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Donne: dalla Cina al Darfur

Vittime traumatizzate e coraggiose attiviste per i diritti umani

Pogrom bedrohte Völker n. 264, 1/2011

Bolzano, agosto 2011

Index

Editoriale, Mauro di Vieste | Pari opportunità e rafforzamento dei diritti delle donne | Le donne profughe kurde | La violenza contro le donne indigene | Il movimento di pace "Donne in nero" in Serbia | Israele / Palestina: "Il ponte esiste davvero" | Alina Treiger - Figura simbolo dell'ebraismo liberale | Leyla Zana: "Noi Kurdi dobbiamo essere uniti" | Le donne del Kurdistan iracheno | La moglie dell'attivista Hada in carcere | Haminatou Haidar - Viva o morta | Donne indigene contro la lobby dell'uranio | Mapuche: il volto giovane della ribellione | Guatemala: le donne Xinka si battono per i propri diritti | Iran. Non c'è posto per i diritti delle donne

Foto di copertina: il 25 novembre 2010 le donne del Darfur del campo profughi vicino a El Fasher hanno manifestato contro i continui stupri. La manifestazione faceva parte di una campagna annuale di 16 giorni contro la violenza sulle donne. L'APM sostiene un progetto di cucine solari per le donne dei campi profughi del Darfur. Il maggior numero di stupri avviene infatti quando le donne si allontanano dai campi alla ricerca di legna da ardere.

Editoriale [ su ]

Di Mauro di Vieste

Donne: dalla Cina al Darfur. Vittime traumatizzate e coraggiose attiviste per i diritti umani, pogrom / bedrohte Völker 264 (1/2011). Donne: dalla Cina al Darfur. Vittime traumatizzate e coraggiose attiviste per i diritti umani, pogrom / bedrohte Völker 264 (1/2011).

Care lettrici, cari lettori,

questo numero di pogrom-bedrohte völker è dedicato al ruolo e alla situazione, spesso drammatica, delle donne nei vari continenti. La lunga marcia delle donne verso un mondo più giusto e rispettoso della diversità continua inesorabile, ma il cammino da fare è ancora lungo. E' vero che, non solo in Europa, le donne ai massimi vertici del potere sono sempre di più: è il caso di Jóhanna Sigurðardóttir, Primo Ministro dell'Islanda, primo capo del governo islandese donna e al tempo stesso primo capo del governo al mondo dichiaratamente omosessuale; Mary Patricia McAleese Presidente d'Irlanda; Tarja Halonen e Mari Kiviniemi rispettivamente Presidente e Primo Ministro della Finlandia; Angela Merkel Cancelliere della Germania; Iveta Radicová Primo Ministro della Slovacchia; Michaëlle Jean Governatore generale del Canada. A questi esempi si aggiungono in America Latina Laura Chinchilla Miranda Presidente della Costa Rica, Dilma Rousseff Presidente del Brasile e Cristina Fernández de Kirchner Presidente dell'Argentina.

A questa ascesa di figure femminili al potere in Stati anche importanti nello scacchiere internazionale fa da contraltare la drammatica situazione delle violazioni dei diritti umani in tanti altri stati del mondo e la relativa sofferenza soprattutto delle donne in conflitti appena passati o ancora in atto come nei Balcani, in Birmania, in India, in Afghanistan, in Cina, nel mondo arabo, in Cecenia, in Africa, nella stessa America Latina. Donne vittime ma anche donne che si ribellano al proprio destino e diventano attiviste per il cambiamento e la fine delle violazioni per tutto il proprio popolo. In questo caso la lista delle attiviste si fa molto più lunga: le donne coinvolte da una parte rappresentano il dramma di un popolo che soffre, dall'altra sono il volto nuovo di una nuova coscienza che prende piede a favore dei diritti universali non solo delle donne ma di tutti gli esseri umani.

Ricordiamo quindi le grandi battaglie (insieme ai grandi drammi) vissuti e affrontati da donne come Leyla Zana (Kurdistan), Nawal El Saadawi, Fatema Mernissi, Khalida Messaoudi (mondo arabo), Aung San Suu Kyi (Birmania), Wangari Maathai (Kenya), Vandana Shiva (India), Malalai Joya, Sima Samar (Afghanistan), Rebiya Kadeer (Uiguri in Cina), Natividad Llanquileo (Mapuche in Cile), Haminatou Haidar (Sahrawi in Marocco), Anna Politkovskaja (Cecenia), Rigoberta Menchù e le donne indigene maya (Guatemala), Donne in nero (Balcani), Madri di Plaza de Mayo (Argentina), Xinna, moglie dell'attivista mongolo Hada, Shirin Ebadi (Iran).

Sono questi solo alcuni esempi di donne che hanno rifiutato il loro destino scritto fino ad oggi dagli uomini al potere nei propri paesi e hanno alzato finalmente la voce per provare a vivere in un mondo dove ci possa essere più giustizia e maggior rispetto per i diritti delle donne.

L'occidente ha l'obbligo morale di sostenere le battaglie di queste donne-coraggio e non abbandonarle al proprio destino come è successo nel caso di Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca per le sue scomode battaglie sulla guerra sporca in Cecenia. Probabilmente la soluzione delle crisi in cui loro malgrado queste donne sono coinvolte potrà passare solamente attraverso il loro diretto coinvolgimento.

Ma la battaglia a favore del riconoscimento di pari diritti tra uomo e donna non riguarda solo le aree di crisi nel mondo ma anche il "civilissimo" occidente dove la violenza domestica di cui le donne sono vittime è drammaticamente attuale. E' per questo che ci auguriamo allo tempo stesso la soluzione dei tanti conflitti in cui versa l'umanità e un deciso miglioramento della condizione femminile nel mondo, compresa la nostra cosiddetta civile Europa: due obiettivi che vanno sostenuti con tutte le forze disponibili. Possiamo quindi dire che la battaglia per i diritti delle donne accomuna senza distinzione tutti, perché un mondo con più diritti è un mondo migliore per tutti.

Mauro di Vieste

Le Nazioni Unite e il diritto dei popoli [ su ]

Pari opportunità e rafforzamento dei diritti delle donne

Andreas Bummel

Quando nel 1945 a San Francisco fu negoziata la Carta dell'ONU alcune delle poche donne delegate si riunirono con organizzazioni non governative per ottenere - con successo - che i principi delle pari opportunità e dei pari diritti tra uomo e donna fossero fissati nel documento costitutivo della Carta. Un anno dopo fu creata la Commissione ONU per la Condizione Femminile (CSW) con un relativo ufficio all'interno del Segretariato dell'ONU.

Michelle Bachelet è stata nominata direttrice di UN Women nel settembre 2010. Foto: © UN Photo/Paulo Filgueiras. Michelle Bachelet è stata nominata direttrice di UN Women nel settembre 2010. Foto: © UN Photo/Paulo Filgueiras.

Il CSW e in seguito anche altre istituzioni dell'ONU hanno ulteriormente sviluppato e dato impulso alla questione delle pari opportunità e dei pari diritti tra uomo e donna. In particolare modo sono risultate importanti le quattro conferenze mondiali delle donne in Messico (1975), a Copenhagen (1980), a Nairobi (1985) e a Pechino (1995) nonché il decennio ONU per le donne (1976 - 1985). I principi delle pari opportunità e della non-discriminazione di genere sono importanti pilastri della Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948 e nel frattempo sono stati fissati anche in nove accordi internazionali di diritto dei popoli, in particolare nell'accordo per l'eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW) del 1979.

"La sfida continua ad essere quella di riuscire a realizzare questa importante meta all'interno dell'ONU e nella quotidianità delle donne e ragazze di tutto il mondo", commenta l'attivista per i diritti delle donne Charlotte Bunch in un suo contributo al "Manuale di Oxford" sulle Nazioni Unite. Se da un lato l'accordo CEDAW è stato ratificato da quasi tutti i paesi del mondo, dall'altro molti dei 185 paesi firmatari hanno però fissato delle ampie clausole restrittive. Un ulteriore limite della Convenzione è la mancanza di meccanismi sanzionatori. Un protocollo integrativo del 2000, firmato da 100 paesi, offre se non altro la possibilità di accogliere e approfondire lamentele e denunce individuali.

Secondo la Bunch, la politica internazionale per le donne si è concentrata dapprima sull'ottenimento dei diritti politici e civili e negli anni '70 e '80 del secolo scorso ha iniziato a occuparsi dei problemi legati allo sviluppo e alla salute delle donne. E' stato riconosciuto il ruolo centrale della donna nello sviluppo sociale ed economico. Un ulteriore passo importante è stato fatto con la Conferenza mondiale dell'ONU sulla popolazione tenuta nel 1994 al Cairo che con il suo dettagliato programma d'azione ha fissato una linea guida politica da raggiungere entro il 2015. Tra i diritti umani fondamentali fissati dalla conferenza risulta anche l'autodeterminazione riproduttiva.

Negli anni '90 l'attenzione si è spostata su aspetti specificamente femminili dei diritti umani, della pace e della sicurezza. Durante i conflitti violenti le vittime di soprusi sistematici sono soprattutto donne, com'è accaduto p.es. in Bosnia (1992-1995) e in Ruanda (1994). I tribunali dell'ONU per entrambi i paesi hanno classificato lo stupro e la violenza sessuale come crimini contro il diritto dei popoli. Lo statuto del Tribunale Penale Internazionale del 1998 classifica la violenza sessuale e la "costrizione riproduttiva" all'interno di un'aggressione sistematica come crimine contro l'umanità.

La risoluzione 1325 dell'ottobre 2000 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU prende atto dell'importante ruolo ricoperto dalle donne nella prevenzione e soluzione dei conflitti armati. Queste e altre quattro risoluzioni rispettivamente del 2008, 2009 e del 2010 costituiscono un'importante base per le missioni di pace e per altri interventi dell'ONU.

Gli obiettivi del Millennio sono invece risultati essere deludenti: nonostante al punto 3 ci si proponga la parità di genere e il rafforzamento del ruolo delle donne, l'unica meta concreta che si è riusciti a fissare è stata l'eliminazione della differenza di genere nelle scuole primarie e secondarie entro il 2005 e a tutti i livelli dell'istruzione entro il 2015.

Da gennaio 2011 le attività di quattro enti dell'ONU per il rafforzamento del ruolo delle donne sono state unificate nell'organizzazione UN Women. Quest'ultima sostiene altre istituzioni e gruppi internazionali e aiuta i paesi membri dell'ONU a implementare le norme internazionali in materia. A far parte del comitato esecutivo composto da 41 membri è stata eletta anche l'Arabia Saudita dove i diritti delle donne sono estremamente limitati. Il finanziamento di UN Women dovrebbe avvenire perlopiù grazie ai contributi volontari dei paesi membri dell'ONU.

Kurdistan [ su ]

Le donne profughe kurde

Parvaneh Ghorishi

Parvaneh Ghorishi assiste profughi in Germania. Foto: archivio GfbV. Parvaneh Ghorishi assiste profughi in Germania. Foto: archivio GfbV.

I governi di Turchia, Iran e Siria si oppongono e combattono ogni tentativo di emancipazione delle rispettive popolazioni kurde. La distruzione del loro ambiente, l'analfabetismo, la povertà, le deportazioni, la tortura e gli stupri sono tutti strumenti utilizzati per punire, intimidire, demoralizzare e infine costringere la popolazione kurda a rinunciare ai propri diritti e alla propria cultura. In questa situazione sono proprio le donne a subire le violenze peggiori. Molte sono arrestate, torturate e stuprate a causa della loro appartenenza etnica, per la loro attività politica o per quella di qualche loro parente.

Contemporaneamente molte donne subiscono anche la violenza da parte dei propri familiari che le perseguitano e uccidono se solo hanno il coraggio - vero o a volte anche solo presunto - di opporsi alle vigenti norme morali. Molte donne kurde riescono a fuggire in esilio, ma per troppe di esse la relativa calma guadagnata con l'esilio coincide con l'apparizione di disturbi psichici causati dai violenti traumi subiti.

Io stessa sono Kurda. Nata nella città kurdo-iraniana di Sardasht sono poi cresciuta a Sanandaj. Nel 1974 mi sono laureata in psicologia presso l'università di Teheran e in seguito sono fuggita in Germania. Ho vissuto sulla mia pelle cosa significhi ritrovarsi improvvisamente in un paese sconosciuto e quanto possa essere disumana la burocrazia. I miei studi non furono riconosciuti e per riavere il mio diploma dovetti ripetere tutta l'università. Oggi sono psicoterapeuta e assisto molti profughi. I loro problemi si assomigliano e continuano a ricordarmi il mio passato. In Germania un richiedente asilo deve prima dimostrare di non essere un migrante economico. In una sola udienza deve enunciare tutti i fatti a giustificazione della sua fuga e della sua richiesta di asilo. Ma molte donne traumatizzate non sono in grado di raccontare quanto è loro successo, nemmeno quando vengono ascoltate da una donna. La violenza subíta viene spesso rimossa per evitare di sentirsi ancora dolorosamente impotenti ed esposte a un destino violento.

Le tracce lasciate dalla violenza spesso si fanno quindi strada attraverso malattie fisiche come continui mal di testa, disturbi cardiaci e circolatori, stati di panico, depressione, stati di agitazione, smemoratezza e disperazione. Altre fonti di destabilizzazione psicologica sono date dai lunghi tempi di attesa per ottenere risposta alla domanda di asilo durante i quali si dipende unicamente dagli aiuti statali, le continue minacce di espulsione, insomma, una vita tra speranza e paura. Spesso i profughi vengono sistemati in località fuori mano e lontane dalle grandi città rendendo così molto più difficili l'apprendimento della lingua, l'integrazione o anche la possibilità di accedere ad un aiuto psicologico. Molti profughi sono costretti a vivere per anni in condizione invivibili e prive di dignità, in alloggi in cui manca ogni possibilità di una sfera privata.

Tutti questi fattori indeboliscono la capacità di auto-guarigione delle vittime e comportano effetti destabilizzanti. I traumi irrisolti di molte donne kurde spesso generano dipendenze di vario genere oppure le mettono in condizione di subire i propri mariti. Spesso sopportano insulti, botte e trattamenti che le privano della loro dignità. La fuga in una casa protetta per donne viene spesso esclusa, poiché vista come un posto per donne "senza onore" - la mancanza delle corrette conoscenze linguistiche non permette loro di percepire la differenza.

"Le guerre finiscono, le case si ricostruiscono, le ferite guariscono, le strade vengono riasfaltate, ma notte dopo notte uno sconosciuto ti ruba la forza e la fiducia di cui hai bisogno per continuare a vivere."
(awina 2010)

Parvaneh Ghorishi è laureata in psicologia e lavora come psicoterapeuta.

Donne minacciate in tutto il mondo [ su ]

La violenza contro le donne indigene

AA.VV.

Ovunque esse si trovino, le donne indigene del mondo condividono la stessa minaccia: la violenza che mette in pericolo la loro vita e salute più di ogni altro fattore. La violenza sulle donne ha raggiunto un livello talmente preoccupante che nel 1999 le Nazioni Unite hanno deciso di proclamare il 25 novembre Giornata Mondiale per l'eliminazione della violenza alle donne. Quel giorno in tutti i paesi del mondo si realizzano manifestazioni e vengono avviate campagne di sensibilizzazione: il fiocco bianco distribuito alla gente simboleggia la condanna di ogni atto di violenza commesso contro una donna.

Ogni anno centinaia di donne (indigene) scompaiono e vengono ritrovate morte. I responsabili di questi crimini restano però impuniti. Il fenomeno è in crescita ed è diffuso in ogni angolo della terra, tanto che si parla ormai di "femminicidio" - un termine con cui si indica l'assassinio di donne apparentemente accettato o comunque poco combattuto dai governi nazionali. La causa per l'impunità sta nel ruolo esplicitamente o implicitamente subordinato che le donne ricoprono nella maggior parte delle società. La violenza domestica rientra anch'essa in questa forma di violenze. A tutela delle donne indigene vi sono diversi strumenti legali, come per esempio l'apposito passaggio nella Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite per la Tutela dei Popoli Indigeni o altre convenzioni internazionali. Le leggi però servono a poco se non vengono applicate.

Violenza contro donne indigene in zone di conflitto

Molti territori indigeni sono anche teatro di conflitti armati tra gruppi che si contendono risorse naturali ambite. La violenza (in tutte le sue forme) mirata contro le donne ha sempre fatto parte delle strategie di guerra e così le donne indigene subiscono due volte: una volta in quanto donne e poi ancora in quanto indigene. La destabilizzazione delle comunità e la distruzione della rete sociale sono i primi passi per cacciare le comunità indigene dai loro territori e si giocano sulla pelle delle donne. La violenza messa in atto dalle potenze coloniali per sopprimere la resistenza indigena continua ad essere praticata oggi tramite la militarizzazione dei conflitti. La sessualità diventa così metafora del dominio e dell'appropriazione del territorio decisa anche sul corpo delle donne. Le donne indigene diventano vittime della prostituzione forzata, di intimidazioni, tortura, stupri o lavoro forzato negli accampamenti militari.

Appianamento di conflitti e processi di pace gestiti da donne - un segnale di speranza

Nel dibattito attorno alle terribili violenze di cui le donne indigene sono troppo spesso vittime si tralascia quasi sempre un aspetto davvero importante, e cioè il ruolo fondamentale giocato dalle donne nei processi di pace. In caso di conflitto spesso le donne sono le prime a offrire un sostegno sociale e a colmare il vuoto dell'inesistente assistenza statale. Un maggiore riconoscimento del fondamentale ruolo di mediatrici svolto dalle donne indigene permetterebbe loro di creare migliori e maggiori strutture per l'autotutela.

Julia Bangerter, Helena Nyberg

Belle e libere? La donna cecena tra Adat, Islam e impero russo

La casa per le donne in Cecenia di Lipkan Basaieva. Foto: Sarah Reinke, GfbV. La casa per le donne in Cecenia di Lipkan Basaieva. Foto: Sarah Reinke, GfbV.

Con un tasso di disoccupazione del 80% per le donne cecene ci sono poche possibilità di lavoro. Inoltre sta ai suoi parenti maschi decidere se una donna può studiare o lavorare. Per la società vi è una sola soluzione: il matrimonio. Più giovane è la sposa più velocemente la sua famiglia si libera dell'incubo dell'onore di famiglia. Accade sempre più spesso che ragazze di quattordici o quindici anni lascino la casa dei genitori per sposarsi. Inoltre esse possono sposare solo un Ceceno, tutt'al più un Inguscio. Molti uomini giovani sono emigrati e quelli che sono rimasti nonostante le due guerre cecene di Yelzin (1994 - 1996) e di Putin (1999 - 2000) con i loro 200.000 morti hanno imparato che più dell'educazione può la violenza. La conseguenza è stata una società sempre più violenta, sia politicamente sia nel privato.

A fine novembre 2008 sette giovani donne cecene sono state fucilate con l'accusa di "comportamento immorale". L'incaricato per i diritti umani della Cecenia Nurdi Nuchadshiev ha commentato che per le donne dei popoli di montagna vale l'antico codice di comportamento Adat, secondo il quale gli uomini sono autorizzati al linciaggio qualora si sentano offesi dal comportamento di una donna. Le attiviste per i diritti umani cecene lamentano la crescente clericalizzazione e arcaicizzazione della società di cui il recente obbligo a portare l'hijab in pubblico è esempio.

L'attivista per i diritti umani Lipkan Basajeva, insignita nel 2005 del premio per i diritti umani della città di Weimar, gestisce il centro per donne "Dignità di donna" di Grosny. Grazie al sostegno finanziario dell'organizzazione di donne "Amica" di Friburgo, il centro offre alle donne assistenza ginecologica, psicologica e giuridica. Tra i vari servizi offerti figura anche l'assistenza legale fornita a donne separate e vedove per l'affidamento dei figli. Infatti, secondo l'Adat i figli restano sempre con i padri nonostante in Cecenia valga la costituzione russa che invece affida i bambini quasi automaticamente alle madri. Nel 2010 la giovane vedova Selicha Magomadova riuscì a far valere la costituzione sull'Adat e il tribunale di Grosny dispose che i suoi sei figli, trattenuti dal clan del padre, fossero consegnati e affidati alla madre. La sentenza costituisce un precedente legale.

Contemporaneamente la resistenza armata e radical-religiosa contro il Cremlino strumentalizza le giovani donne come "vedove nere" e mira a creare un califfato nel Caucaso settentrionale.

Irena Brežná è stata corrispondente di guerra in Cecenia, scrive regolarmente del paese caucasico e sostiene progetti per donne in loco. Nel 2008 è stato pubblicato il suo primo romanzo "Die beste aller Welten"; www.brezna.ch.

Siria. Decine di donne kurde imprigionate

In Siria l'impegno politico in opposizione al governo è un tabù e anche l'impegno per mantenere la lingua e cultura kurda diventa un'attività pericolosa. Chiunque contravvenga a questi tabù rischia il carcere e la tortura, anche se si tratta di una donna. Decine di donne kurde sono infatti detenute nelle carceri siriane.

Un esempio per tutte è quello dell'attivista kurda Rojin Remo, nata nel 1970 a Tirbespiyê/Qamilshlî e membro dell'associazione femminile Sitar. La sera del 29 luglio 2009 un veicolo delle forze di sicurezza siriane proveniente dalla città di Manbej arriva nella cittadina kurdo-siriana di Kobani per arrestare Remo che in quel momento si trova a casa di alcuni conoscenti. Ammanettata e caricata con forza sul mezzo viene portata in un luogo sconosciuto. Il 21 agosto 2009 è ricoverata all'ospedale Al-Kindi di Aleppo. Era stata torturata e stava molto male. La famiglia non è stata avvisata e probabilmente Remo è stata ricoverata sotto falso nome.

Il 3 agosto 2009 la polizia politica irrompe in una casa del quartiere Zorava di Damasco e arresta due donne: Felek Naz Khalil, nata il 30 ottobre 1968 a Dêrîk/Ain Dîvar e Afret Mohamed, nata nel 1975 ad Al-Hasaka. Da allora si è persa ogni traccia delle due donne il cui crimine è stato quello di essersi impegnate per la propria cultura e per i diritti del loro popolo.

Maria Sido è membro del direttivo dell'APM Germania.

Birmania. Donne Karen tra stupri e lavori forzati

Nel novembre 2010 oltre 200 profughi Karen sono fuggiti dal loro villaggio Pa Lu in Birmania verso la Thailandia. Foto: Prachatai, flickr. Nel novembre 2010 oltre 200 profughi Karen sono fuggiti dal loro villaggio Pa Lu in Birmania verso la Thailandia. Foto: Prachatai, flickr.

"I soldati hanno picchiato e stuprato più volte mia figlia 15enne", dichiara una donna sindaco di un villaggio dei Karen in Birmania. "Per mia figlia la vita è diventata un inferno. Dopo gli stupri è stata a un passo dal suicidio e ha perso la ragione".

Quanto successo a questa ragazza purtroppo non è un caso isolato. Nei territori delle minoranze etniche della Birmania, in cui da decenni si fronteggiano movimenti di liberazione e soldati dell'esercito, le donne sono spesso vittime dei crimini dei soldati birmani. Da 60 anni i Karen, come anche altre minoranze del paese, chiedono maggiore autonomia e il rispetto dei loro diritti civili e culturali. Di fronte al definitivo rifiuto delle autorità a discutere le loro richieste i Karen hanno impugnato le armi.

L'esercito e le milizie alleate si vendicano con violenza mirata sulla popolazione civile, soprattutto sulle donne. "I soldati mi hanno trascinata nella foresta e mi hanno costretta a restare con loro per tre giorni e tre notti", racconta un'altra donna Karen. "Mi hanno violentata e picchiata in faccia accusandomi di nascondere dei ribelli. Mi hanno pestata con i loro pesanti stivali."

La leader di un altro villaggio Karen racconta dei lavori forzati per costruire una nuova strada per l'esercito e delle ripetute e regolari aggressioni sessuali dei soldati durante i lavori. "Prima i soldati sono arrivati al mio villaggio e hanno portato via uomini e donne costringendoli a lavorare nella costruzione della strada. Molte donne sono state costrette a portare carichi pesantissimi e a procurare cibo e altre cose per i soldati. Poi hanno trascinato anche me nella foresta dove sono stata trattenuta come ostaggio. Di notte dovevo dormire tra i loro comandanti che si davano il cambio nel violentarmi."

Ulrich Delius

Cina. Donne uigure deportate nella Cina orientale

Nel 2006 trapelarono le prime notizie sulle deportazione di donne uigure da parte delle autorità cinesi ma presto il numero delle vittime raggiunse e superò i mille casi. Di fatto si tratta di una nuova forma di aggressione del governo cinese contro la popolazione musulmana del Turkestan orientale (Xinjiang) nella Cina nordoccidentale.

Con false promesse e enormi pressioni giovani uigure tra i 16 e i 25 anni vengono mandate a lavorare nelle fabbriche della Cina orientale. Una volta arrivate, la promessa del lavoro ben pagato sfuma immediatamente: le ragazze si trovano a fronteggiare condizioni di lavoro disumane, salari inesistenti e terribili condizioni abitative e sanitarie. Non mancano le denunce di abusi sessuali. Ridotte in schiavitù e lontane da casa per le ragazze è economicamente e psicologicamente impossibile tentare la fuga. Sanno che anche la famiglia a casa subisce enormi pressioni e le famiglie le cui figlie si rifiutano di partecipare ai cosiddetti "programmi di lavoro" subiscono l'esproprio dei campi o la distruzione della casa.

Le deportazioni sistematiche delle giovani donne fanno parte del programma di assimilazione degli Uiguri che include anche l'incoraggiamento e il sostegno fornito a centinaia di migliaia di cinesi Han che hanno deciso di migrare e insediarsi nel Turkestan orientale. Così negli scorsi decenni la composizione della popolazione è drasticamente cambiata a favore dei cinesi Han e di pari passo si è intensificata la discriminazione degli Uiguri. Per loro è diventato difficile trovare lavoro, non possono esercitare la loro religione né utilizzare la loro lingua nel sistema educativo. Manca anche la libertà di opinione e di stampa. Le ragazze e donne uigure sono le principali vittime dell'aggressiva politica di Pechino: oltre alle deportazioni e alla generale soppressione della loro lingua e cultura esse subiscono - all'interno della politica del figlio unico e nonostante le eccezioni previste per le minoranze etniche - sterilizzazioni e aborti forzati.

Jana Brandt è coordinatrice di progetti presso il Congresso Mondiale degli Uiguri (WUC) a Monaco.

Cina. Donne tibetane tra fuga e prigionia

Le due monache di Drapchi Namdrol Lhamo (sx) e Gyaltsen Drolkar durante una manifestazione a Londra. Foto: Foto: mylondondiary.co.uk. Le due monache di Drapchi Namdrol Lhamo (sx) e Gyaltsen Drolkar durante una manifestazione a Londra. Foto: Foto: mylondondiary.co.uk.

Nel marzo 2008, a pochi mesi dall'inizio dei giochi olimpici di Pechino, i Tibetani scesero in strada per protestare contro la loro situazione. La Tibetana Rogzin Dölma racconta così la violenta reazione delle forze dell'ordine cinesi: "Quando abbiamo manifestato i soldati hanno iniziato a spararci. Altri picchiavano i manifestanti fino a ucciderli, era inconcepibile. Anch'io fui picchiata e persi i sensi. Quando rinvenni mi trovai in una buca piena di acqua e fango con i poliziotti che mi correvano sopra." Rogzin Dölma si è nascosta per un intero anno spostandosi in continuazione da un posto all'altro. Poi ha deciso di rischiare la pericolosa fuga dalla Cina. Partendo da Lhasa Rogzin Dölma ha attraversato le vette innevate del Nepal fino a raggiungere il 14 gennaio 2010 la città indiana di Dharamsala, sede del governo in esilio del Dalai Lama. La storia di Dölma rispecchia quella di moltissimi Tibetani e Tibetane che ogni anno tentano di fuggire all'estero passando per il Nepal. La fuga è pericolosa, molti vengono sorpresi dai soldati, alcuni muoiono colpiti dal fuoco dei militari, altri di fame e altri ancora per le terribili condizioni climatiche dell'Himalaya. Rogzin Dölma è felice di avercela fatta ed essere riuscita ad arrivare in India. "Non posso dire i nomi delle persone e famiglie che mi hanno aiutata. Li metterei in grave pericolo."

A dimostrare particolare coraggio sono anche le monache tibetane. Phuntsok Nyidron, nota per essere una delle "14 monache cantanti di Drapchi", ha passato 15 anni in carcere: "Abbiamo subíto ogni forma di tortura. Per i carcerieri era normale usare le spranghe o gli elettroshock contro le detenute che esprimevano la propria opinione o che si rifiutavano di partecipare a misure educative comuniste. Nel maggio del 1998 cinque monache sono morte per aver osato protestare."

Katja Wolff

Darfur. Proteggere le donne con cucine solari

Donne della città darfuriana di Kutum cucinano con l'energia solare. Foto: Darfur Peace and Development. Donne della città darfuriana di Kutum cucinano con l'energia solare. Foto: Darfur Peace and Development.

Con l'inizio del genocidio in Darfur (2003) migliaia di donne sono state vittime di violenza sessuale. Molte donne non hanno più il coraggio di uscire dai campi profughi per cercare legna da ardere perché gli stupri appena fuori dai campi profughi sono ormai diventati triste quotidianità. In Darfur la violenza sessuale si è configurata come una vera e propria arma di guerra. I miliziani arabi Janjaweed si vantano del numero di donne africane che hanno violentato ottenendo così che nella maggioranza dei casi esse vengano escluse dalle famiglie.

Per proteggere le donne, l'APM collabora da anni con l'associazione locale Darfur Peace & Development (DPDO) finanziando un progetto di cucine solari. L'associazione darfuriana insegna alle donne a costruirsi da sole una cucina solare. A parte il fatto che l'invio delle cucine solari comporterebbe dei costi di spedizione altissimi, l'associazione vuole che le donne abbiano la possibilità di trovare nei mercati locali tutti i componenti necessari. Una pentola, buste di plastica, cartone, dei fogli di alluminio e colla - è tutto quanto serve per costruirsi una cucina solare - e del colore nero con cui dipingerle affinché possano accumulare quanto più calore possibile.

Chi frequenta i corsi della durata di tre giorni per imparare a costruire una cucina solare viene invitato a trasmettere le nuove conoscenze ai vicini. Per chi frequenta il corso c'è anche un libro di ricette. Il corso e i materiali per fabbricare una cucina solare costano complessivamente 20 Euro. Per le donne è una cifra che può addirittura salvare la vita.

Hanno Schedler è collaboratore della sezione Africa dell'APM.

Repubblica Democratica del Congo. Il "terrorismo sessuale" distrugge la società

Donne traumatizzate nell'ospedale di Panzi. Foto: Andre Thiel. Donne traumatizzate nell'ospedale di Panzi. Foto: Andre Thiel.

"Dal 1998 ad oggi centinaia di migliaia di donne e bambine congolesi sono state violentate e più di cinque milioni di persone sono state uccise. Tra le prime vittime c'erano anche la mia migliore amica, quasi una sorella, e suo marito. Il corpo della mia amica aveva più di cento fori di pallottola e il marito è stato ucciso a poca distanza da lei. Allora pensavo che si trattasse di un episodio di violenza isolato ma a partire dal 1999 la violenza contro donne e bambini è aumentata sempre di più. Nel settembre del 2000, quando una bimba di 18 mesi che era stata violentata è morta tra le mie braccia mentre la portavo in ospedale, ho smesso di credere nell'Occidente." In seguito a queste esperienze personali la congolese Christine Schuler-Deschryver ha iniziato a impegnarsi per le moltissime vittime di stupro in Congo.

Ufficialmente le elezioni del 2006 hanno sancito la pace e la democrazia nel paese, ma nella regione orientale del Kivu vengono commessi più crimini e sono in fuga più persone che nel Darfur. Ci sono voluti anni prima che l'opinione pubblica internazionale prendesse atto delle crudeltà e violenze commesse dalle milizie contro la popolazione civile. Ormai tutti i partiti in causa usano lo stupro per dimostrare il proprio potere o per intimidire la gente, dalle milizie tribali locali all'esercito regolare.

La Schuler-Deschryver sostiene l'ospedale di Panzi specializzato nel trattamento di donne e ragazze violentate e traumatizzate. Ogni anno vengono operate circa 3.600 donne, "ma bisogna sapere che le donne che arrivano in ospedale non hanno più alcuna scelta. E' come se fossero state mutilate", informa la Schuler-Deschryver. "Se la tua comunità viene a sapere che sei stata violentata devi lasciare il villaggio. Se sopravvivi sarà tuo marito a chiederti di andartene - quasi sempre insieme ai bambini."

Katja Wolff

Niger. Le donne Itsekiri del delta del Niger alzano la voce

Da oltre 50 anni i popoli nativi del delta del Niger subiscono le conseguenze dello sfruttamento petrolifero: le perdite degli oleodotti, i fiumi e i terreni contaminati e una fortissima incidenza delle malattie respiratorie. La popolazione però ha iniziato a protestare e sempre più spesso anche le donne alzano la voce: "Quando avevo quindici anni la situazione era esattamente la stessa", racconta Mercy Olowu, portavoce delle donne del popolo Itsekiri. "Non è cambiato nulla, a parte il fatto che la terra è ancora più contaminata e le nostre condizioni di vita sono ulteriormente peggiorate." Nell'estate del 2010 Mercy ha occupato insieme ad altre 300 donne del suo popolo il cantiere per la costruzione di un gasdotto dal costo di 800 milioni di dollari USA. Le donne hanno impedito alla ditta costruttrice di spostare le macchine dal cantiere. Secondo le donne è scandaloso che il megaprogetto serva a fornire energia a tutta la Nigeria ma che il loro villaggio, situato proprio accanto al gasdotto, non abbia elettricità.

Le donne chiedono un maggiore sostegno economico per i loro villaggi e più posti di lavoro per i giovani del posto. Senza alcuna prospettiva per il futuro sempre più giovani confluiscono in uno dei gruppi armati che rapiscono tecnici stranieri per un riscatto in denaro da chiedere alle multinazionali energetiche. "Ma," dice Mercy Olowu, "tutto ciò comporta solo ancora più violenza perché l'esercito e la polizia si vendicano brutalmente su noi donne". Un'azione punitiva delle forze dell'ordine comporta sempre la distruzione di un villaggio ma anche la violenza e lo stupro delle donne.

Molte donne nel frattempo hanno iniziato ad avere paura anche dei giovani miliziani pesantemente armati. Le armi rendono i giovani imprevedibili e spesso entrano nei villaggi pieni di rabbia e violenza che a volte finiscono per sfogare su donne e ragazze. Per questo motivo le donne chiedono il disarmo delle milizie anche se queste sostengono di lottare per i diritti della popolazione nativa.

Ulrich Delius

Canada. L'eredità coloniale degli Indiani e degli Inuit

Donne indigene manifestano a Vancouver durante il 'Women's Memorial March'. Foto: Christopher Bevacqua, flickr. Donne indigene manifestano a Vancouver durante il 'Women's Memorial March'. Foto: Christopher Bevacqua, flickr.

Il rapporto "Sorelle rubate" pubblicato nel 2004 ha obbligato l'opinione pubblica canadese a prendere atto di un fatto fino ad allora taciuto: dagli anni '70 del secolo scorso ad oggi in Canada sono sparite o sono state uccise 582 donne indigene. A questa cifra andrebbero aggiunti i casi non denunciati il cui numero si stima essere ancora più alto.

Né i responsabili politici né la giustizia e nemmeno le forze dell'ordine hanno voluto commentare i risultati del rapporto. Per convincere le autorità a reagire ci sono volute le pressioni delle organizzazioni per i diritti umani e di diverse istanze delle Nazioni Unite. Nell'ottobre 2010 il governo canadese annuncia quindi un piano d'azione che però punta più a combattere i sintomi piuttosto che le cause del fenomeno.

Nella provincia della British Columbia gli atti di violenza sono particolarmente numerosi. La violenza viene esercitata sulle persone più deboli della società canadese, donne indigene che in quanto tali subiscono sia la discriminazione razziale sia quella di genere. Le donne, che nella società indigena occupavano una posizione di rispetto e anche economicamente importante, hanno perso i loro diritti con il processo di colonizzazione che le ha ridotte a semplici "oggetti (sessuali) senza valore". Vittime della violenza sono giovani donne tanto quanto donne più anziane ma la cronaca ne parla perlopiù come di ragazze tossicodipendenti o prostitute. Certo, ci sono anche loro, e non c'è da meravigliarsi se si va a vedere da vicino le condizioni di vita delle popolazioni indigene canadesi. Le riserve indiane del 21. secolo sono ancora caratterizzate dalla povertà, dalla mancanza di speranza e di prospettive future. Le città potrebbero almeno in teoria offrire qualche possibilità ma in cambio vi è anche maggiore discriminazione. I governi nazionali e provinciali autorizzano le multinazionali a sfruttare le risorse delle terre indigene e lasciano la popolazione alla povertà.

I responsabili delle violenze contro le donne vengono raramente arrestati e condannati. La polizia è male addestrata, la giustizia lenta e negligente e la politica è indifferente. Lo scorso 12 novembre il Canada ha firmato la Dichiarazione dell'ONU sui Diritti dei Popoli Indigeni. Se il governo canadese intende veramente applicare i principi contenuti nella Dichiarazione allora dovrebbe dimostrarlo combattendo per prima cosa la diffusa violenza contro le donne indigene.

Monika Seiller

Guatemala. Donne Maya, discriminate tre volte

Durante i 36 anni di genocidio (1960-1996) le donne maya erano le vittime predilette del terrore di stato contro la popolazione civile. 200.000 indigeni maya persero la vita durante quel periodo. La messa in fuga della popolazione, la tortura e lo stupro erano i mezzi usati sistematicamente per diffondere il terrore. A quindici anni dalla firma dell'accordo di pace non vi è stata alcuna seria elaborazione dei crimini commessi dalle dittature e le donne maya continuano ad essere il gruppo sociale più svantaggiato del paese. Vittime del machismo diffuso, esse subiscono il disprezzo e l'estrema violenza che si scatena contro le donne. A ciò si aggiunge la discriminazione per essere indigene. Negli ultimi dieci anni gli assassinii di donne indigene sono continuamente aumentati. La violenza colpisce per l'estrema brutalità messa in atto. Prima di essere uccise, molte donne sono state torturate, stuprate e mutilate. I corpi vengono abbandonati sui cigli delle strade o in qualche discarica. L'impunità è diffusa e le indagini che seguono il ritrovamento di un corpo sono perlopiù delle brevi farse. Le vittime sono appunto donne indigene e le autorità non hanno alcun reale interesse ad individuare e portare in tribunale gli assassini.

Anna-Lena Herkenhoff studia sociologia a Münster, ha trascorso un semestre a San Sebastián in Spagna e sta svolgendo un tirocinio presso l'APM Germania.

Perù. Centinaia di migliaia di donne indigene sterilizzate a forza durante il governo Fujimori

Secondo i dati ufficiali, durante il governo Fujimori (1990-2000) in Perù sono state sterilizzate circa 300.000 donne, prevalentemente donne quechua. I documenti in possesso dell'ufficio nazionale per i diritti umani dimostrano che almeno 2.074 donne sono state sterilizzate contro la loro volontà. Molte non sapevano cosa le avrebbero fatto durante l'intervento oppure non erano state informate delle conseguenze. Altre ancora sono state minacciate di non ricevere più alcun trattamento medico se non avessero acconsentito all'intervento. Secondo le stime solo il dieci per cento delle donne avrebbe autorizzato l'intervento in seguito alla promessa di cibo, medicinali o soldi. Decine di donne sono morte durante l'intervento per le catastrofiche condizioni sanitarie nelle sale operatorie.

Allora il personale sanitario statale era costretto a sterilizzare mensilmente un numero fisso di donne stabilito dal ministero della sanità. I fondi necessari alla realizzazione del programma di sterilizzazione forzata arrivavano da finanziatori internazionali come il Fondo delle Nazione Unite per la Popolazione (UNFPA) e l'organizzazione per la cooperazione statunitense USAID.

Ciò nonostante nel maggio 2009 il pubblico ministero peruviano incaricato delle violazioni dei diritti umani Jaime Schwartz ha negato l'autorizzazione a procedere contro quattro ministri dell'allora governo Fujimori. I casi, così il pubblico ministero, non rappresentavano violazioni dei diritti umani ma reati contro il corpo, la vita e la salute e casi di omicidio e in quanto tali ormai caduti in prescrizione. La decisione del pubblico ministero fu confermata dalla procura nonostante l'istanza giudiziaria fosse stata presentata come caso di genocidio e di tortura e nonostante le forti proteste delle organizzazioni per i diritti umani. L'associazione delle donne forzatamente sterilizzate della provincia andina di Anta intende ora rompere l'impunità presentando una nuova istanza giudiziaria basata sulle testimonianze di circa 100 contadine quechua. Le donne sono sostenute dalla parlamentare quechua Hilaria Supa, la cui figlia fu a sua volta vittima del programma di sterilizzazioni forzate.

Yvonne Bangert è referente dell'APM per gli affari indigeni.

Serbia [ su ]

Il movimento di pace "Donne in nero"

Jasna Causevic

In Serbia le 'donne in nero' lavorano da 20 anni per la pace, la riconciliazione e la condanna dei criminali di guerra. In Serbia le 'donne in nero' lavorano da 20 anni per la pace, la riconciliazione e la condanna dei criminali di guerra.

Il movimento di pace serbo "Donne in nero" è stato fondato il 9 ottobre 1991 come protesta alla politica di guerra serba. Il movimento serbo è stato creato sul modello dell'omonima organizzazione fondata in Israele che dal 1988 organizza presidi contro il conflitto israelo-palestinese. 20 anni dopo, il movimento internazionale conta attiviste di ogni nazionalità, età, religione, credo ed estrazione sociale.

Negli anni della guerra dal 1991 al 1995 la rete serba costituiva un riferimento per tutti gli obiettori di coscienza, disertori e loro parenti e aiutava profughi e vittime di guerra. Oggi le Donne in Nero si impegnano per la cattura dei criminali di guerra e la loro condanna tramite tribunali nazionali e la Corte internazionale per i crimini di guerra all'Aia (ICTY).

Durante tutta la guerra in Bosnia le Donne in Nero e la loro presidentessa Staša Zajovic si sono opposte pubblicamente al clima di odio fomentato dal regime di Slobodan Milosevic senza farsi intimidire da diffamazioni e accuse che le definivano "una vergogna per la Serbia e il popolo serbo". In cambio le donne hanno sempre chiesto l'incondizionata persecuzione dei criminali di guerra e si sono appellate all'elite culturale serba affinché si assumesse la responsabilità morale sia per le guerre in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo sia per i crimini di guerra commessi nei Balcani occidentali. All'ideale maschile dei nazionalisti serbi esse hanno contrapposto un pacifismo senza compromessi.

A partire dagli anni 90 le Donne in Nero hanno continuato a organizzare presidi nonviolenti, tanto da avere al loro attivo più di mille manifestazioni, azioni e presidi. Per rendere più efficace la loro azione, le Donne in Nero organizzano corsi di formazione e laboratori per le loro attiviste, conferenze e dibattiti pubblici.

Il contatto con altri gruppi pacifisti e di donne in patria e all'estero è molto importante per le Donne in nero. L'organizzazione ha infatti ottimi rapporti con il Centro per donne e per la formazione di donne di Kotor (Montenegro), con il Centro per le donne vittime di guerra di Zagabria (Croazia), con l'Associazione Donne per le Donne di Sarajevo e con la Fondazione CURE di Sarajevo, con l'associazione "Donne di Srebrenica" di Tuzla (Bosnia Erzegovina) e con la rete di organizzazioni di donne del Kosovo. Grazie alle loro iniziative e alla loro presenza nei Balcani le Donne in nero sono diventate un'importante componente del locale movimento pacifista nonché della rete di organizzazioni pacifiste di donne di tutto il mondo.

Per ulteriori informazioni: www.zeneucrnom.org

Felicia Langer è un'avvocatessa israeliana a difesa dei Palestinesi [ su ]

"Il ponte esiste davvero"

Felicia Langer: 'Non posso vivere con le ingiustizie senza far niente per combatterle'. Foto: UNiesert (Wikimedia Commons). Felicia Langer: 'Non posso vivere con le ingiustizie senza far niente per combatterle'. Foto: UNiesert (Wikimedia Commons).

APM: Quale dei molti premi vinti riveste maggiore significato per Lei?
Felicia Langer: L'aver ricevuto il Premio Nobel alternativo, il premio più importante dopo il Premio Nobel, è stato un bel riconoscimento.

APM: Nel 1950 Lei è migrata insieme a suo marito in Israele dove poi ha studiato giurisprudenza. Come ha vissuto l'inizio della sua carriera professionale in un regno ancora tutto maschile?
F.L.: Ho dovuto impormi, essere sempre la migliore. Questo mi è rimasto dentro. Non è sempre stato facile. Dal 1965 al 1967 ho difeso gente povera ed esclusa. Certo, non ci ho guadagnato ma ne ho tratto molta soddisfazione.

APM: Come hanno reagito i suoi clienti palestinesi a Lei, come donna?
F.L.: All'epoca ero l'unica a difendere dei Palestinesi sulla base della solidarietà e della comprensione. Forse cercavano dell'empatia. Il mio primo cliente è stato un Imam. Venne con sua moglie, il loro figlio era in carcere. Avevano ricevuto recapitata la camicia del figlio macchiata di sangue e quindi sapevano che era stato picchiato. In quel momento mi sono sentita come sua madre e piangevo insieme ai genitori. In questo modo è crollato il muro tra di noi. Credo che quando esiste partecipazione, comprensione e vera solidarietà, la questione di genere diventa secondaria.

APM: Come ha iniziato ad essere conosciuta come avvocato per i diritti umani?
F.L.: E' stato un processo. Ero una donna, un'Israeliana e difendevo Palestinesi - terroristi, continuava a rinfacciarmi la gente. Ma ciò non è giusto perché non ho mai difeso chi ha perseguitato dei civili. Ma insieme alla fama è arrivato talmente tanto odio che anche questo ha contribuito alla mia notorietà. A un certo punto ho addirittura avuto bisogno di una guardia del corpo.

APM: Come è stata trattata dai suoi colleghi maschi?
F. L.: Coloro che hanno capito che per noi è un dovere difendere i Palestinesi in questa situazione di arbitrarietà mi hanno mostrato molta simpatia. Altri invece non riuscivano a nascondere il loro odio e questo mi ha fatto soffrire parecchio.

APM: Per quale motivo ha reso l'impegno per i Palestinesi il compito della sua vita?
F. L.: Lotto perché i Palestinesi vengono spogliati dei loro diritti e soffrono. Questa è un'occupazione crudele e colonizzatrice. Non posso vivere accanto all'ingiustizia senza fare niente.

APM: Perché ha lasciato Israele nel 1990?
F. L.: A partire dal 1987 mi sono resa conto che il mio lavoro era inutile. Il sistema giuridico israeliano è una farsa. Ero addirittura diventata un alibi per un brutto sistema. L'élite israeliana si vantava "abbiamo Felicia Langer! In Giordania o in Egitto non esiste nessuna Felicia Langer!" e così mi sono detta: "no, non voglio stare a questo gioco!" Per protesta ho chiuso il mio ufficio e ho reso pubblico questo mio passo. Anche il Washington Post ne ha parlato.

APM: Per quale motivo ha scelto la Germania come nuova residenza?
F. L.: Ho ricevuto un incarico per l'insegnamento all'università di Brema. In questo modo potevo portare avanti il mio lavoro per la pace e la giustizia, anche se in modo diverso.

APM: Nel 1998 la rivista israeliana "You" la annoverava tra le 50 donne più importanti della società israeliana ...
F. L.: Sì, per me è stato come un riconoscimento. Tardivo, ma importante!

APM: E' riuscita a raggiungere l'obiettivo della sua vita di creare un ponte tra Palestinesi e Israeliani?
F.L.: Se guardo a ritroso tutta la mia vita allora posso dire che questo ponte esiste davvero. Ancora oggi ricevo telefonate e riconoscimenti. Ci sono ragazze che in mio onore sono state chiamate Felicia. Ciò mi dimostra che basta costruirlo un ponte affinché continui a esistere.

Felicia Langer è ebrea di origine polacca. Nel 1949 sposa Mieciu Langer, sopravvissuto a cinque campi di concentramento. Nel 1950 la coppia migra in Israele dove nasce il loro figlio. Nel 1959 Felicia inizia a studiare giurisprudenza. A partire dalla Guerra dei sei Giorni (1967) difende Palestinesi davanti ai tribunali militari israeliani raggiungendo una notorietà che travalica le frontiere israeliane. Ha scritto numerosi libri. Nel 1990 chiude il suo studio e con il marito si trasferisce in Germania.

Alina Treiger, donna-rabbino [ su ]

Figura simbolo dell'ebraismo liberale

Hanno Schedler

In tutto il mondo ci sono 900 donne rabbino. Una di queste è Alina Treiger che nonostante i suoi 31 anni ha già avuto una vita movimentata. E' la prima donna ad essere ordinata rabbino in Germania dopo l'olocausto e prima di lei in Germania ci fu una sola donna rabbino: Regina Jonas.

Alina Treiger è stata ordinata rabbino nel novembre 2010. Foto: Matthias Süßen (Wikimedia Commons). Alina Treiger è stata ordinata rabbino nel novembre 2010. Foto: Matthias Süßen (Wikimedia Commons).

Regina Jonas nacque nel 1902 e terminò i suoi studi nel 1930 ma solo cinque anni dopo trovò un rabbino liberale che la ordinò a sua volta rabbino. Negli anni successivi lavorò come insegnante e come assistente spirituale in un ospedale ebraico di Berlino. Nel 1942 fu deportata nel campo di concentramento di Theresienstadt dove assieme allo psicoanalista viennese Viktor Frankl, anch'egli deportato, assistette gli altri detenuti per evitare che si suicidassero. Nell'ottobre 1944 la Jonas fu trasferita ad Auschwitz e assassinata, probabilmente il 12 dicembre 1944.

Alina Treiger è nata nel 1979 nella città ucraina di Poltava. Già da giovane era consapevole delle sue origini ebraiche nonostante a Poltava non vi fosse nessuna sinagoga e nemmeno una comunità ebraica. Il regime comunista proibì al padre Phula di studiare ma poiché la madre non era ebrea, Alina crebbe laica e si convertì all'ebraismo solo successivamente. Dopo il crollo del regime sovietico la Treiger conobbe altri ebrei e fondò un club giovanile ebraico. Inseritasi nel dominante ebraismo ortodosso, si trovò in disaccordo con il ruolo riservato alle donne e passò quindi all'ebraismo liberale. Inizialmente aveva iniziato a studiare musica ma nel 1998, dopo un viaggio di nove giorni in Israele, sentì che la religione era la sua vocazione. L'Unione mondiale dell'ebraismo progressista (World Union of Progressive Judaism, WUPJ) le rese possibile prima una formazione come assistente comunitaria a Mosca e poi le offrì la possibilità di studiare in Germania. Il 7 luglio 2001 Alina Treiger raggiunse Berlino, munita solo del suo visto per motivi di studio presso il collegio Abraham-Geiger dell'università di Potsdam, una piccola valigia e nessuna conoscenza del tedesco. Lo scorso 4 novembre Alina Geiger è stata ordinata rabbino nella sinagoga in via Pestalozzi a Berlino/Charlottenburg, alla presenza del presidente federale tedesco Christian Wulff e dell'allora presidentessa del Consiglio centrale Ebraico in Germania Charlotte Knobloch. L'evento è stato ripreso da buona parte della stampa internazionale. Alla BBC Alina Treiger aveva dichiarato: "Non sono stata io a scegliere questo lavoro, è stato il lavoro a sceglier me".

Ora Alina Treiger assiste le comunità di Oldenburg e Delmenhorst dove una buona parte dei circa 500 credenti proviene dall'ex-Unione Sovietica. Per Alina Treiger è un vantaggio poter trasmettere la propria fede anche in ucraino o russo a tutti coloro che ancora non parlano bene il tedesco e che a causa del periodo comunista hanno poca dimestichezza con la propria religione.

L'ebraismo liberale
L'ebraismo liberale affonda le sue radici principalmente nella Germania del 18esimo e 19esimo secolo e si basa tra l'altro sulle concezioni di Moses Mendelssohn, Israel Jacobsohn e Abraham Geiger. La corrente liberale interpreta la rivelazione non come atto unico, durante il quale Mosé ricevette da Dio letteralmente la Thora (l'insegnamento scritto) e tutte le interpretazioni (l'insegnamento orale, poi trascritto nel Talmud), ma come un processo dinamico tutt'ora in corso che parte da Dio ed è mediato dall'uomo. Nell'ebraismo liberale vige la completa equiparazione tra uomo e donna in tutti gli aspetti religiosi.

Attivista kurda per i diritti umani in Turchia [ su ]

Leyla Zana: "Noi Kurdi dobbiamo essere uniti"

Ciò che segue sono spezzoni di un discorso pronunciato dall'attivista per i diritti umani kurda Leyla Zana durante il primo congresso delle donne kurde della Turchia, dell'Iraq, dell'Iran, della Siria, in Europa e dei paesi della Comunità di Stati Indipendenti (CSI), tenuto in aprile 2010 a Diyarbakir (Turchia). Tra le varie esperienze di vita, Leyla Zana ha trascorso undici anni in carcere per aver utilizzato la sua lingua, il kurdo, al parlamento turco.

A partire da [gli accordi di] Qasr-e-Shirin [1639] e Losanna [1923] che hanno diviso la terra kurda, le nostre donne [kurde] hanno subíto la persecuzione politica, culturale e religiosa nonché lo sfruttamento economico. E' per questo che dobbiamo impegnarci con particolare forza per creare una società pacifica, democratica e con pari diritti tra uomini e donne.

Questa conferenza non serve solo a parlare delle ingiustizie nei confronti delle donne e delle limitazioni che subiscono. Bisogna affrontare anche temi quali la lapidazione, la mutilazione genitale femminile, la vendetta d'onore, i matrimoni obbligati, la violenza sessuale, lo stupro e il divieto all'utilizzo della propria lingua. Tutti questi sono problemi quotidiani e attuali a cui dobbiamo dedicarci. Anche se non sarà possibile trovare delle soluzioni dall'oggi al domani, credo che noi, in quanto vittime e sostenitrici di altre vittime, potremmo ottenere l'attenzione dell'opinione pubblica. D'ora in poi dobbiamo lavorare insieme in modo organizzato per affrontare queste tematiche.

Le donne kurde lottano sia per i loro diritti di donne sia per la libertà e l'identità nazionale dei Kurdi. Quindi la voce della donna kurda è spesso la voce degli oppressi e dei senza-voce. Le donne kurde che vivono in Kurdistan e nella diaspora oggi si riuniscono per la prima volta. Vediamo che molti paesi e molte nazioni tentano di costruire delle relazioni con i Kurdi. Se noi Kurdi comunicassimo in modo aperto e sincero tra di noi allora potremmo creare un dialogo migliore anche con i paesi nostri vicini. Finché i Kurdi non riescono a mettersi d'accordo tra di loro, non potremmo contare sulla solidarietà degli altri. Senza solidarietà non vi è unità e senza unità non c'è forza, e senza forza non vi potrà essere una pace sicura!

[Traduzione del discorso originale di Cigdem Cagirigi. Versione italiana di Sabrina Bussani].

'Madri del sabato' a Diyarbarkir. Foto: Ahmet Ün. 'Madri del sabato' a Diyarbarkir. Foto: Ahmet Ün.

Le "madri del sabato" kurde cercano i loro figli
Ogni sabato a Diyarbakir un gruppo di donne kurde si siede a gambe incrociate a manifestare in silenzio con le foto dei propri cari in mostra. Le madri del sabato cercano i loro figli, fratelli, mariti e padri. La guerra tra il movimento clandestino kurdo PKK e lo stato turco, durata dal 1984 al 1999, ha fatto 42.000 vittime, ma le persone scomparse, di cui non si è più saputo nulla, sono tuttora 17.000. L'iniziativa delle madri del sabato è nata nel 1995 a Istanbul. Agli inizi degli anni 1990 il numero di persone fatte scomparire era aumentato vertiginosamente. Con il pretesto della lotta al terrorismo, lo stato turco perseguitava sistematicamente presunti membri del PKK e la popolazione civile kurda. Il 21 marzo 1995 scomparve l'insegnante 30enne Hasan Ocak. 55 giorni dopo sua madre identificò il suo corpo. Sotto la sua guida le madri si incontrarono per la prima volta il 27 maggio 1995 a Istanbul. Da allora protestano tutti i sabati per opporsi al governo e alla giustizia turca che continuano a tacere su questi omicidi. Vogliono far sapere all'opinione pubblica l'esistenza di questi reati e così evitare che si ripetano. Per quattro anni hanno resistito a tutti i tentativi delle autorità turche di porre fine alla loro protesta e nel frattempo l'iniziativa è stata ripresa dalle madri di altre città, come ad esempio a Diyarbakir dove le donne continuano tuttora a protestare silenziosamente ogni sabato.

Carina Schlüsing

Kurdistan [ su ]

Le donne del Kurdistan iracheno

Cinur Ghaderi

Nel Kurdistan autonomo non ci sono "LE" donne, ci sono invece parlamentari, panettiere, professoresse, analfabete, nubili e donne che vivono in matrimoni poligami, donne anziane che hanno vissuto la dittatura Baa'th e donne giovani. Le condizioni di vita durante la dittatura erano notevolmente diverse da quanto siano oggi nonostante l'influenza storica sia ancora percepibile.

Donne Barzan con le rappresentanti dell'Associazione popoli minacciati Fadila Memisevic e Maria Sido. Foto: archivio GfbV. Donne Barzan con le rappresentanti dell'Associazione popoli minacciati Fadila Memisevic e Maria Sido. Foto: archivio GfbV.

Proprio come gli uomini kurdi (musulmani e yezidi) e come chi apparteneva ad un'altra minoranza (Assiro-Caldei-Aramei, Turkmeni) così anche le donne kurde hanno subíto le persecuzioni del regime di Saddam Hussein e del partito Baa'th (1968 - 2003) che complessivamente hanno causato 500.000 morti.

Per due giorni, dal 16 al 18 marzo 1988, 88 aerei iracheni hanno bombardato la città di Halabja e i suoi 80.000 abitanti con gas nervini. Almeno 7.000 persone sono state uccise o hanno riportato danni permanenti. L'operazione denominata "Anfal" consisteva in una serie di omicidi di massa della popolazione civile del Kurdistan eseguiti dall'esercito iracheno tra il 1988 e il 1989. Gli omicidi miravano soprattutto a eliminare uomini abili al lavoro e ragazzi tra gli undici e i cinquant'anni. Migliaia di villaggi sono stati distrutti, centinaia di migliaia di persone uccise e/o deportate. La maggior parte di esse non è mai più riapparsa. L'offensiva Anfal era coordinata da Ali Hassan Al Majid, conosciuto anche come Ali il chimico, cugino di Saddam Hussein. Il 30 luglio 1983 è stato uno dei giorni più tragici della dittatura di Saddam Hussein. Quel giorno i militari iracheni hanno caricato su dei camion e deportato praticamente tutta la popolazione maschile della valle di Barzan. Le donne persero i loro mariti, i loro figli, fratelli e padri. Tutti i deportati sono stati uccisi e non si sa cosa sia accaduto a 8.000 uomini e ragazzi di cui non sono mai stati trovati i corpi.

Per le vedove di Germian e Barzan si tratta di eventi che hanno segnato la loro quotidianità. A partire dal quel giorno la maggior parte dei pensieri delle vedove di Anfal ruota attorno ai cari persi. In parte esse sono sostenute dal governo con una piccola pensione o con l'assegnazione di un piccolo terreno ma molte di loro attendono ancora l'apertura delle molte fossi comuni sparse in Iraq. Ciò che cercano è la certezza sul destino del proprio familiare, il riconoscimento delle loro sofferenze e la riparazione. I crimini commessi contro la popolazione hanno avuto ripercussioni anche sulla cultura delle minoranze colpite. La paura e il terrore hanno spinto la gente ad aggrapparsi ancora di più alle strutture tradizionali e religiose, percepite come parte di un'identità messa in pericolo. Per le vedove di Anfal non è possibile iniziare una nova vita e andare a lavorare. Senza un uomo che le "protegga", che sia questo un marito, un figlio o il padre, esse subiscono fortissime pressioni sociali.

Per fortuna in questa situazione le vedove di Anfal trovano sostegno e speranza presso le associazioni delle vittime e alcune organizzazioni non-governative (Ong). L'associazione Haukari, p.es., promuove la corretta elaborazione degli eventi storici, il riconoscimento delle sofferenze recate alla popolazione e l'erezione di monumenti commemorativi. L'Ong Vejin con sede a Barzan, fondata nel 2007 con il sostegno dell'APM, compie ricerche sul destino delle vittime della valle di Barzan per poter dare certezze ai parenti sopravvissuti ai quali fornisce anche aiuti umanitari e logistici.

L'offensiva Anfal e la parità di genere sono temi trattati anche dai partiti politici del Kurdistan iracheno ma troppo spesso servono semplicemente a giustificare le pretese di potere dei vari politici. La discussione sulla "gender equality" (parità di genere) infatti non va mai oltre le belle parole, difficilmente la teoria viene trasformata in pratica e perlopiù si ha la sensazione che i diritti delle donne, come il rispetto della quota fissa riservata in parlamento alle donne, vengano rispettati solo malvolentieri.

Cinur Ghaderi è psico-terapeuta laureata e lavora presso il Centro psicosociale per profughi a Düsseldorf. E' nata nel 1970 a Sulemania/Kurdistan iracheno e per diversi anni è stata collaboratrice dell'emittente televisiva WDR.

Mongolia cinese [ su ]

Arresti familiari per la moglie dell'attivista per i diritti umani incarcerato

Katja Wolff

Difficilmente Xinna avrebbe potuto immaginare un destino più difficile di quello che le è toccato. Suo marito, il noto attivista per i diritti umani mongolo Hada aveva scontato la sua condanna a 15 anni di detenzione e avrebbe dovuto essere liberato lo scorso 10 dicembre 2010. Proprio per la Giornata dei Diritti Umani. Lo stesso giorno in cui lo scrittore cinese Liu Xiaobo, anch'egli detenuto, è stato insignito del Premio Nobel per la Pace. Mentre la 55enne Xinna aspettava la liberazione del marito, le autorità cinesi hanno deciso di rinforzare le misure di sicurezza per prevenire possibili proteste.

Xinna e il figlio Uiles visitano Hada (al centro) in carcere. Foto: free-hada-now.org. Xinna e il figlio Uiles visitano Hada (al centro) in carcere. Foto: free-hada-now.org.

Il 4 dicembre 2010, quando sono arrivati i poliziotti cinesi ad arrestarla, Xinna si trovava nella sua libreria a Hohot, capitale della Mongolia Interna. Le forze di sicurezza hanno confiscato centinaia di libri, CD e molto altro materiale e hanno fatto mettere dei catenacci all'entrata della libreria. Contemporaneamente la polizia ha perquisito il magazzino della libreria in cui lavorava il figlio di Hada e Xinna. Uiles è corso in un Internet caffè e prima di essere a sua volta arrestato è riuscito a informare l'opinione pubblica mondiale dell'arresto della madre.

Pochi giorni prima della consegna del Premio Nobel per la Pace e della liberazione dell'attivista per i diritti umani le autorità cinesi temevano che anche nella Mongolia interna potessero scoppiare disordini. Per decenni Hada si era impegnato a favore della difesa della sua cultura, lingua e religione e per una maggiore partecipazione politica dei Mongoli. Per tutto il 20esimo secolo i circa 5,8 milioni di Mongoli hanno subíto una sistematica politica di assimilazione che tra le altre cose ha costretto all'insediamento i popoli nomadi della Mongolia. Grazie al sostegno di una massiccia immigrazione di Cinesi Han nella regione, i Mongoli sono stati trasformati in una minoranza nella propria regione.

Xinna ha sempre sostenuto la lotta politica del marito e per questo è stata più volte arrestata. Quando nel 1995 Hada è stato arrestato per spionaggio, separatismo e organizzazione di truppe controrivoluzionarie, Xinna ha appeso un cartello alla vetrina della libreria su cui si leggeva che Hada ed altri attivisti erano stati arrestati o minacciati. Il cartello le costò un nuovo arresto il 16 dicembre 1995, da cui fu liberata su cauzione il 12 gennaio 1996. Ma fu nuovamente arrestata il 28 gennaio 1996 dopo aver rilasciato un'intervista a dei giornalisti stranieri. Nonostante anche questa volta non vi fu alcuna accusa formale nei suo confronti, Xinna venne rilasciata solo in aprile. Durante i 15 anni di detenzione del marito, Xinna ha scritto numerose lettere, tra cui al presidente e al primo ministro cinesi, a diverse autorità e alle direzioni carcerarie cinesi. In una lettera al presidente Hu Jintao e al premier Wen Jiabao lamenta il cattivo stato di salute del marito: "Ogni volta che lo vede durante una delle mie visite mi si spezza il cuore. Ha un aspetto completamente diverso da quello che aveva prima della prigionia."

In un'altra lettera scritta nel giugno 1998 all'allora presidente degli Stati Uniti d'America Bill Clinton in visita in Cina si legge: "Durante il mese di marzo del 1997 mi sono recata a Chifeng per visitare mio marito. Non appena tornai a Hohot fui chiamata dall'Ufficio per la Sicurezza Pubblica della Mongolia Interna (IMPSB) che mi intimò di raccontare loro tutto quanto avevo detto a mio marito. Di fatto mi hanno privato della mia libertà di parola." Al presidente statunitense Xinna chiese di "invitare il governo cinese (1) a concedere a tutte le persone della Cina, anche alle persone appartenenti a una minoranza, una reale libertà di espressione, di pubblicazione, di riunione, di rappresentazione e di manifestazione come previsto dalla Costituzione, (2) a rispettare rigorosamente la legislazione cinese e internazionale e a concedere l'autodeterminazione alle minoranze, e (3) a liberare mio marito Hada così come tutti i prigionieri politici e di porre fine alla repressione delle minoranze."

Dopo l'arresto di Xinna e Uiles si sono perse le tracce di tutta la famiglia e restano tuttora sconosciuti i luoghi in cui sono detenuti Hada, Xinna e Uiles.

Aminatou Haidar - attivista per i diritti umani del Sahara occidentale [ su ]

"Viva o morta"!

Astrid Bracht

Aminatou Haidar, chiamata dai suoi conterranei anche la "Gandhi dei Saharawi", da decenni è impegnata nella lotta per l'indipendenza del Sahara occidentale. Dal 1975 il Marocco occupa illegalmente l'ex-colonia spagnola. Rapimenti di persone, arresti arbitrari, maltrattamenti e tortura dei prigionieri, la sistematica soppressione delle libertà di opinione, di stampa e di riunione sono tutti mezzi utilizzati dal governo marocchino per mantenere il controllo sui Saharawi.

Aminatou Haidar in mezzo ad alcune amiche presso El Aaiùn. Foto: Saharauiak (Wikimedia Commons). Aminatou Haidar in mezzo ad alcune amiche presso El Aaiùn. Foto: Saharauiak (Wikimedia Commons).

Aminatou Haidar ha trascorso diversi anni nelle prigioni marocchine. La presidentessa del Collettivo dei Difensori Saharawi dei Diritti Umani (Collectif des défense sahraouis des droits de l'homme - CODESA) ha avuto un ruolo importante in diverse campagne per la liberazione di prigionieri politici saharawi. Aminatou Haidar lavora affinché tutti, in Marocco come all'estero, sappiano delle violazioni dei diritti umani commesse nel Sahara occidentale. Il suo impegno pacifico le è valso molteplici premi internazionali e nel 2008 è stata anche nominata per il Premio Nobel per la Pace.

Nel dicembre 2009 Haidar, dopo aver ritirato un premio negli USA, voleva tornare a casa dalla sua famiglia ma per riuscirci ha dovuto rischiare la vita. Aminatou Haidar all'epoca aveva 42 anni, era ed è tuttora due volte madre e tornava dagli Stati Uniti d'America dove era stata insignita di un premio per il coraggio civile che viene assegnato ogni anno "per l'incrollabile resistenza all'iniquità nonostante l'alto rischio personale". Il 14 novembre 2009 avrebbe dovuto tornare nel Sahara Occidentale e come ogni volta che si reca all'estero, al rientro riempie i moduli per l'ingresso in Marocco scrivendo "Saharawi" e non "marocchina" nel campo della nazionalità. Questa volta però le autorità di frontiera hanno colto l'occasione per accusare la Haidar di negare la sua identità marocchina, ritirarle passaporto e caricarla su un aereo diretto all'isola delle Canarie Lanzarote. Re Mohammed VI ha commentato così l'accaduto: "Uno o è marocchino oppure è traditore."

Per protesta contro la sua deportazione illegale e poiché la Spagna non le permetteva di lasciare il paese senza un passaporto valido, la Haidar ha dato inizio a uno sciopero della fame proprio là, all'aeroporto di Lanzarote. "Tornerò ad El Aaiún", affermava l'attivista per i diritti umani, "con o senza passaporto, viva o morta". Nelle settimane a seguire il caso della Haidar divenne un problema internazionale per il Marocco. Lo stato di salute dell'attivista andava peggiorando rapidamente e finalmente la presidenza dell'Unione Europea, il ministro degli esteri USA Hillary Clinton e il segretario generale dell'ONU Ban Ki-Moon hanno esercitato le pressioni necessarie affinché il governo del Marocco permettesse alla Haidar di tornare a casa. Il 17 dicembre 2009, dopo 32 giorni di sciopero della fame, Aminatou Haidar ha dovuto essere trasportata in ospedale. Poco dopo le autorità marocchine le hanno rilasciato il permesso di tornare a casa. "E' un trionfo per la legislazione internazionale, per i diritti umani e per il Sahara Occidentale", ha dichiarato l'attivista poco prima di lasciare Lanzarote.

Aminatou Haidar è nata ad El Aaiún nel 1967 ed è laureata in letteratura moderna. Finora ha pagato caro l'impegno a favore dei diritti del popolo Saharawi: all'età di 20 anni partecipò a una manifestazione in cui si chiedeva un referendum popolare per decidere sul futuro del Sahara Occidentale. La Haidar fu arrestata e trattenuta per quattro giorni in un luogo segreto. Alla sua liberazione sembrava l'ombra di sé stessa, provata dalla tortura non riusciva quasi a camminare. Ma la sua volontà di vivere e lottare restò indomita. Durante una manifestazione del giugno 2005 fu nuovamente arrestata. La polizia marocchina usò dei bastoni per picchiarla talmente forte che alla fine le ferite dovettero essere cucite. La Haidar fu condannata un'altra volta a sette mesi di detenzione durante i quali iniziò uno sciopero della fame di sette settimane per chiedere migliori condizioni di detenzione per sé e per le sue compagne di prigionia.

Aminatou Haidar sicuramente continuerà la sua lotta pacifica per l'indipendenza del Sahara Occidentale, dovesse anche costarle la vita.

L'estrazione dell'uranio minaccia la sopravvivenza di interi popoli [ su ]

Donne indigene si mobilitano contro la lobby dell'uranio

Helena Nyberg / Incomindios Svizzera

Gli Havasupai Carletta e Rex Tilousi. Foto: Ruedi Suter. Gli Havasupai Carletta e Rex Tilousi. Foto: Ruedi Suter.

"L'estrazione dell'uranio lascia un'eredità avvelenata con cui fare i conti anche molto tempo dopo la chiusura di una miniera, nuoce alla nostra salute e ferisce madre Terra," dichiara Charmaine White Face. La portavoce della Nazione Tetuwan Sioux (Lakota) di Pine Ridge nel Sud-Dakota/USA si batte tramite la sua organizzazione Defenders of the Black Hills (Difensori delle Black Hill) per fermare l'intero circuito dell'uranio.

Nelle colline delle Black Hill l'uranio fu scoperto negli anni '50 del secolo scorso. In questa regione sacra ai Lakota hanno proliferato migliaia di miniere che ormai sono ferme da oltre 40 anni. Nel Wyoming l'acqua contaminata fluisce direttamente nel Cheyenne River che trasporta il materiale radioattivo direttamente nella Riserva di Cheyenne River nel Sud-Dakota occidentale. Il letto del fiume, l'acqua e la terra circostante sono contaminate radioattivamente; gli abitanti della riserva devono procurarsi e comprare altrove l'acqua potabile. Il vento trasporta una finissima polvere carica di uranio. "Non vi è famiglia che non subisca in qualche modo la radioattività. Molti bambini sono malati di leucemia e la gente ha bevuto per anni l'acqua contaminata", racconta Charmaine. La portavoce dei Tetuwan Sioux è una donna piccola e gracile, ha il corpo segnato dai danni provocati dalla radioattività e due occhi scuri che trasmettono tutta la sua imperturbabile forza combattiva. "Quando lottavo per far analizzare l'acqua della nostra riserva, pur di fermarmi è stato anche arrestato mio figlio - senza una vera accusa."

La storia raccontata dalla Tuareg Azara Jalawi, vicepresidentessa del Coordinamento per la Società Civile di Arlit/Niger, sembra diversa ma non differisce poi di molto nelle conclusioni. "Sulla nostra terra ci sono due miniere di uranio e sono state date 130 licenze per l'esplorazione di aree potenzialmente ricche di uranio. Siamo stati cacciati dalle nostre case senza ricevere alcun tipo di risarcimento. Non vogliamo che le ditte esploratrici avvelenino la nostra terra e distruggano la nostra quotidianità e il nostro stile di vita tradizionale." Senza fornire informazioni complete alla popolazione, la ditta francese AREVA ha iniziato a estrarre uranio nelle regioni Tuareg del Niger. Arlit è stata trasformata in un centro di estrazione di uranio e gli operai Tuareg sono stati obbligati a diventare sedentari ad Arlit. Soprattutto all'inizio gli operai venivano pagati non in soldi ma in materiale da costruzione per le case, poco importava se tra il materiale c'erano anche componenti contaminate. Gli alti valori di radiazione nelle loro case sono poi stati misurati e pubblicati dall'organizzazione CRIIRAD.

Per i popoli aborigeni dell'Australia le miniere di uranio sono solo una parte del problema. Un'altra parte ha a che vedere con le conseguenze dei test di armi atomiche condotti nei loro territori. Rebecca Bear Wingfield, vicepresidentessa dell'Australian Nuclear Free Alliance e membro del consiglio degli anziani degli Arabunna, Kokatha e Kupa Pita Kungka Tjuta, racconta: "Il mio popolo è costretto a convivere con l'estrazione di uranio e con i test di armi atomiche. Sperimentiamo i danni provocati dalla radioattività sul nostro corpo e vediamo i danni a lungo termine sulla nostra terra." Secondo Rebecca Bear Wingfield la sua sterilità e i suoi problemi di salute dipendono direttamente dalla contaminazione radioattiva del territorio. Ora si impegna per costruire una rete che raccolga e metta in contatto gruppi e organizzazioni indigene e di donne per mettere la popolazione in guardia dai danni e dai problemi per la salute causati dall'estrazione di uranio e dai test di armi atomiche. Rebecca non si ferma mai troppo a lungo nello stesso posto, "non puoi mai sapere quando diventi un bersaglio per i tuoi oppositori, ma il sogno di un mondo libero dal nucleare vale i sacrifici che devo fare".

Carletta Tilousi è una Hasupai e nipote del leader spirituale Rex Tilousi. Da vent'anni Carletta Tilousi è impegnata nella lotta per una giustizia sociale e ambientale per il più piccolo dei popoli nativi degli USA. Inizialmente lottava contro l'estrazione di uranio su terre demaniali a cui si doveva la contaminazione delle acque freatiche della terra Havasupai e che metteva in pericolo la montagna sacra Red Butte. Carletta Tilousi è una delle poche (donne) Pai a cui è riuscito lasciare lo stretto canyon in cui vivono gli Havasupai per andare a studiare all'università dell'Arizona. Dopo la laurea in giurisprudenza è tornata a casa e per due legislature è stata consigliera del governo del consiglio tribale degli Havasupai. A partire dal 1990 continua ad essere invitata a conferenze sull'uranio in Europa, l'ultima volta nel 2009 in Svizzera. Attualmente è presidentessa dell'organizzazione Red Rock Foundation Inc. che si occupa della formazione e del sostegno di tribù indiane colpite da distruzione e problemi ambientali.

Natividad Llanquileo è la portavoce dei prigionieri mapuche in Cile [ su ]

Il giovane volto della resistenza

Anna-Lena Herkenhoff

Nonostante la giovane età - 26 anni appena - Natividad Llanquileo è probabilmente la persona più nota del movimento mapuche. Il suo impegno pubblico per i diritti dei prigionieri politici mapuche è iniziato nel luglio 2010, quando 34 prigionieri politici mapuche iniziarono uno sciopero della fame che si sarebbe protratto per 80 giorni. Allora Natividad Llanquileo fu nominata portavoce dei Mapuche detenuti nelle carceri cilene di Concepción e Lebu.

Natividad Llanquileo ha lasciato gli studi di giurisprudenza in occasione dello sciopero della fame dei detenuti mapuche. Foto: Méndez_vision, flickr. Natividad Llanquileo ha lasciato gli studi di giurisprudenza in occasione dello sciopero della fame dei detenuti mapuche. Foto: Méndez_vision, flickr.

Natividad Llanquileo è una giovane donna dai capelli lunghi neri e dagli occhi marrone scuro. E' cresciuta a Tirúa nella provincia cilena di Arauco. Circa il 47% degli abitanti di Tirúa è Mapuche. Natividad ricorda così la sua infanzia: "Abbiamo avuto fortuna, non abbiamo sofferto la fame. Sì, non avevamo scarpe né vestiti finché qualcuno non ci ha regalato qualcosa. Erano abiti troppo grandi, per adulti, e vestiti così facevamo abbastanza ridere". I genitori lavoravano per finanziare l'educazione dei figli. Natividad e i suoi sei fratelli dovevano aiutare molto in casa, "dovevamo rastrellare, arare, cucinare o lavare". Per i genitori di Natividad era importante che i figli fossero orgogliosi della loro identità mapuche, che mai si sentissero inferiori rispetto ad altri. Dopo aver terminato la scuola, Natividad si trasferì nella capitale Santiago del Cile per studiare giurisprudenza.

Natividad Llanquileo è cresciuta in una regione in cui l'oppressione dei Mapuche fa parte della quotidianità. Ha visto arrestare vicini e conoscenti accusati di terrorismo perché avevano tentato di difendere la propria terra dagli interessi sempre crescenti delle imprese del legname. Già suo padre era impegnato nel movimento mapuche. Natividad stessa non era un'attivista, o almeno non lo era fino al settembre 2010, quando le fu chiesto di fare da portavoce dei Mapuche detenuti nel carcere di Concepción. Da allora Natividad è probabilmente uno dei volti più noti del movimento Mapuche.

Nel 2009 due dei suoi fratelli sono in carcere. Il 29enne Ramón è detenuto nel carcere "El Manzano" a Concepción e Victor, di quattro anni più vecchio, si trova nel carcere di Angol. Natividad va a trovare entrambi ogni volta che può. Quando nel luglio 2010 i due fratelli si uniscono allo sciopero della fame che poi si sarebbe protratto per 80 giorni, Natividad decide di non tornare a Santiago e di restare a Concepción. I detenuti in sciopero della fame chiedono l'abrogazione della cosiddetta legge anti-terrorismo, promulgata ancora durante la dittatura militare del generale Pinochet, e sistematicamente utilizzata contro gli attivisti mapuche. I cinque detenuti mapuche di Concepción decidono di nominare Natividad come loro portavoce. Ai cinque di Concepción si aggiungono anche altri detenuti e così Natividad decide di interrompere gli studi universitari per dedicarsi alla difesa dei diritti dei 17 prigionieri politici mapuche che ora rappresenta.

Nel settembre 2010 Natividad si reca in Europa per informare rappresentanti politici e organizzazioni per i diritti umani sull'attuale situazione dei prigionieri politici Mapuche e per trovare persone disposte a fare da osservatori internazionali nei processi contro i Mapuche da lei rappresentati. Difficilmente i detenuti mapuche potranno infatti contare su un processo giusto. Il compromesso tra detenuti mapuche e governo raggiunto l'estate scorsa e che ha posto fine allo sciopero della fame "non ha molta rilevanza sul piano giuridico", ci spiega Natividad. "Tutto ciò che è stato raggiunto è che i detenuti non saranno più processati secondo la legge antiterrorismo ma secondo il codice civile". La differenza risiede semplicemente nella possibilità di una condanna un po' più mite. I 17 Mapuche saranno quindi comunque condannati e rischiano pene detentive tra i 30 e i 100 anni. Nonostante le concessioni fatte il governo evidentemente non intende porre fine alla repressione dei Mapuche. Per Natividad Llanquileo si profila una lunga battaglia.

Guatemala [ su ]

Donne Xinka lottano per i loro diritti

Anna-Lena Herkenhoff

Per difendersi dalla violenza e dalla discriminazione delle donne in Guatemala, nel febbraio 2004 alcune donne Xinka hanno fondato l'Associazione delle donne indigene di Santa Maria Xalapán (AMISMAXAJ). Attraverso la loro associazione le donne lottano per far rispettare i propri diritti, per ridare forza all'identità Xinka e per ottenere il riconoscimento dallo stato come popolo Xinka. E ora si occupano anche della tutela ambientale nella loro regione Santa Maria Xalapán nello stato federale di Jalapa.

Lorena Cabnal: 'Quando abbiamo fondato la nostra associazione noi donne non potevamo quasi uscire di casa'. Foto: lavozdeasturias.es. Lorena Cabnal: 'Quando abbiamo fondato la nostra associazione noi donne non potevamo quasi uscire di casa'. Foto: lavozdeasturias.es.

L'impegno delle attiviste Xinka è nato dal bisogno di ottenere approvazione e diritto alla partecipazione. "Quando abbiamo fondato la nostra associazione il machismo nelle comunità era talmente forte che per noi donne era difficile anche solo poter uscire di casa per incontrarci", ricorda Lorena Cabnal, una delle fondatrici e portavoce di AMISMAXAJ.

Le strutture patriarcali che dominano la società guatemalteca così come molte comunità indigene impediscono alle donne di essere considerate e/o prese sul serio come attori sociali e politici. I consiglieri comunali sono per lo più uomini e anche quando una donna riesce a ottenere una carica politica la sua opinione solitamente conta poco. Uno dei compiti che si è posto AMISMAXAJ è quindi di sviluppare e sostenere le possibilità di partecipazione e la formazione politica delle donne. Per iniziare a chiedere maggiori diritti le donne spesso devono prima sviluppare una coscienza circa il loro ruolo e la situazione in cui si trovano.

Nel 2004 AMISMAXAJ si è aggregata all'unione di organizzazioni femminili guatemalteche "Sector de mujeres". Le donne Xinka hanno partecipato a corsi di formazione politica e hanno raccolto importanti spunti e strategie per il lavoro sui diritti delle donne nelle loro comunità. Una di queste iniziative è la "scuola delle donne" che informa le donne sui loro diritti basilari e le sostiene nella lotta per vedere realizzati i propri diritti, come p.es. quando si tratta di porre fine a una situazione di violenza domestica. Nel corso del tempo hanno acquisito sufficiente conoscenza, coscienza e esperienza per ricoprire posizioni sempre più attive anche senza il benestare degli uomini.

Grazie al nuovo ruolo conquistato, l'associazione ha iniziato a dedicarsi anche ad altre tematiche. Dal 2008 AMISMAXAJ si è profilato come colonna portante della resistenza al progetto dell'impresa mineraria canadese Goldcorp. Inc. nella regione di Santa María Xalapán. Per ostacolare la realizzazione di un progetto distruttivo del territorio, le donne Xinka hanno organizzato grandi manifestazioni e azioni di protesta pubbliche. Da allora le attiviste sono finite nel mirino di politici locali e di proprietari terrieri coinvolti nei progetti minerari. Dopo una manifestazione politica organizzata da AMISMAXAJ lo scorso 12 ottobre Lorena Cabnal ha iniziato a ricevere minacce di morte. Le donne però non si lasciano intimidire e sono andate alla ricerca di partner che possono fornire aiuto in questa situazione. Dal 2009 infatti AMISMAXAJ è sostenuta dalle Peace Brigades International (Brigate di pace internazionali).

Iran [ su ]

Non c'è posto per i diritti delle donne

Parvaneh Ghorishi

A partire dalla fondazione della Repubblica Islamica dell'Iran nel 1979 la vita di milioni di Iraniane e Iraniani è determinata dalla legge coranica della Shari'a. Le donne sono massicciamente svantaggiate rispetto agli uomini che oltre al diritto alla poligamia hanno il diritto al divorzio e all'affidamento dei figli. Le donne sono svantaggiate anche nel diritto ereditario e per viaggiare o lavorare hanno bisogno del permesso del marito o di un altro familiare maschile. Di fatto è come se le donne fossero state dichiarate interdette e trattate come se fossero incapaci di intendere e volere.

Dal 1963 le donne iraniane hanno il diritto di voto. Dal 1979 devono portare la hijab in pubblico. Foto: Amir Farshad Ebrahimi, flickr. Dal 1963 le donne iraniane hanno il diritto di voto. Dal 1979 devono portare la hijab in pubblico. Foto: Amir Farshad Ebrahimi, flickr.

Storia del rapporto uomo-donna nell'Iran del 20esimo secolo
Tra il 1906 e il 1911 un movimento costituente pose fine alla monarchia assolutista iraniana e pose le prime basi per un parlamento e una costituzione. Le forze religiose ebbero un ruolo importante all'interno del movimento e già allora miravano a porre la Shari'a come base del nuovo stato. Il dibattito sui diritti delle donne divise il movimento contrapponendo i costituzionalisti ai sostenitori di un ordinamento religioso. Secondo questi ultimi, i diritti delle donne rinnegherebbero le tradizioni e corromperebbero la società. All'inizio degli anni '20 il padre dell'ultimo scià Mohammad Reza Pahlavi rovesciò la dinastia dei Qajar e assunse tutti i poteri. Seguendo l'esempio di Atatürk, Reza Shah tentò di cancellare la rigida esclusione delle donne dalla vita pubblica e di incentivare una maggiore co-presenza dei generi sia in famiglia sia nella vita pubblica.

Fino alla fine degli anni 1920 la polizia controllava che nessuna donna apparisse in pubblico senza l'abbigliamento e il velo prescritti. Solo nel 1928 fu permesso alle donne di uscire senza coprirsi, ma solo con il permesso del padre o del marito.

Reza Shah impose infine il divieto del velo in pubblico e alla polizia fu ordinato di togliere il velo alle donne coperte. Nei decenni a seguire crebbe il numero delle ragazze con un diploma di maturità e delle studentesse universitarie. Fu tollerato che le donne esercitassero professioni come quella dell'educatrice o dell'insegnante e la percentuale delle donne che lavoravano fuori casa passò dal 9% al 13% circa. Si stima che questa percentuale sia rimasta invariata fino ad oggi. Nel 1963 alle donne fu riconosciuto il diritto al voto. In parlamento sedevano parlamentari donne, ma allora come oggi avevano poca voce in capitolo e ancora meno possibilità di prendere delle decisioni.

Se da un lato il regime di Reza Shah riconobbe alcuni diritti alle donne, dall'altro soffocò senza pietà ogni movimento di opposizione e sindacale i cui esponenti venivano condannati a morte o a lunghe pene detentive. La monarchia torturava e uccideva. L'impotenza di fronte a un regime repressivo che non permetteva alcuna libertà rafforzò le forze religiose che raccolsero ulteriore seguito grazie all'invasione e occupazione dell'Afghanistan da parte dell'Unione Sovietica. Gli Stati Uniti invece vedevano l'Islam come un bastione che avrebbe protetto il paese dall'influenza del comunismo proveniente da nord. Nel marzo 1979, con la vittoria della rivoluzione islamica l'Ayatollah Khomeini, da poco rientrato dal suo esilio parigino, impose alle donne l'obbligo di portare la hijab (foulard copricapo) in pubblico. Il nuovo regime represse le manifestazioni di protesta delle organizzazioni femminili. Le proteste delle donne non furono appoggiate nemmeno delle organizzazioni di sinistra che invece criticarono le manifestazioni, definirono la reintroduzione dell'obbligo alla hijab come una contraddizione collaterale e sostennero che le lavoratrici e le contadine avevano ben altri problemi da risolvere.

I nuovi potenti inventarono ogni sorta di argomento per giustificare l'obbligo della hijab. L'ex-presidente Bani Sadr, p.es., sostenne che le radiazioni dei capelli delle donne limitavano la capacità di concentrazione degli uomini. Altri sostenevano che i capelli delle donne emettevano delle vibrazioni che fuorviavano gli uomini.

Argomenti simili furono usati anche da alcune donne secondo cui esse si sentivano più al sicuro quando in compagnia di uomini portavano la hijab. Insomma, la hijab è una specie di muro che garantisce e che trasforma le donne in soggetti sessualmente non pericolosi e di genere neutro. Il controllo della sessualità femminile è difatti la meta principale di ogni legge in Iran.

Negli anni '80 anche il sistema scolastico-educativo fu desecolarizzato e riformato in senso religioso e autoritario. L'obiezione non è ammessa e viene punita. L'obbedienza nei confronti delle autorità è considerata una delle maggiori virtù. Ciò che viene richiesto non è il pensiero autonomo ma l'adattamento e la sottomissione.

30 anni di Repubblica islamica dell'Iran
Negli oltre 30 anni di vita della Repubblica islamica dell'Iran sono state commesse numerose ingiustizie. Molti movimenti democratici, primi tra tutti quello kurdo, sono stati decimati e non sono stati risparmiati nemmeno gli oppositori rifugiatisi in Europa. In un'intervista rilasciata alla Süddeutsche Zeitung Shirin Ebadi, vincitrice nel 1996 del premio Nobel per la Pace, racconta come il suo impegno per la pace e la sua lotta per i diritti delle donne la espongano seriamente al rischio di essere uccisa.

Con il pretesto dell'"adulterio", centinaia di donne sono state giustiziate, alcune tramite lapidazione. Ogni anno centinaia di donne commettono suicidio a causa delle massicce pressioni sociali e psicologiche a cui sono esposte. Un segnale particolarmente allarmante è dato dal numero di donne che si tolgono la vita dandosi fuoco. Esse si versano addosso della benzina e muoiono tra le fiamme. E' aumentato drammaticamente anche il numero delle donne tossicodipendenti. L'apartheid di genere praticata dai detentori del potere della repubblica Islamica, le costanti discriminazioni in tutti i settori della quotidianità, l'essere trattate con sufficienza e gli abusi a cui sono esposte, distruggono le donne e lasciano profonde ferite psicologiche. La sensazione di impotenza e la rabbia causano poi depressioni, una sensazione di freddo, autolesionismo.

Il film "Il cerchio" (2000) del regista iraniano Jafar Panahi mostra in modo impressionante quale sia la posizione sociale della donna in Iran. Il film inizia in una sala parto. Alla nonna viene comunicato che sua figlia ha partorito non come ci si aspettava un maschietto ma una femmina. La notizia crea frustrazione e delusione. La bambina è appena nata e già si è trasformata in un problema. Il film passa poi a raccontare l'avventura di tre donne che dopo la libera uscita decidono di non rientrare in carcere ma di fuggire e vivere in libertà. Il loro tentativo è destinato fin dall'inizio a fallire. Le loro famiglie non sono infatti disposte ad aiutarle e anzi le ripudiano poiché la loro "cattiva fama" ha portato il disonore su tutta la famiglia. Senza un accompagnatore maschile legittimo esse sono perse e la loro vita dipende dalla pietà degli uomini che incontrano.


La versione cartacea è stata realizzata con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano.

Pogrom-bedrohte Völker 264 (1/2011)