non ha trovato sbocco nemmeno in realtà "alternative" quali p.es. il mercato equo e solidale. Ciò che emerge è il forte divario che la cultura Shipibo-Konibo presenta nei confronti del sistema economico-finanziario ed in particolare con il concetto di sviluppo da noi adottato in maniera sempre più totalitaria negli ultimi sessanta anni.

In un'epoca globalizzata come quella che ci troviamo a vivere oggi diventa fondamentale interrogarci sull'impatto della nostra cultura sulle migliaia di culture diverse sparse per il pianeta, riscoprendo nuove forme di intendere la vita, aperti alla condivisione in un'ottica di azione locale e visione globale. Gli Shipibo-Konibo ed il collettivo artistico indigeno Barin-Bababo non devono e non possono farsi carico delle nostre inefficienze, ma possono essere un esempio valido, fatto di azioni dotate di un senso profondo e condiviso, non di gesti ripetuti convenzionalmente che, forti della propria identità culturale e dell'individualità di ciascun membro della comunità agiscono per il proprio benessere. Benessere inteso anch'esso in maniera differente dal nostro, per il quale non occorre prevalere o padroneggiare bensì costruirsi singolarmente ed in comunità il proprio patrimonio culturale, da solo in grado di sopperire alle esigenze di una vita intera, senza che il suo sviluppo determini lo sconvolgimento dell'ambiente o di culture distanti e differenti.

Grazie a questo lavoro e alla collaborazione dell'antropologa Luisa Belaunde, il progetto Barin Bababo ha ottenuto un importante riconoscimento, infatti l'Istituto Nazionale della Cultura del Perù ha dichiarato il Kené Shipibo-Konibo Patrimonio Culturale della Nazione, riaffermandone così l'importanza per la cultura amazzonica peruviana.

Per ulteriori informazioni: Andrea Balice - naturalesarte@gmail.com


La versione cartacea è stata realizzata con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano.

Pogrom-bedrohte Völker 269-270 (1-2/2012)