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Tuareg, Mapuche, Penan

Grandi dighe e fame di materie prime minacciano i popoli indigeni in tutto il mondo

Pogrom bedrohte Völker n. 261, 4/2010

Bolzano, novembre 2010

Index

Editoriale, Mauro di Vieste | Centrali idroelettriche a scapito delle popolazioni mapuche | Brasile: dal São Francisco allo Xingú | Le attività minerarie minacciano le comunità Maya-Mam in Guatemala | Perù: il paradiso dei Cocama rischia di scomparire | I popoli indigeni del Costa Rica chiedono l'autonomia | India: l'estrazione intensiva dell'uranio a spese degli Adivasi | Intervista: Adivasi minacciati dalle miniere di uranio | Dighe e cambio climatico minacciano il Tibet | Birmania: la costruzione eccessiva di dighe spazzerà via i Kachin | Indonesia: disboscamento e megaprogetti minacciano i popoli indigeni | Penan a Sarawak / Malesia: dighe che cancellano la memoria culturale | Tuareg: l'uranio dall'Africa per l'industria atomica francese | Oromo in Etiopia | Deserto del Kalahari: l'industria farmaceutica vuole brevettare le piante di Hoodia

Editoriale [ su ]

Di Mauro di Vieste

Tuareg, Mapuche, Penan: Grandi dighe e fame di materie prime minacciano i popoli indigeni in tutto il mondo, pogrom / bedrohte Völker 261 (4/2010). Tuareg, Mapuche, Penan: Grandi dighe e fame di materie prime minacciano i popoli indigeni in tutto il mondo, pogrom / bedrohte Völker 261 (4/2010).

Care lettrici, cari lettori,

sono passati ormai tre anni da quando, nel settembre 2007, l'Assemblea generale dell'ONU ha promulgato "La dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni". Una incredibile maggioranza di stati si dichiarò a favore del riconoscimento di questi diritti fondamentali per i popoli indigeni. Solamente 4 stati si erano opposti all'approvazione: Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda. La posizione dell'Australia e della Nuova Zelanda è cambiata di recente e anche questi due stati si sono dichiarati disposti a sostenere i principi contenuti della Dichiarazione.

Nonostante il clamore e l'insperato successo legato all'approvazione di questa pietra miliare nel diritto dei popoli indigeni, la situazione si presenta oggi molto meno rosea dei principi ispiratori della dichiarazione.

Lo sfruttamento selvaggio e la depredazione delle risorse naturali presenti in abbondanza sui territori dei popoli indigeni continua a ritmi sempre più intensi: miniere, coltivazioni intensive, deforestazione, grandi dighe, continuano a causare la perdita di territorio e di identità oltre che della base vitale di centinaia di migliaia di persone appartenenti spesso a popolazioni indigene. Queste persone vengono trasformate in mano d'opera a basso costo per la realizzazione di grandi opere se non addirittura ridotte in schiavitù, ma la distruzione del territorio e delle loro basi vitali li condanna alla definitiva scomparsa come popolo. Con loro spariscono lingue, tradizioni e conoscenze uniche.

Questa tendenza a livello globale sembra proprio non arrestarsi. In tutto il mondo continua ad aumentare la pressione su popoli indigeni e altre minoranze etniche: sono ormai borsa e finanza che dettano legge. E non sono più solo aziende e istituzioni finanziarie occidentali a intervenire nel mercato globale delle materie prime, ma anche Cina ed India ormai che finanziano i mega progetti che violano pesantemente i diritti umani dei popoli indigeni oltre ad aumentare la corruzione nei paesi in cui vivono. Il fabbisogno energetico e di materie prime sta letteralmente "consumando" i territori vitali di molti popoli indigeni.

La situazione in pratica non è cambiata, lo sfruttamento purtroppo continua e a farne le spese sono i popoli indigeni prima di tutto: la perdita di territorio e ambiente di vita, significa sempre la perdita delle proprie tradizioni e della propria identità. Ma la scomparsa di un popolo è sempre una perdita grave per l'intera umanità. Probabilmente i tempi sono maturi perché le Nazioni Unite e la comunità internazionale passino dalle belle parole ai fatti concreti, per garantire un futuro a tutti: non dobbiamo dimenticare che garantire un futuro ai popoli indigeni significa garantire un futuro a tutto il pianeta. Abbiamo solo da guadagnarci!

Mauro di Vieste

Centrali idroelettriche a scapito delle popolazioni mapuche [ su ]

Acqua miliardaria in terra mapuche

Sabrina Bussani

Nella zona di Panguipulli, nel Cile meridionale, sono in progetto sei centrali idroelettriche che sfrutterebbero i laghi Pirihueico e Neltume, il fiume CuaCua, la cascata di Huilo-Huilo, il fiume Enco, il lago Riñihue e il fiume San Pedro; posti unici che finora ancora incantano per le loro acque cristalline e la foresta vergine. In difesa dell'ecosistema e del loro habitat si sono mobilitate le comunità mapuche della zona e le organizzazioni ambientaliste.

Celebrazione festiva dei Mapuche. Foto: Massimo Falqui Massidda. Celebrazione festiva dei Mapuche. Foto: Massimo Falqui Massidda.

L'acqua è, non solo in Cile, un affare miliardario. Nel 1981, durante la dittatura del generale Augusto Pinochet, il governo militare cileno promulgò il "Codice generale dell'Acqua" (Código General del Agua) grazie al quale l'acqua smise di essere un bene comune e divenne una merce in mano di chi se ne poteva permettere la gestione. Il Codice dell'Acqua infatti separò i diritti sull'acqua dalla proprietà della terra, spogliando così sia gli agricoltori che le comunità rurali e indigene del controllo delle acque presenti sul loro territorio. Strettamente legati al Codice dell'Acqua sono i diritti sull'acqua non consumabile, cioè su quella porzione di acqua che non può essere utilizzata per usi comuni (uso domestico, irrigazione, imbottigliamento, etc.) ma che, una volta usata o "trasformata", deve essere restituita alla fonte. Si tratta insomma di quella porzione di acqua destinata alla generazione di energia idroelettrica e che attualmente comprende circa il 78% dell'acqua dolce cilena. I

Le imprese che si contendono il controllo dell'industria idroelettrica sono circa 26, ma il grosso del mercato è controllato da solo tre grandi imprese: Endesa Chile (controllata attraverso il consorzio Enersis da Endesa Spagna che a sua volta è di proprietà dell'italiana Enel), Colbún e AES Gener.

Delle molte centrali idroelettriche presenti in Cile qualcuna sfrutta la caduta naturale dei corsi d'acqua per la produzione di energia ma molte richiedono la costruzione di enormi dighe e bacini con l'inondazione di grandi fette di territorio - molte delle dighe si trovano su territorio ancestrale delle popolazioni Mapuche.

Kul Kul, corno, strumento musicale dei Mapuche. Foto: Massimo Falqui Massidda. Kul Kul, corno, strumento musicale dei Mapuche. Foto: Massimo Falqui Massidda.

La prima grande ondata di proteste contro le centrali idroelettriche era stata provocata dalla costruzione della centrale di Ralco-Endesa sul fiume Bío Bío. La diga era stata inaugurata nel settembre 2004 dopo quasi dieci anni di conflitto tra le comunità Mapuche Pehuenche, lo stato cileno e l'impresa Endesa e l'opposizione di gruppi ambientalisti, organizzazioni per i diritti umani e diverse agenzie statali. Per la realizzazione della centrale è stato costruito un muro di contenimento dell'invaso di 370 metri di larghezza e 155 di altezza, sono stati inondati oltre 3.000 ettari di terreno boschivo impiegato per le attività di pastorizia ed agricoltura, ed è stato irrimediabilmente danneggiato l'ecosistema della valle dell'Alto Bío Bío. Gli insediamenti Mapuche Pehuenche direttamente interessati dal progetto sono stati quasi 100, per un totale di oltre 250 nuclei familiari, con 1.200 persone coinvolte delle quali circa 700 sfollate e trasferite altrove. Per queste persone la perdita del loro territorio e il trasferimento coatto ha significato la graduale disintegrazione sociale e culturale, la radicale modificazione delle tradizionali attività lavorative e una frattura irreversibile nel loro stile di vita ancestrale.

Nel caso della centrale di Ralco, l'agenzia statale per lo sviluppo indigeno (CONADI - Corporación Nacional de Desarrollo Indígena) ha parlato chiaramente di "etnocidio" e il Relatore Speciale dell'ONU per i Diritti dei Popoli Indigeni Rodolfo Stavenhagen ha dichiarato nel 2003: "...il caso Ralco illustra chiaramente le tensioni sociali che sorgono tra un modello di sviluppo "modernizzatore" e i costi sociali, ambientali e culturali che deve sopportare il popolo caricato del peso di questa trasformazione economica."

Attualmente le autorità competenti stanno valutando i progetti per la costruzione di otto nuove centrali idroelettriche, tutte su territorio ancestrale Mapuche. Osorno, Neltume, Choshuenco, Pellaifa, Liqueñe, Reyehueico, Maqueo e Angostura, questi i nomi delle future centrali, rischiano di trasformarsi in altrettanti conflitti. Ancora una volta si tratta di inondare ettari di territorio, mettere sott'acqua terreno agricolo, siti sacri e cerimoniali, dislocare comunità e/o famiglie, sottrarre acqua alle comunità adiacenti, modificare profondamente se non distruggere ecosistemi e ambienti unici per la loro biodiversità. Particolarmente drammatico appare il caso di 5 famiglie Mapuche Pewenche già sfollate e ricollocate in seguito alla realizzazione di una centrale idroelettrica e che ora rischiano di dover nuovamente lasciare tutto per fare posto alla centrale di Angostura.

Le comunità Mapuche accusano autorità e imprenditori di non rispettare le convenzioni internazionali firmate e ratificate dal Cile. La legge cilena 19.300 sull'Ambiente (Bases de Medio Ambiente) prevede che le organizzazioni con personalità giuridica e le persone naturali abbiano a disposizione 90 giorni dopo la consegna dello studio di impatto ambientale per presentare le proprie osservazioni che comunque non hanno carattere vincolante. Anche la legge indigena cilena (legge 19.253) stabilisce il diritto di consultazione delle organizzazioni indigene. Le comunità indigene e le loro rappresentanze non necessariamente costituiscono però né un'organizzazione con personalità giuridica né sono persone naturali e sono quindi generalmente escluse dalle consultazioni sui megaprogetti. Le autorità cilene di fatto riconoscono solo organizzazioni create dalla stessa legge indigena e la comunità ancestrale dei soli Mapuche Williche. Ciò contraddice però l'articolo 6 della Convenzione ILO 169, ratificata dal Cile nel 2008, secondo cui le istituzioni rappresentative proprie delle popolazioni indigene devono essere riconosciute come interlocutori ufficiali. Resta infine da menzionare che anche quando le comunità indigene vengono consultate a proposito di nuovi progetti sulla loro terra, secondo la legge indigena la loro opinione non è comunque vincolante.

Informazioni ulteriori: La sezione di Bolzano dell'Associazione per i popoli minacciati ha organizzato la mostra "Mapuche - Viaggio tra la gente della terra". Il fotografo Massimo Falqui Massidda ha documentato la situazione dei Mapuche trascorrendo un periodo di 4 mesi nel sud del Cile. Per informazioni sulle prossime esposizioni e sulla brochure che accompagna la mostra: info@gfbv.it.

Brasile: dal São Francisco allo Xingú [ su ]

Il piano di accelerazione della crescita si scontra con le popolazioni indigene del Brasile

Sabrina Bussani

Porto di Altamira / Brasile. Foto: Rebecca Sommer. Porto di Altamira / Brasile. Foto: Rebecca Sommer.

Il piano di accelerazione della crescita (PAC) avviato dal governo brasiliano di Luiz Inácio Lula da Silva è un classico piano di sviluppo: infrastrutture idroelettriche, costruzione di strade, sviluppo tradizionale nelle aree vergini della foresta. Circa 420 dei progetti finanziati grazie al PAC dovrebbero essere realizzati in terre indigene. Si tratta di progetti a forte impatto ambientale, che andranno a modificare in modo irreversibile ecosistemi delicati, la diffusione di specie e ovviamente la vita di coloro che abitano le regioni interessate dai progetti. Nonostante il Brasile abbia firmato e ratificato nel 2002 la Convenzione internazionale ILO 169 che fissa in modo vincolante una miriade di diritti dei popoli indigeni tra cui il diritto al coinvolgimento e alla consensualità nella progettazione e nella realizzazione di progetti previsti sulle loro terre, le indicazioni contenute nella Convenzione non sono state rispettate dal governo. E così, man mano che il governo procede con la realizzazione dei molti mega-progetti, si ampliano le proteste delle popolazioni indigene colpite, affiancate dalle organizzazioni per i diritti umani e dalle associazioni ambientaliste.

Due dei cavalli di battaglia del PAC sono il progetto di trasposizione delle acque del fiume São Francisco e la mega-diga di Belo Monte sul fiume Xingú.

Il fiume São Francisco attraversa sei stati brasiliani e con un'estensione di 3.160 km è il terzo bacino idrografico del Brasile. Opará - il "fiume-mare", come lo chiamano gli indigeni, è di vitale importanza per la sopravvivenza fisica e culturale dei 33 popoli indigeni e delle diverse comunità afro-brasiliane (quilombolas) che vivono lungo le sue sponde. Circa 70.000 persone vivono e sopravvivono grazie al fiume: dalle sue acque dipende l'agricoltura che sfrutta il ciclo delle maree, la pesca, l'allevamento e sempre alle acque del fiume sono legati i rituali, le credenze spirituali e religiose, la cultura dei popoli nativi.

Pajé Mureyra, Kuipiuna Asurini. Foto: Rebecca Sommer. Pajé Mureyra, Kuipiuna Asurini. Foto: Rebecca Sommer.

Ora il São Francisco così come lo conosciamo rischia di scomparire inghiottito dal cemento. La Transposição, come il progetto viene chiamato in Brasile è un mega-progetto di ingegneria idraulica dal costo approssimativo di 2,5 miliardi di Euro che prevede la costruzione di due canali di deviazione delle acque di più di 600 km di lunghezza, 2 dighe idroelettriche oltre alle sette già esistenti, 9 stazioni di pompaggio, 27 acquedotti, 8 tunnel, 35 dighe di contenimento e riserva dell'acqua. Secondo il governo la Transposição dovrebbe essere la soluzione definitiva all'approvvigionamento di acqua nelle zone semi-aride del nordest brasiliano. Di altro avviso sono gli oppositori al progetto che fanno notare come nel testo del progetto si possa leggere che solo il 4% delle acque trasposte sarà destinato alla popolazione rurale, cioè alla parte di popolazione maggiormente colpita dalla siccità, il 26% delle acque sarà destinato ad uso urbano e industriale mentre il 70% andrà a soddisfare i bisogni dei progetti a irrigazione intensiva, ossia delle monoculture legate alle multinazionali dell'agrobusiness e degli allevamenti di gamberi. Le organizzazioni della società civile e le comunità di pescatori e indigeni che vivono lungo le sponde del fiume hanno trovato nel vescovo dom Luiz Flavio Cappio e nel premio Nobel Adolfo Pérez Esquivel due illustri sostenitori nella lotta contro il mega-progetto. Noto per i suoi due scioperi della fame in difesa del fiume São Francisco, dom Cappio non usa mezzi termini per spiegare la sua opposizione al progetto: "... è ingiusto dal punto di vista sociale, perché avvantaggerà solo un piccolo gruppo di potere, insostenibile sul piano ambientale perché danneggerà irreversibilmente il fiume, antieconomico e fondato sulla menzogna perché opere alternative costerebbero la metà e garantirebbero l'acqua al quadruplo delle persone."

Un altro grande progetto attorno a cui si concentra la mobilitazione delle comunità indigene e delle organizzazioni sia ambientaliste sia di difesa dei diritti umani è la diga e centrale idroelettrica di Belo Monte sul fiume Xingú in piena foresta amazzonica.

Fiume Xingù. Foto: Rebecca Sommer. Fiume Xingù. Foto: Rebecca Sommer.

La centrale idroelettrica di Belo Monte dovrà essere la terza più grande al mondo con un costo di circa 20 miliardi di dollari USA e secondo diverse organizzazioni ambientaliste sarà inutile. Una ricerca realizzata dal WWF Brasile infatti dimostra che un investimento mirato a modernizzare secondo criteri di efficienza l'obsoleta rete di distribuzione energetica brasiliana comporterebbe un risparmio del 40% del consumo energetico brasiliano, il che equivarrebbe alla produzione elettrica di 14 centrali come quella di Belo Monte. Non convince nemmeno l'argomento del governo secondo cui la centrale fornirà energia elettrica a 23 milioni di case poiché secondo il progetto l'energia prodotta andrà ad alimentare soprattutto vecchi e nuovi impianti per la lavorazione dell'alluminio.

Ciò nonostante e proprio alla chiusura del "Primo Incontro dei Popoli e delle Comunità colpite e minacciate dai grandi progetti di infrastrutture", tenuto nella cittadina di Itaituba nello stato brasiliano del Pará dal 25 al 27 agosto 2010, arriva la firma dell'allora presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva che da' il via definitivo alla costruzione della mega-diga e centrale idroelettrica.

All'incontro di Itaituba hanno partecipato 600 rappresentanti di popoli indigeni e di organizzazioni ambientaliste e per i diritti umani per manifestare e organizzare la loro opposizione alla politica dei mega-progetti, approvati e realizzati in aperta violazione della Convenzione ILO 169 e a spese delle popolazioni indigene, dei piccoli agricoltori e pescatori e dell'ambiente.

La costruzione della diga e della centrale idroelettrica di Belo Monte infatti comporterà l'allagamento di una vastissima area, tra cui parte della cittadina di Altamira, e il prosciugamento di alcuni tratti del fiume Xingú. Circa 20.000 persone in prevalenza indigeni, piccoli agricoltori e pescatori e abitanti dei quartieri poveri della città di Altamira saranno evacuate. Oltre alle promesse generiche di risarcimenti, nuove scuole e servizi sanitari e maggiore "sicurezza territoriale", finora non è stato reso pubblico alcun programma di sostegno del governo per far fronte alla risistemazione delle migliaia di persone che tuttora non sanno se otterranno nuovi spazi, e, in caso affermativo, dove e a quali condizioni. Non si sa inoltre quante siano le persone che complessivamente subiranno le conseguenze dirette e indirette del mega-progetto.

Secondo un gruppo di scienziati brasiliani, gli effetti ambientali della diga saranno disastrosi. La diga avrà un pesante impatto sulla fauna ittica dello Xingú e sull'ecosistema della foresta per almeno 100 chilometri di rive abitate da popoli indigeni. Si estinguerebbero circa 100 specie di pesci di acqua dolce, mentre è impossibile calcolare il danno per le specie presenti di anfibi, rettili, uccelli e insetti. Per le popolazioni della regione ciò comporta una drastica riduzione delle risorse ittiche da cui dipendono per la loro sopravvivenza.

Campeggio di protesta dei popoli indigeni del Brasile
Dichiarazione finale di Altamira

Noi, i popoli indigeni [...], comunichiamo all'opinione pubblica che:

Kazique Raoni Kajapó, Altamira/Brasile, 12 agosto 2010

Tutta la dichiarazione (in portoghese): www.cimi.org.br/?system=news&action=read&id=4876&eid=354

Le attività minerarie minacciano le comunità Maya-Mam in Guatemala [ su ]

Il vero prezzo dell'oro

Nicole Hantzsche

Protesta contro la miniera Marlin di San Miguel Ixtahuacan nel giugno 2010. Foto: Tracy Barnett. Protesta contro la miniera Marlin di San Miguel Ixtahuacan nel giugno 2010. Foto: Tracy Barnett.

Il 20 maggio 2010 la Commissione Interamericana per i Diritti Umani (CIDH) ha decretato la sospensione dell'attività mineraria nella miniera d'oro di Marlin nello stato federale guatemalteco di San Marcos. Per le 18 comunità indigene dei Maya-Mam della regione la decisione ha acceso nuove speranze. Nel 2007 le comunità Maya-Mam si erano rivolte al CIDH nel tentativo di porre un freno all'inquinamento dell'acqua potabile causato dall'attività mineraria e ai conseguenti rischi per la salute. L'alto consumo di acqua da parte dell'impresa mineraria causa infine scarsità d'acqua nei villaggi.

Il 18 giugno 2005 la popolazione dei villaggi indigeni dell'altipiano occidentale guatemalteco ha votato a grande maggioranza contro l'avvio di progetti minerari nella regione. Ciò nonostante l'impresa Montana Explorada della multinazionale canadese Goldcorp. Inc. gestisce da ottobre 2005 la miniera di oro Marlin.

Le autorità guatemalteche violano in questo modo il diritto internazionale dei popoli, e in particolare la Convenzione ILO 169 ratificata dal paese centroamericano nel 1996. Secondo la Convenzione qualunque progetto che si intenda realizzare in territorio indigeno può essere avviato solo dopo aver fornito un'ampia ed esaustiva informazione relativa al progetto stesso alla popolazione interessata e solo in seguito all'accordo concesso dalla popolazione. All'inizio del 2010 sia l'inviato speciale per gli affari indigeni dell'ONU James Anaya sia i collaboratori della ILO hanno confermato che il Guatemala contravviene agli obblighi assunti con la firma della Convenzione e rilascia le licenze per l'attività mineraria senza alcun accordo da parte della popolazione dei Maya-Mam.

In questo senso la CIDH ha decretato alcuni provvedimenti temporanei, tra cui la sospensione dell'attività mineraria, la bonifica delle fonti di acqua inquinate e la cura dei problemi di salute arrecati dall'acqua contaminata. Inoltre le autorità devono garantire la protezione e la tutela delle persone che si oppongono all'attività mineraria a possibili aggressioni e tentativi di intimidazione.

Si tratta di misure di fondamentale importanza per la sopravvivenza e la salute dei Maya-Mam. In tutta la regione infatti è a rischio l'approvvigionamento di acqua potabile. La cattiva gestione delle acque reflue dell'attività mineraria permette a sostanze chimiche altamente inquinanti come il cianuro, usato per separare l'oro dal pietrame, di disperdersi nelle acque del sottosuolo e di contaminare così l'acqua potabile. Residui di metalli pesanti sono già stati trovati nei campioni di sangue e di urina delle persone che abitano nelle immediate vicinanze della miniera.

Allo stesso tempo i risultati delle indagini condotte dalla Commissione per l'Ambiente della Diocesi di San Marcos dimostrano che i fiumi della regione sono contaminati da metalli pesanti e che la ricorrente scarsità di acqua nelle comunità indigene è da imputare all'enorme fabbisogno di acqua dell'impresa mineraria. Mentre l'impresa Goldcorp Inc. sostiene di consumare 45.000 litri di acqua all'ora, gli oppositori al progetto minerario calcolano che l'attività estrattiva consumi circa 150.000 litri di acqua all'ora. L'estrazione dell'oro avviene infine su una vasta area, sia sotto terra sia in superficie con la conseguente distruzione di territori naturali. Le esplosioni e il passaggio dei camion pesanti comportano frequenti scosse di cui molte case portano evidenti segni.

Negli anni l'insieme di questi fattori ha creato un clima di crescente tensione. Le proteste della popolazione sono state violentemente soppresse e lo scorso 7 luglio 2010 degli sconosciuti hanno gravemente ferito Diodora Antonia Hernández, sparando alla leader del movimento contro la miniera mentre si trovava nella propria casa.

Il 23 giugno 2010 il governo del Guatemala ha promesso che avrebbe attuato i provvedimenti richiesti dal CIDH, ma l'impresa canadese Goldcorp Inc. ha già annunciato che non intende fermare i lavori. Attualmente l'estrazione dell'oro a spese dell'uomo e dell'ambiente continua.

Il gruppo regionale dell'APM di Amburgo segue un progetto per indigeni in Perù [ su ]

Il paradiso dei Cocama rischia di scomparire

Joachim Hoffmann

L'inquinamento dell’acqua è uno dei principali problemi dei Cocama. Foto: Joachim Hoffmann. L'inquinamento dell’acqua è uno dei principali problemi dei Cocama. Foto: Joachim Hoffmann.

Nell'odierno Perù sopravvivono ancora circa 10.100 Indigeni Cocama in difficilissime condizioni di vita. Vivono lungo i fiumi Huallaga, Marañon, Ucalyali, Nanay e il Rio delle Amazzoni, in un'area che con i suoi 40.000 km2 è grande quasi quanto la Svizzera. I Cocama sono sopravvissuti a secoli di dominio coloniale, di schiavitù e di nuove epidemie. Ora però rischiano di soccombere alla mancanza di cibo e di acqua potabile, alle precarie condizioni igieniche e alle malattie che ne conseguono.

Con i suoi 580 abitanti, San Martin de Tipishca è il maggiore villaggio dei Cocama. Situato all'interno della riserva naturale "Reserva Nacional Pacaya Samiria" presso la Cocha Calzón di un braccio perlopiù secco del río Marañon, il villaggio è raggiungibile solo via fiume. Per arrivarci bisogna affrontare due giorni di navigazione in vaporetto da Iquitos e poi altre sei ore di viaggio su una piccola barca.

I Cocama però non sono estranei al mondo esterno. Vestono come noi magliette e jeans, la maggior parte parla sia lo spagnolo sia la propria lingua, il Cocama, che appartiene alla famiglia delle lingue Tupi-Guaraní. I Cocama hanno avviato un progetto di ecoturismo per piccoli gruppi con cui garantirsi la propria base esistenziale nonché lo sviluppo del villaggio. Hanno fondato l'Asociación indígena en defensa de la ecología Samiria (Asiendes, Associazione indigena per la difesa dell'ecologia in Samiria) e gestiscono i due ostelli "Casa Lupuna" e "Asiendes". Complessivamente dodici persone possono trovare ospitalità negli ostelli e nelle famiglie cocama. Il ricavato viene suddiviso tra tutta la comunità e serve a soddisfare fabbisogni comuni.

Il territorio dei Cocama si caratterizza per un'incredibile varietà di specie. Qui si trova la maggiore varietà di alberi, ma anche il tapiro, il giaguaro, la lontra gigante e tante altre specie animali. La sera con un po' di fortuna si possono osservare i delfini rosa.

La comunità Cocama vive in modo relativamente autarchico. La pesca e la coltivazione di riso, yucca e banane forniscono la base della loro alimentazione ma a periodi la comunità soffre di scarsità alimentare a causa delle rigide norme sulla caccia e la raccolta vigenti nel parco naturale. Inoltre si fanno sentire le conseguenze del cambio climatico con inondazioni più intense e lunghe del solito. Un'altra difficoltà è rappresentata dai tagliatori illegali di legna e dai pescatori di frodo.

Le condizioni igieniche nel villaggio sono catastrofiche. Le acque nere finiscono senza essere filtrate nel suolo della foresta e durante il periodo delle piogge direttamente nelle acque del braccio del Marañon da cui vengono presi anche l'acqua potabile e di uso comune. Per mancanza di legna da ardere, spesso l'acqua non viene bollita prima del consumo. Nel villaggio manca anche l'assistenza medica. La mortalità infantile è del 19% e i malati gravi devono essere trasportati a Iquitos. Alcuni missionari evangelici statunitensi sfruttano la situazione per presentarsi periodicamente presso la comunità con medici, attrezzature mediche e farmaci le cui cure vengono dispensate solo a coloro che si affiliano alla loro setta religiosa.

Il Gruppo regionale di Amburgo dell'Associazione per i popoli minacciati (APM) sostiene la comunità dei Cocama fornendo assistenza medica, e contribuendo all'istituzione di un sistema di tubature per l'acqua potabile e per il filtraggio delle acque nere e infine per l'installazione di un sistema di fornitura elettrica tramite pannelli fotovoltaici.

L'autore: Joachim Hoffmann segue il progetto Cocama insieme al Gruppo regionale di Amburgo dell'APM. Visita regolarmente i Cocama.

Offerte: Förderverein für bedrohte Völker e.V., Postbank Hamburg
IBAN: DE89 201 0020 0007 4002 01, BIC: PBNKDEFF
Causale: Cocama in Peru

La Förderverein für bedrohte Völker e.V. è un'associazione che realizza i propri progetti umanitari in stretta collaborazione con l'Associazione per i popoli minacciati.

I popoli indigeni del Costa Rica chiedono l'autonomia [ su ]

"E' tutta la vita che aspettiamo, adesso basta!"

Jelena Bellmer

Nonostante manchi ancora uno studio di sostenibilità ambientale, le fasi preliminari per la costruzione della diga sono già in corso. Foto: Tilman Massa. Nonostante manchi ancora uno studio di sostenibilità ambientale, le fasi preliminari per la costruzione della diga sono già in corso. Foto: Tilman Massa.

In Costa Rica vivono otto diversi popoli indigeni che costituiscono però solo un 1,7% della popolazione. Il Costa Rica ha così la più bassa percentuale di popolazione indigena sul totale della popolazione del Centro-America.

Uno dei popoli nativi del Costa Rica sono i Teribe a cui appartengono ca. 800 persone. Da decenni i Teribe sono costretti a lottare per la propria terra e per la propria sopravvivenza. Nonostante nel 1939 abbiano ricevuto un proprio territorio "Térraba" e una legge del 1977 abbia rafforzato il principio per cui i diritti sulle terre indigene sono "inalienabili, non cadono in prescrizione, non possono essere ceduti e sono riservati a coloro che abitano le terre", oggi i Teribe posseggono solo il 15% dell'originaria Térraba. Durante gli anni '80 infatti molta terra è stata venduta a coloni mentre la popolazione nativa è stata sempre più spinta ai margini.

La costruzione di una nuova diga rischia ora di inondare parte di quel che resta della loro terra. La diga "El Diquís" che ironicamente in lingua teribe significa "grande fiume che scorre", dovrebbe essere costruita sul fiume Río Grande de Térraba che, con un bacino artificiale di 7.000 ettari, dovrebbe diventare la più grande centrale idroelettrica dell'America centrale.

Secondo l'istituto Costaricense di Elettricità (ICE - Instituto Costarricense de Electricidad), la costruzione di "El Díque" costituisce un'enorme possibilità di sviluppo per le regioni meridionali del paese; per i Teribe però il fiume è la più importante fonte di alimentazione nonché un importante elemento della loro cultura. Nella parte di terra che dovrebbe essere inondata si trovano cimiteri e altri luoghi sacri dei Teribe. Secondo le leggende, molti dei luoghi interessati sono popolati di esseri magici che proteggono le gole, le colline e le fonti di acqua potabile.

Il progetto per la costruzione della diga viola la Convenzione ILO 169 che determina il diritto dei popoli indigeni a essere consultati e coinvolti nei processi decisionali su ogni progetto nella loro terra. Il Costa Rica ha firmato la Convenzione ILO 169 nel 1992 ma finora non ha adattato la propria legislazione alle indicazioni della convenzione né sono state presentate proposte per l'autonomia dei popoli indigeni.

In risposta a questa lunga assenza delle autorità, lo scorso 9 agosto, giornata mondiale dei popoli indigeni, 21 rappresentanti delle popolazioni indigene del Costa Rica hanno occupato una sala del Parlamento nazionale a San José per ricordare ai partiti politici la legge sull'autonomia promessa durante campagna elettorale. "In tutti questi anni ci hanno sempre raccontato che ci sono progetti più importanti [...] Abbiamo visto emanare leggi commerciali, fiscali, sociali e sull'ambiente, ma la nostra legge non è mai stata menzionata." Ora i popoli indigeni chiedono ai politici di mantenere le promesse: "Abbiamo aspettato tutta la vita", dicono, "ora basta!" Durante l'occupazione pacifica nessun membro del Parlamento ha voluto parlare con i rappresentanti indigeni e alle due di notte la polizia ha sgomberato con la violenza la sala.

La presidente del Costa Rica Laura Chinchilla ha spiegato che "una legge che tutela una minoranza non può mettere in pericolo lo sviluppo dell'intera nazione". Il ministro per l'ambiente Teófilo de la Torre ha poi dichiarato che una legge per l'autonomia potrebbe rallentare o addirittura mettere in pericolo la realizzazione di progetti come quello di El Díque poiché darebbe agli indigeni la possibilità di co-decisione nella propria terra, e ciò "potrebbe comportare per il paese la perdita di risorse importanti".

I Teribe temono che senza legge sull'autonomia non avranno alcuno strumento per difendersi, e pare che abbiano ragione: nonostante manchi ancora uno studio di sostenibilità ambientale, le fasi preliminari per la costruzione della diga sono già in corso ...

I popoli indigeni del Costa Rica

Il 42% degli otto popoli indigeni del Costa Rica vivono in riserve e sono così composti (censimento 2000):

Fonte: www.inec.go.cr

Ulteriori informazioni: www.museoterraba.x2.to

In India cresce la fame di materia prime [ su ]

L'estrazione intensiva dell'uranio a spese degli Adivasi

Ulrich Delius

Famiglia Adivasi in un campo profughi (Foto: Dr. James Albert, GfbV). Famiglia Adivasi in un campo profughi (Foto: Dr. James Albert, GfbV).

A Jadugoda, nello stato indiano di Jharkhand, la percentuale di bambini nati con malformazioni fisiche o con la sindrome di Down è particolarmente alta. La percentuale degli aborti e dei bambini nati morti è ancora più alta, così come la mortalità infantile è decisamente sopra la media nazionale. Gli adulti soffrono spesso di malattie respiratorie, sterilità, tumore ai polmoni, anemia, malattie del sistema nervoso e della pelle. Anche il mondo animale e la fauna sembrano malati. I vitelli nascono perlopiù senza coda, i pesci presentano strane escrescenze e la mutazione nelle piante produce nuove varianti senza semi.

I sintomi che si osservano a Jadugoda sono i classici sintomi da danni da radiazione. Qui infatti si trova la zona di estrazione dell'uranio più importante dell'India. Qui vivono però anche i popoli nativi (Adivasi) Ho e Santhal. Il 24 dicembre 2006 nel vicino villaggio di Dungridih migliaia di litri di acque reflue radioattive sono fuoriuscite per nove ore dall'impianto di preparazione dell'uranio contaminando così un piccolo fiume che scorre nelle vicinanze nonché tutto l'ambiente circostante. La zona è abitata da famiglie Adivasi che sono state dislocate là proprio a causa dell'impianto. Lo scarico radioattivo ha formato una coltre tossica che ha contaminato le riserve di acqua potabile di molte delle comunità Adivasi che vivono lungo il fiume e ha ucciso buona parte della vita animale del fiume e lungo i suoi argini.

I liquidi che confluiscono nelle vasche di raccolta degli scarichi contengono ancora ca. l'80% della radioattività iniziale. Inoltre contengono i residui degli acidi con cui l'uranio viene lavato e i metalli pesanti contenuti nell'uranio, quali lo zinco, il piombo, il manganese, cadmio e il semimetallo arsenico. Il bacino di raccolta degli scarichi non è né coperto né recintato. Durante la stagione secca i liquidi velenosi raccolti evaporano liberando le loro particelle tossiche nell'aria. Durante la stagione delle piogge monsoniche il bacino invece straripa e il suo contenuto altamente contaminante finisce nel suolo e nell'acqua freatica. Il bacino degli scarichi di Jadugoda per molto tempo è stato usato anche come deposito illegale per i rifiuti radioattivi di altri impianti di produzione, di centri di ricerca e di molti ospedali del paese.

Secondo la legislazione indiana non è permessa la presenza di villaggi entro una raggio di 5 km attorno a depositi di scorie radioattive e a bacini di raccolta di liquame radioattivo. Ciò nonostante nelle immediate vicinanze dell'impianto di Jadugoda vivono circa 30.000 persone. Sette villaggi si trovano a meno di 1,5 km dall'impianto e il villaggio di Digrith si trova a soli 40 m dalla vasca di raccolta. Per diversi anni il bestiame ha pascolato sulle dighe dell'enorme bacino di raccolta e accanto vi giocavano i bambini. Attorno al bacino stesso viene tuttora coltivato il grano. Camion aperti trasportano l'uranio dalla miniera all'impianto di lavorazione, passando attraverso i villaggi. Non è raro che pezzi del minerale cadano dal camion. Bidoni contenenti materiale radioattivo vengono spesso stoccati in luoghi pubblicamente accessibili e spesso si trovano partite di rifiuti radioattivi utilizzati come materiale da costruzione.

Solo in seguito alla campagna di informazione e formazione organizzata nel 1991 dalla Jharkhandi's Organisation Against Radiation (JOAR - Organizzazione di Jharkhandi contro le radiazioni) la maggioranza della popolazione ha saputo che le malattie di cui soffre non sono state inviate dagli dei ma sono la conseguenza delle radiazioni a cui è esposta. Nel 2004 il lavoro fatto dalla JOAR è stato premiato con il Nuclear Free Award. L'organizzazione si impegna per il miglioramento delle misure di sicurezza e dell'assistenza medica, ma soprattutto per un adeguato risarcimento delle persone dislocate dalla loro terra a causa della costruzione dell'impianto di lavorazione dell'uranio.

Da leggere: Johar Jharkhand. Appunti di ricerca sul campo tra gli Adivasi del Jhurkhand raccolte nell'ambito del Progetto Campo scuola promosso dall'Associazione Yatra Onlus. A cura di Daniela Bezzi. 2010 - www.yatraweb.it

Adivasi in India minacciati dall'estrazione di uranio [ su ]

"Proteggiamo la nostra terra come fosse una capra di fronte al leone"

Punit Minz appartiene agli Adivasi Uraon, un popolo nativo dell'India. Fino a poco tempo fa era segretario generale del sindacato dei minatori JMACC (Jharkhand Mines Area Coordination Committee) dello Stato federale orientale di Jharkhand, ora è coordinatore delle campagne dell'organizzazione BIRSA (Bindrai Institute for Research Study and Action). A fine agosto 2010 è stato invitato dall'APM al Congresso Mondiale Sacred Land - Poisoned People a Basilea durante il quale diversi rappresentanti di popoli indigeni si sono rivolti all'opinione pubblica europea. Fino a metà settembre è stato accompagnato da rappresentanti dell'APM in un viaggio attraverso la Germania per informare l'opinione pubblica sulla situazione degli Adivasi cacciati dalle loro terre per fare posto alle miniere di uranio.

APM: Cosa Le è rimasto del congresso mondiale a Basilea?
Minz: Non avrei mai pensato che un giorno sarei venuto in Europa per partecipare a un congresso mondiale sull'uranio. Ho imparato molto su questo minerale e sui procedimenti tecnici. La gente come me non ne sa molto. Sappiamo unicamente che l'uranio emette radiazioni che fanno ammalare le persone.

APM: Come pensa di utilizzare le nuove conoscenze nel suo lavoro?
Minz: Se dovessi avere bisogno di queste conoscenze per salvare il mio popolo allora mi metterò a studiare ancora. Penso però che ognuno abbia i suoi compiti nella lotta per i diritti dei popoli indigeni. Uno scienziato può aiutare con le sue conoscenze, un giornalista aiuta informando la società. Secondo me il mio compito sta nel riuscire a mobilitare quanta più gente possibile. Ognuno deve contribuire con la sua parte e se collaboriamo tutti, allora possiamo ottenere qualcosa.

APM: Quali sono le difficoltà con cui combattono gli abitanti nativi di Jharkhand?
Minz: Noi Adivasi in origine eravamo principalmente piccoli contadini. L'estrazione di uranio ha cacciato molte persone dalle loro terre costringendole ad abbandonare il loro stile di vita tradizionale. La nostra gente è stata ingannata, non ha ricevuto alcun risarcimento per aver sacrificato la propria terra. Da parte del governo non c'è stato alcun progetto su ciò che sarebbe accaduto con gli Adivasi una volta dislocati. Essi non hanno avuto né una terra nuova né lavoro.

APM: Come aiutate le vittime?
Minz: Ci battiamo per ottenere giustizia e lottiamo contro la distruzione delle terre indigene e la dislocazione degli Indigeni. Chiediamo migliori condizioni di lavoro per i minatori, salari minimi garantiti e istruzione per i figli dei minatori. Sono tutte cose che secondo la legislazione indiana dovrebbero essere garantite dal ministero indiano per l'energia atomica.

APM: Avete provato ad andare in tribunale per ottenere i vostri diritti?
Minz: Sì, ma non abbiamo ottenuto granché. La maggior parte delle persone che sono al potere hanno anche interessi economici. Da loro non possiamo aspettarci alcuna giustizia. Dobbiamo impegnarci noi stessi per ottenere i nostri diritti.

APM: Nel 2000 il Jharkhand è stato separato dallo stato indiano di Bihar e forma ora uno stato federale nuovo.
Minz: Sì, ma il governo federale è comunque composto principalmente da persone a cui non interessano gli Adivasi. Da quando il Jharkhand è uno stato federale a sé stante sono stati approvati 101 nuovi progetti per l'estrazione di uranio. Se dovessero essere realizzati tutti non esiterà più alcuna terra indigena in Jharkhand.

APM: Qual'è la composizione della popolazione di questo nuovo stato federale?
Minz: Dei 26,9 milioni di abitanti, oltre il 50% sono Adivasi. Purtroppo non esistono dati precisi. I censimenti vengono effettuati soprattutto nella capitale Ranchi, dove gli Adivasi costituiscono però solo il 20% della popolazione. In campagna, dove gli Adivasi sono la maggioranza, non vengono fatti censimenti. I dati vengono anche falsificati per ridurre la percentuale di popolazione indigena, altrimenti bisognerebbe aumentare le quote riservate a loro nei posti di lavoro e nelle università.

APM: Quanti Adivasi sono colpiti dai dislocamenti forzati?
Minz: Di fatto tutti gli Indigeni del Jharkhand sono minacciati. Il BIRSA attualmente assiste circa 50.000 persone dislocate.

APM: Come è nata l'organizzazione BIRSA?
Minz: L'organizzazione è il risultato di un movimento popolare che a partire dal 1978 si è battuto per migliorare le condizioni di lavoro degli Adivasi. In seguito abbiamo iniziato a occuparci dei diritti alla terra perché la terra degli Adivasi veniva sempre più usurpata dalle imprese. Oggi i temi centrali di cui ci occupiamo sono il diritto del lavoro, i diritti umani, le questioni femminili e la tutela dei boschi.

APM: In cosa esattamente consiste il vostro lavoro?
Minz: Come ex segretario generale del sindacato ora aiuto il nuovo segretario generale e il segretario regionale ad orientarsi nel loro lavoro. Uso la mia esperienza per consigliarli e sostenerli. Aiuto nell'elaborazione delle informazioni, ma soprattutto lavoro con la base, vado a trovare le vittime, ascolto i loro problemi e le loro preoccupazioni e organizzo attività politica.

APM: Nel suo ambiente ci sono molte persone ammalate in seguito all'esposizione a radiazioni?
Minz: Io mi impegno a favore di queste persone, vi lavoro a stretto contatto e quindi ho visto moltissime persone ammalate o con deformazioni. Provo una fortissima compassione per queste persone che hanno sacrificato la loro terra e tutto ciò che hanno ottenuto in cambio sono le malattie. Ai miei amici minatori dico di sposarsi e fare figli e solo dopo iniziare a lavorare in miniera perché altrimenti i loro figli potrebbero nascere malati. Sacrificare la propria terra per questa gente significa sacrificare sé stessi.

APM: I medici come trattano le malattie da radiazione?
Minz: La maggior parte dei medici non sa molto delle conseguenze da radiazione. Coloro che invece ne sono ben informati solitamente non si impegnano per gli Adivasi. Sono più preoccupati della propria salute che non vogliono mettere a repentaglio. E comunque è difficile che gli Adivasi abbiano abbastanza soldi per poter pagare un medico.

APM: Avete mai pensato di formare dei medici vostri?
Minz: E' difficile. La formazione è troppo cara. Qualcuno, una volta finiti gli studi, non torna da noi. Ovviamente preferiscono guadagnare dei soldi.

APM: I mezzi di informazione locali parlano degli Adivasi?
Minz: Sono molti ad approfittare dell'usurpazione della terra e dei dislocamenti forzati degli Adivasi, come per esempio i co-proprietari ma anche i semplici lavoratori di imprese che vengono installate su terreni espropriati agli Adivasi. I dislocamenti forzati fanno calare la percentuale di Adivasi sulla popolazione totale e quindi cala la quota dei posti di lavoro e dei posti universitari che viene loro riservata. Non c'è quindi alcun interesse da parte dei proprietari di giornali o emittenti radiofoniche a parlare degli Adivasi. Ma JMACC pubblica la rivista mensile Mines, Minerals & Rights (Miniere, minerali & diritti).

APM: Come valuta il successo della Sua organizzazione?
Minz: Siamo riusciti a far sì che dal 2000 nessuna industria mineraria sia potuta entrare nella nostra terra. Ma la lotta non è finita. E' come se avessimo una capra nel nostro villaggio e appena fuori dal villaggio ci fosse un leone che aspetta che la capra esca. Dobbiamo continuare a combattere per proteggere la nostra capra.

APM: Che cosa si aspetta dalla visita in Germania?
Minz: Incontrerò un collaboratore dell'Ufficio federale per la protezione contro le radiazioni. Questo sarà probabilmente il colloquio più importante che avrò perché apprenderò quali sono le norme di sicurezza per i lavoratori nelle centrali atomiche tedesche e quali sono le misure che l'impresa deve garantire. Con queste informazioni possiamo poi fare richieste concrete al governo indiano e all'industria atomica in India.

Intervista: Karoline Schulz

Tibet [ su ]

Dighe e cambiamento climatico minacciano il Tibet

Ulrich Delius

Il Canyon Jiacha, fiume Brahmaputra presso Zhangmu in Tibet. Il Canyon Jiacha, fiume Brahmaputra presso Zhangmu in Tibet.

Secondo l'ambizioso programma del governo cinese per l'incremento dell'energia idroelettrica, questa forma di produzione energetica dovrebbe crescere dall'attuale 33% al 60% entro il 2020. La maggior parte dei grandi fiumi asiatici nasce nell'altopiano tibetano. La sopravvivenza di oltre 1,5 miliardi di persone lungo i fiumi Brahmaputra, Indo, Mekong, Yangtze, Salween, Sutlej, Fiume Giallo e altri ancora dipende dall'acqua.

Per coprire il suo enorme fabbisogno energetico la Cina punta sull'energia idroelettrica. Finora circa il 23% (197 gigawatt) del consumo energetico cinese proviene da fonti idroelettriche. Entro il 2015 la produzione di energia idroelettrica dovrebbe aumentare di 120 gigawatt anche grazie alla costruzione di 109 piccole e grandi dighe in Tibet.

Il fiume che maggiormente interessa gli ingegneri idraulici cinesi è il Brahmaputra che scorre per 1.625 km attraverso il Tibet prima di raggiungere l'India e il Bangladesh. Quattordici piccole dighe sono già state costruite lungo questo fiume, tre dighe sono in fase di costruzione e altre 22 in fase in progettazione. La più grande delle dighe in costruzione, nella parte superiore del Brahmaputra presso Zhangmu (prefettura di Lhokha), a 140 km dalla capitale tibetana Lhasa, è progettato per produrre 510 megawatt di energia per un costo di 167 milioni di dollari USA.

Nel frattempo, una delle dighe programmate dalla Cina preoccupa sia l'India sia il Bangladesh. Si tratta della mega-diga Motuo che dovrebbe sorgere vicino alla frontiere con l'India e produrre 38 gigawatt di energia. "Il progetto cinese ci preoccupa perché non sappiamo quanto grande sarà la diga né quali saranno le conseguenze per le persone che vivono nella parte bassa del fiume", ha dichiarato Jabron Gamlin, ministro per l'energia dello stato federale indiano di Arunachal Pradesh. Le preoccupazioni riguardano sia la quantità di acqua disponibile per i contadini e i pescatori nella parte bassa del fiume ma - nella regione a rischio sismico - sono anche legate a questioni di sicurezza.

La Cina programma la costruzione di altre 76 dighe sui fiumi Mekong, Yangtze (Fiume Azzurro) e Salween. I tre fiumi nascono rispettivamente nella Regione autonoma del Tibet (TAR) e in antiche zone residenziali tibetane nelle province di Qinghai, Sichuan e Yunnan. Su ognuno dei tre fiumi sono già state costruite due dighe che però sono solo una "anticipazione" dei mega-progetti che le autorità cinesi hanno in mente, e di cui finora nessuno può prevedere le conseguenze per la popolazione tibetana né per le molte minoranze etniche che vivono lungo il corso inferiore dei fiumi.

Le molte nuove dighe influenzeranno pesantemente l'economia tradizionale e l'ambiente del Tibet. Molti Tibetani temono che la costruzione delle dighe comporti l'immigrazione di centinaia di migliaia di Cinesi Han, rendendo i Tibetani ulteriormente una minoranza nella propria terra.

La situazione si aggrava ulteriormente a causa del cambio climatico. Il rapido scioglimento dei ghiacciai, l'aumento delle temperature e la diminuzione delle nevicate potrebbero presto causare lotte per il controllo dell'acqua. I fiumi della regione vengono alimentati in primo luogo dalle acque di disgelo e diversi scienziati cinesi temono che nei prossimi dieci anni si possa sciogliere il 30% dei ghiacciai della regione. Con la fine del permafrost i terreni diventano più morbidi e vengono semplicemente portati via dall'acqua. I terreni sempre più sterili produrranno alimenti per un numero sempre più basso di Tibetani.

La maggior parte degli abitanti della regione sono nomadi tibetani. Da anni essi vengono accusati dalle autorità cinesi di essere - con le loro mandrie - responsabili dell'erosione della terra. Di fatto invece l'economia delle popolazioni nomadi è perfettamente adatta alle condizioni ambientali e integrata nell'equilibrio naturale dell'Himalaya. Per le autorità cinese essi sono "arretrati" e viene usato ogni mezzo per costringerli a una vita sedentaria come contadini, operai o commercianti. Dal 2003 la Cina ha costretto oltre il 60% dei 2,25 milioni di nomadi tibetani a insediarsi in villaggi o ai margini delle città. In questo modo si distrugge sistematicamente la loro economia e forma di vita tradizionale, e quindi la loro identità.

Troppe dighe in Birmania [ su ]

I Kachin rischiano di essere spazzati via

Martina Hussmann

Il progetto della diga Myitsone. Il progetto della diga Myitsone.

Dal 2008 la giunta militare in Birmania costruisce 28 nuove dighe e ne progetta un numero indefinito di altre ancora. Ufficialmente tutti questi progetti hanno lo scopo di ridurre la dipendenza del paese dalle importazioni di gas e arrivare a coprire il fabbisogno energetico con l'energia idrica. Il fatto che la realizzazione dei progetti sia però affidata perlopiù a imprese straniere, prime tra tutte le ditte cinesi, fa sospettare che l'energia prodotta sia destinata all'esportazione, soprattutto in Cina.

Uno dei megaprogetti della giunta militare birmana è un sistema di sette dighe sui fiumi Mali e N'Mai. I due fiumi confluiscono per formare l'Irrawaddy che è anche il più importante canale commerciale navigabile del paese. La maggiore delle sette dighe previste, la diga Myitsone, che andrebbe a collocarsi proprio alla confluenza dei due fiumi, dovrebbe comportare profitti annui pari a 500 milioni di dollari USA annui.

La costruzione della diga di Myitsone richiede il dislocamento di 10.000 persone, appartenenti al maggiore gruppo etnico dell'omonima regione Kachin. Il bacino della diga inonderà 766 km2 di terreni agricoli e boschi - un'area pari alle città di Arezzo e Ferrara messe insieme. L'inondazione di 47 villaggi priverà gli abitanti della loro base economica ma anche del centro della loro cultura e della loro identità. Per i Kachin il luogo in cui si origina l'Irrawaddy è sacro e a testimoniare la sacralità del fiume vi hanno costruito diversi luoghi di culto e di pellegrinaggio. Sotto le acque del bacino finiranno anche una pagoda buddista e un luogo di culto cristiano.

La diga di Myitsone è in costruzione già da dicembre 2009 e dovrebbe essere terminata nel 2017. Da ottobre 2009 gli abitanti della regione devono lasciare la propria terra. Per assicurarsi che ciò accada e rendere più difficile l'accesso, il governo ha militarizzato e fatto minare l'area. Da allora i Kachin sono costantemente esposti alle aggressioni e alle confische di terreno da parte dell'esercito. La violenza si abbatte in modo particolare sulle donne che sono vittime di stupri e di prostituzione forzata. Come conseguenza della violenza cresce l'incidenza dei problemi già esistenti come la disoccupazione, la tossicodipendenza e le infezioni di HIV. Sono in aumento anche le malattie come la malaria e gli avvelenamenti dovuti all'attività di estrazione dell'oro.

Non esistono misure di regolamentazione per la contrattazione con le persone - per la maggior parte appartenenti a gruppi etnici minoritari - colpite dalla costruzione delle dighe. Non vi è modo di opporsi ai dislocamenti forzati, spesso la popolazione viene a sapere del progetto di costruzione nello stesso momento in cui riceve l'ordine di andarsene. La proposta di alternative valide o il pagamento di un risarcimento costituiscono una rara eccezione.

La costruzione della diga e del suo bacino di raccolta comporta conseguenze ecologiche ed economiche incalcolabili. Sicuramente diminuiranno le specie di pesci presenti nel fiume e si teme per la sopravvivenza del delfino dell'Irrawaddy. Tre milioni di persone sono direttamente colpite dalle conseguenze sul delta dell'Irrawaddy: da un lato la riduzione del pesce metterà in crisi i pescatori e dall'altro lato le mancate inondazioni renderanno meno fertili i terreni creando così seri problemi ai contadini.

Nel frattempo alcuni Kachin si sono uniti in un movimento di resistenza. Le molte manifestazioni e lettere di protesta scritte e inviate al capo del governo Than Shwe e al generale Ohn Myint, incaricato di occuparsi della diga, finora sono rimaste senza risposta.

"Ci appelliamo a Lei [Than Shwe], stimatissimo grande fratello, affinché possa fermare la costruzione di questa diga e cerchi invece altre vie per coprire il fabbisogno energetico della regione e protegga noi popolo dei Kachin, la nostra cultura, i nostri diritti e la nostra terra da questo inimmaginabile orrore."
(da una lettera di protesta del villaggio Tanghpre al capo del governo Than Shwe)

Appello on-line: www.gfbv.de/emailprot.php?id=252

Indonesia: disboscamento e mega-progetti minacciano le popolazioni indigene [ su ]

Resistenza in Papua Occidentale

Ulrich Delius

Per la produzione di olio di palma viene utilizzata sempre più terra per queste piantagioni. Per la produzione di olio di palma viene utilizzata sempre più terra per queste piantagioni.

L'8 luglio 2010 oltre 20.000 indigeni Papua hanno manifestato nella città di Jayapura, nella parte occidentale dell'isola di Nuova Guinea controllata dall'Indonesia, contro lo sfruttamento selvaggio delle loro terre e contro il fallimento dello statuto di autodeterminazione della Paupa-Nuova Guinea. Nel 2001 l'autonomia dell'ex colonia olandese, oggi suddivisa in due regioni, era stata fissata per legge, ma le speranze dei Papua non si sono mai realizzate. L'abuso di potere, la corruzione e i lunghi iter burocratici hanno fatto confluire i soldi destinati alla Papua occidentale nelle tasche sbagliate.

Al posto dei sostegni finanziari è arrivato lo sfruttamento selvaggio delle risorse e dell'ambiente. Dalla caduta del dittatore indonesiano Haji Mohamed Suharto nel maggio 1998 circa il 25% delle foreste pluviali della Papua Occidentale è stato distrutto (Suara Pembaruan, 29.4.2010). Accanto ai boschi del Congo in Africa centrale e la foresta amazzonica, le foreste della Papua Occidentale sono considerate tra le più estese foreste al mondo.

La ricchezza di risorse dell'isola evidentemente però risveglia la bramosia di molti. Negli anni '90 il destino della regione sembrava segnato: nonostante l'opposizione dei Papua lungo il fiume Mamberano avrebbe dovuto sorgere un'enorme area industriale alimentata da una apposita diga che inoltre avrebbe dovuto fornire energia a tutto il sudest asiatico. Solo la crisi finanziaria asiatica del 1998 riuscì a fermare il mega-progetto.

La Papua Occidentale è grande circa 421.000 km2, più o meno quanto la Svezia, e grazie alla sua ricchezza di risorse naturali è il motore economico dell'Indonesia. L'impresa PT Freeport Indonesia estrae oro e rame ed è il maggiore contribuente privato in Indonesia. L'impresa che per il 90% appartiene alla statunitense Freeport McMoRan Copper& Gold Inc. viola pesantemente i diritti umani e diritti alla terra delle popolazioni Papua che vivono attorno alla sua miniera Grasberg. Grazie alla protezione ottenuta dall'esercito, l'impresa ha potuto continuare a espandere l'estrazione di risorse mentre le proteste della popolazione indigena venivano sedate nel sangue.

Nel Sudest asiatico cresce inesorabilmente la fame di terreni per la realizzazione di progetti agricoli come p.es. la produzione di olio di palma. L'Indonesia, la Malaysia e la Papua Nuova Guinea coprono oggi circa l'85% della produzione mondiale di olio di palma. Dal rossetto al cioccolato - quasi il 50% dell'intera produzione mondiale di merci contiene olio di palma. Se nel 1985 in Indonesia si coltivavano 600.000 ettari a palme da olio, nel 2006 l'area coperta da queste piantagioni copriva 4 milioni di ettari. Attualmente in Indonesia sono in corso 3.500 conflitti per la terra innescati dalla realizzazione di piantagioni di palme da olio. I circa 270 popoli indigeni a cui la terra appartiene tradizionalmente non sono in grado di difenderla efficacemente dall'invasione dell'economia agroalimentare.

Nella parte sudorientale della Papua occidentale si trova il Merauke Integrated Food and Energy Estate Projekt (MIFEE) il cui nuovo progetto riguarda l'occupazione di 16.000 km2 da coltivare a riso, mais, canna da zucchero, soia e palma da olio. I Papua protestano contro il progetto e temono l'arrivo di oltre 100.000 braccianti agricoli indonesiani. L'insediamento di coloni indonesiani e la riduzione dei Papua a minoranza è peraltro una tattica che il governo indonesiano utilizza per ridurre la portata delle richieste per una forte e ampia autonomia. I Papua però non temono semplicemente l'arrivo dei molti braccianti, ma soprattutto la distruzione delle foreste e quindi del loro stile di vita tradizionale e la perdita del diritto alla consultazione e alla partecipazione decisionale.

In agosto 2010 i Papua sembravano aver ottenuto il sostegno del consigliere presidenziale Kuntoro Mangkusubroto il quale aveva dichiarato che per tutelare l'ambiente MIFEE avrebbe dovuto accontentarsi di un'area dai 3.500 ai 5.000 km2 (Reuters, 18.8.2010). Il segretario per l'agricoltura della provincia di Papua Ricky Wowor però non vuole saperne di tali limitazioni e insiste nel voler portare avanti il progetto sull'area originariamente prevista di 16.000 km2.

Penan a Sarawak / Malesia [ su ]

Dighe che cancellano la memoria culturale

Julia Beckel

La diga di Bakun dovrebbe diventare operativa già alla fine del 2010. La diga di Bakun dovrebbe diventare operativa già alla fine del 2010.

L'energia prodotta dalle nuove dighe dello stato federale del Sarawak in Malesia non sarà destinata alla popolazione locale ma all'esportazione. Molti esperti di diritti umani temono però che le motivazioni per la costruzione delle dighe siano ben altre.

I progetti del governo di Sarawak (Malesia) per la costruzione di dodici nuove dighe sono stati scoperti per puro caso all'inizio del 2008. La presentazione del progetto fatta dal consorzio energetico Sarawak Energy Berhad era stata pubblicata per sbaglio in Internet. Rimosso quasi subito, il documento restò comunque visibile abbastanza a lungo affinché potesse essere ripreso e pubblicato sul sito della Fondazione Bruno Manser.

Le nuove dighe fanno parte del mega-progetto "Sarawak Corridor of Renewable Energy" (SCORE) del Primo Ministro Abdul Taib Mahmud, il cui scopo è la modernizzazione del Sarawak entro il 2020 grazie alla costruzione di centri industriali e produttivi con particolare attenzione per la fornitura di energia. Attualmente il Sarawak non ha però bisogno di ulteriore energia. Il fabbisogno energetico sarà coperto oltre il necessario dalla produzione della diga di Bakun che verrà collegata alla rete a fine 2010. La produzione energetica prevista per le dodici nuove dighe sarà quindi destinata all'esportazione e dovrebbe attirare investitori stranieri: i primi contratti in tal senso sono già stati firmati.

Il progetto minaccia i più deboli
Le foreste del Sarawak sono tra le più ricche al mondo in biodiversità e sono patria di popoli indigeni appartenenti a 40 gruppi etnici diversi. Per decenni hanno lottato in difesa dei loro diritti alla terra contro il disboscamento delle foreste e contro le piantagioni di palma da olio. Per migliaia di persone ora si aggiunge una minaccia: l'inondazione dei loro villaggi e delle loro terre tradizionali e il dislocamento forzato. Solamente per la futura diga di Murum perderanno la loro casa 1.200 persone appartenenti ai popoli dei Penan occidentali e dei Kenyah e verranno inondati sette villaggi.

I Penan costituiscono il popolo indigeno più debole poiché la loro economia tradizionale si basa sull'equilibrio intatto della foresta e su fiumi incontaminati. Il governo promette loro una vita migliore ma è già evidente che la promessa non sarà mantenuta. Una delle maggiori imprese del legname sta infatti disboscando la foresta e piantando palme da olio proprio nell'area destinata ad accogliere chi perderà la propria casa. Inoltre sono già iniziati i lavori di costruzione nonostante debba ancora essere pubblicato lo studio di impatto socio-ambientale il cui contenuto sembra costituire un grande segreto. I Penan non vogliono abbandonare la terra dei loro avi, chiedono la pubblicazione dello studio di impatto socio-ambientale e soprattutto di essere coinvolti nei processi decisionali.

Le nuove dighe non minacciano solo i Penan occidentali nel Sarawak centrale, ma anche i Kelabit nelle regioni orientali dello stato federale. Lungo il fiume Limbang sono stati avviati lavori di misurazione. Mutang Urud, attivista ed ex-collaboratore di Bruno Manser che ora vive in esilio in Canada, è preoccupato per il suo villaggio natale Long Napir: "Il progetto è un chiaro attacco ai nostri diritti come abitanti nativi della regione. Non solo cancellerà l'ambiente e la cultura ma priverà le future generazioni della loro memoria culturale."

Il pretesto delle dighe
Le popolazioni indigene interessate dalle nuove dighe temono di rimanere vittime della stessa sorte subita 14 anni fa da 9.400 persone (tra cui indigeni Kayan, Kelabit e Penan occidentali) dislocate a Sungai Asap per fare posto alla discussa diga di Bakun. Costretti all'economia di mercato sconosciuta ai più e per la quale non erano preparati, essi sopravvivono in condizioni di estrema povertà, sono perlopiù disoccupati e soffrono per la perdita delle radici culturali e identitarie. Sono ancora in attesa dei risarcimenti e delle terre agricole promesse e mai consegnate. Non hanno alcun titolo di proprietà per le poche e insufficienti terre che sono state loro assegnate, le quali sono comunque troppo lontane e poco accessibili.

L'avvocato specializzato in diritti terrieri e rappresentante dell'opposizione politica Baru Bian teme: "La costruzione delle dighe nel nome dello sviluppo è un pretesto per cancellare i diritti degli Indigeni nelle aree dei nostri maggiori fiumi. Non c'è alcun bisogno di queste dighe".

Tuareg [ su ]

L'uranio dall'Africa per l'industria atomica della Francia

Ulrich Delius

L'estrazione di uranio danneggia i diritti terrieri dei Tuareg distruggendo anche il loro ambiente vitale. Foto: Emilia Tjernström. L'estrazione di uranio danneggia i diritti terrieri dei Tuareg distruggendo anche il loro ambiente vitale. Foto: Emilia Tjernström.

Il rapimento di sette dipendenti di imprese energetiche ed edili francesi avvenuto lo scorso 16 settembre 2010 in Niger ha evidenziato l'importanza che questo stato dell'Africa occidentale ricopre per l'approvvigionamento energetico della Francia. Senza l'uranio proveniente dal Niger i 58 impianti atomici della Francia non potrebbero funzionare. L'impresa energetica francese Areva ottiene circa un terzo del suo uranio dalle miniere nel Niger settentrionale. Nel 2009 l'impresa ha estratto 8.600 tonnellate di questo prezioso minerale da miniere situate nella regione di Arlit, e sempre in Niger l'impresa vorrebbe avviare ancora nuove miniere.

Da anni l'impresa francese Areva è sotto i riflettori delle organizzazioni ambientaliste e delle popolazioni Tuareg locali. La terra in cui lavora Areva appartiene tradizionalmente ai Tuareg - una popolazione che vive nella zona del Sahel, tra il Niger, il Mali, l'Algeria, la Libia e il Burkina Faso. Nonostante l'estrazione dell'uranio nel nord del Niger costituisca il 30% delle entrate del paese, finora i Tuareg della regione non solo hanno approfittato molto poco delle ingenti entrate ma hanno anche subìto le pesanti conseguenze ecologiche e sanitarie dell'attività mineraria.

In seguito alle richieste dei Tuareg, gli ambientalisti francesi del laboratorio indipendente CRIIRAD 2003 hanno per la prima volta analizzato i rischi per la salute che l'estrazione di uranio comporta per la popolazione di Arlit. A causa della mancata cooperazione da parte dell'impresa Areva, gli scienziati si sono visti costretti a lavorare di nascosto. I risultati della loro indagine documentano una vera e propria catastrofe sanitaria. Le fonti d'acqua potabile sono contaminate da sostanze radioattive e materiali contaminati sono stati utilizzati nella costruzione delle strade. La violazione delle norme di tutela e sicurezza internazionali è evidente. Diversi dipendenti Tuareg hanno inoltre raccontato che l'impresa avrebbe regalato loro attrezzi usati in miniera per l'estrazione dell'uranio - e quindi contaminati - che in questo modo sono stati utilizzati nella costruzione della propria casa, a portata dei bambini e/o usati in cucina.

Da un'inchiesta condotta dall'organizzazione non governativa francese Sherpa nel 2005 risulta che i minatori nel nord del Niger non sono mai stati informati sui rischi e pericoli per la propria salute legati al lavoro in una miniera di uranio. L'alto tasso di tumori polmonari e di casi di leucemia non sono finora bastati per convincere Areva ad assumersi le proprie responsabilità e anzi, l'impresa continua a sostenere l'innocuità dell'estrazione dell'uranio. A soffrire le peggiori conseguenze per la salute sono soprattutto i minatori Tuareg, solitamente assunti come lavoratori ausiliari e/o precari.

La nuova inchiesta condotta nel 2010 dall'organizzazione ambientalista Greenpeace ha ulteriormente confermato i dati allarmanti già forniti dalle inchieste precedenti. L'inchiesta di Greenpeace sottolinea in particolare le terribili condizioni di lavoro nelle miniere di uranio e l'insufficiente tutela delle popolazione Tuareg residente. Sempre più la violazioni dei diritti delle popolazioni native della regione sono causa di conflitti armati. Tra il 2007 e il 2009 l'organizzazione Tuareg "Movimento dei Nigerini per la Giustizia" (MNJ), in lotta contro il governo del Niger, ha infatti chiesto il miglioramento delle condizioni di lavoro nelle miniere, l'effettiva tutela della popolazione e una giusta partecipazione della popolazione locale agli introiti dell'attività mineraria. Messa sotto pressione dalla Libia, nel 2009 il MNJ ha deposto le armi, ma le richieste formulate continuano ad essere valide.

La situazione dei Tuareg è particolarmente drammatica: l'attività mineraria non solo viola i loro diritti tradizionali alla terra ma a lungo termine distrugge la loro patria e terra. E ora anche il vicino Mali ha iniziato a cercare il prezioso minerale sulla terra dei Tuareg.

Oromo in Etiopia [ su ]

Il furto di terra in Etiopia alimenta la fame

Ulrich Delius

Donna oromo al lavoro in una delle 85 piantagioni di rose dell'Etiopia. Donna oromo al lavoro in una delle 85 piantagioni di rose dell'Etiopia.

Per attirare investitori stranieri e aumentare le esportazioni agricole, il governo dell'Etiopia punta sulla vendita e l'affitto a imprese straniere di enormi aree agricole. In India p.es. si pubblicizza l'affitto di mezzo ettaro di terreno in Etiopia per la modica somma di un dollaro USA all'anno (Hindu Business Line, 25.6.2010).

Nella regione di Gambela ora parte del popolo degli Anuak protesta contro la svendita del proprio territorio a investitori stranieri. In agosto 2010 si è infatti saputo che il governo etiope ha affittato 27.000 ettari di terra nella regione di Gambela all'impresa indiana BHO Agro Plc che trasformerà la terra in piantagioni per la produzione di biodiesel (addisvoice.com, 29.8.2010). Salgono così a tre le grandi imprese indiane che affittano grandi porzioni di terra nella regione di Gambela. All'inizio del 2010 il Ruchi Group si era assicurato l'utilizzo di 25.000 ettari di terra per la coltivazione di piante per la produzione di biodiesel, mentre già dal 2008 l'impresa Karaturi Global Ltd coltiva 300.000 ettari di terreno etiope a grano destinato all'esportazione in India. Contemporaneamente in Etiopia 13 milioni di persone dipendono per la loro sopravvivenza dagli aiuti alimentari internazionali.

Ciò nonostante il furto di terra continua così come i dislocamenti forzati delle popolazioni locali. Nei prossimi anni l'impresa saudita Saudi Star Company, che già coltiva 10.000 ettari a riso e ad altri alimenti esportati in Arabia saudita, intende coltivare ulteriori 500.000 ettari (Anywaa Survival Organisation, 8.9.2010). Per il popoli degli Anuak tutto ciò equivale a una progressiva condanna a morte. La perdita di terreno finora subito ha messo in crisi la loro capacità di garantirsi la sopravvivenza, e ogni nuovo compratore o affittuario straniero aggrava la situazione. Gli Anuak hanno iniziato a difendersi dai nuovi arrivati. Le forze di sicurezza etiopi hanno reagito all'aumento dei conflitti con brutale violenza compiendo negli scorsi anni diversi massacri tra gli Anuak.

Anche la regione centrale dell'Oromia è da anni teatro di continui conflitti. Da decenni i membri degli Oromo - il gruppo etnico più grande e discriminato dell'Etiopia - si battono per l'indipendenza della loro regione. Tradizionalmente gli Oromo vivono sulle terre vicine alla capitale Addis Abeba e sono quindi particolarmente colpiti dagli espropri. La maggior parte delle 85 piantagioni di rose dell'Etiopia si trovano nelle immediate vicinanze dell'aeroporto. A partire dall'avvio della produzione di fiori da esportazione nel 2000 centinaia di contadini Oromo sono stati letteralmente derubati della loro terra consegnata poi ai proprietari delle piantagioni.

Gli Oromo non subiscono solo la crescente industria dei fiori ma anche la svendita o la locazione di circa 2,7 milioni di ettari di terreno destinati alla coltivazione di piante per la produzione di biodiesel (jatropha, palme da olio, ricino, canna da zucchero). In molti casi essi sono stati costretti da impiegati statali a vendere a prezzi irrisori quella terra che fino a quel momento alimentava un'intera famiglia allargata. Tuttora circa l'85% della popolazione etiope coltiva e produce i propri alimenti. Il governo aveva promesso ai contadini che avrebbero avuto lavoro nelle piantagioni ma i salari, che si aggirano attorno a un euro al giorno, non bastano certo a sfamare l'intera famiglia. I contadini impiegati come braccianti nelle piantagioni soffrono anche il massiccio utilizzo di pesticidi contro i quali non sono adeguatamente protetti. Secondo una recente ricerca della Banca Mondiale, i terreni venduti e/o affittati a investitori stranieri hanno prodotto solo 0,005 posti di lavoro per ettaro (1 posto ogni duecento ettari).

L'opposizione alla svendita dei terreni agricoli è stata ribadita dagli Oromo e dalle organizzazioni per i diritti umani durante una conferenza tenuta in luglio 2010 a Londra. Tutti temono che il furto di terre non potrà che comportare ulteriori dislocamenti forzati a cui seguirà inevitabilmente un aumento dei conflitti e del numero di persone ridotte alla fame.

Deserto del Kalahari: gli Indigeni africani tutelano le proprie conoscenze ancestrali [ su ]

L'industria farmaceutica vuole brevettare la Hoodia, pianta medica dei San

Inse Geismar e Ulrich Delius

Boscimani San a Gope, Central Kalahari Game Reserve, Botswana. Boscimani San a Gope, Central Kalahari Game Reserve, Botswana.

Da secoli i San e i Nama dell'Africa meridionale conoscono gli effetti curativi delle piante del deserto, come quelli della Hoodia, una succulenta che si è adattata perfettamente al clima secco del deserto del Kalahari. I San e i Nama, tradizionalmente cacciatori e raccoglitori, usano la pianta per sedare la fame e la sete durante la caccia. Ora l'industria farmaceutica utilizza le conoscenze tradizionali delle popolazioni indigene San e Nama e commercializza prodotti alla Hoodia per dimagrire.

Le popolazioni indigene però si oppongono. "La nostra conoscenza non è una merce", dichiarano ed esigono di poter decidere esse stesse a quali scopi e con chi condividere la loro millenaria conoscenza. La terra dei San e dei Nama è talmente ricca di piante mediche da sembrare un supermercato del naturale. Tutta questa biodiversità rischia però di essere svenduta al miglior offerente se non vi sarà presto una regolamentazione per l'utilizzo delle risorse e delle conoscenze.

Con lo scopo di far brevettare e garantirsi l'utilizzo di piante medicinali, le industrie farmaceutiche inviano scienziati in zone remote, anche laddove vi sono popolazioni indigene che vivono in isolamento. Piante mediche che fino ad ora venivano usate da tutta la popolazione saranno d'ora in poi riservate solo a determinate imprese - a quelle che se ne sono assicurate il brevetto e che così possono commercializzarle.

La pianta di Hoodia. La pianta di Hoodia.

Nel 1995 degli scienziati sudafricano fecero brevettare il principio attivo della Hoodia senza che vi fosse alcun accordo preventivo con le popolazioni native San e/o Nama. Quando in un secondo momento vendettero i diritti a un'impresa farmaceutica statunitense, i San e le loro organizzazioni di sostegno protestarono e denunciarono il fatto. Nella denuncia i San si richiamano anche alla "Convenzione sulla diversità biologica" (CBD), approvata dopo lunghe trattative nel 1992 proprio per limitare la svendita delle risorse naturali. I San ottennero che la loro conoscenza tradizionale fosse riconosciuta e che quindi avessero diritto al 6% dei profitti sulla commercializzazione dei prodotti alla Hoodia.

Si tratta però di procedimenti giudiziari lunghi e costosi. Spesso le popolazioni indigene non hanno alcun contatto con avvocati specializzati in materia che possono fornire una consulenza appropriata e aiutarli nell'ottenere i loro diritti e far valere i loro interessi. Inoltre le industrie farmaceutiche sono perlopiù poco cooperative e tentano con ogni mezzo di ostacolare la partecipazione ai profitti delle popolazioni indigene detentrici delle conoscenze sfruttate.

Il successo ottenuto con il procedimento sulla pianta della Hoodia ha incoraggiato le organizzazioni non governative africane a impegnarsi per la salvaguardia delle conoscenze tradizionali delle popolazioni native. Esse ora chiedono all'ufficio brevetti europeo a Monaco di Baviera di annullare il brevetto per il noto anti-influenzale Umckaloabo, le cui proprietà curative sono da sempre conosciute dalle popolazioni native dell'Africa meridionale. L'ufficio brevetti ha annullato cinque brevetti fino a che nell'aprile 2010 il produttore farmaceutico tedesco non ha capitolato e ha annunciato d non volere più fare ricorso contro la decisione dell'ufficio europeo.

Nonostante la Convenzione sulla diversità biologica, la biodiversità nei territori dei popoli indigeni non è mai stata minacciata quanto oggi. Nel maggio 2010 le Nazioni Unite hanno messo in guardia dalle conseguenze drammatiche della distruzione della biodiversità e hanno accusato la comunità internazionale di non impegnarsi abbastanza per la tutela delle specie. Per le popolazioni indigene la tutela delle specie è soprattutto una questione di sopravvivenza. L'Associazione per i Popoli Minacciati chiede quindi:
- la ratifica e applicazione della Convenzione sulla diversità biologica da parte di tutti i paesi firmatari
- l'utilizzo delle conoscenze tradizionali delle popolazioni indigene solo con l'esplicito consenso della popolazione interessata
- persecuzione delle violazioni della convenzione
- le conoscenze tradizionali delle popolazioni indigene devono continuare ad essere liberamente utilizzabili dalle popolazioni interessate senza che vi siano limiti e/o vincoli dati da brevetti o da altri accordi.


Pogrom-bedrohte Völker 261 (4/2010)