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IL '68 (E DINTORNI ...) IN VALLE D'AOSTA

di Claudio Magnabosco

Dicembre 2003

INDICE
Gli anni dei centres culturels | Per una storia dell'E.A.C. | Le attività dell'E.A.C.

Gli anni dei centres culturels .: su :.

Nessuno lo ammette, e me ne sorprendo, ma in Valle d'Aosta ci sono stati almeno tre diversi '68. Ne sono stato testimone diretto e trasversale, li ho conosciuti da dentro; ne ripropongo ora una lettura critica attualizzata, ma li ricordo anche per ciò che sono stati nel contesto storico specifico, evidenziando le interazioni tra fatti di rilevanza locale, eventi di importanza "nazionale" (sempre sottolineando che con questo termine si intende ciò che riguarda l'intero Stato italiano ed appena ipotizzando che sarebbe molto utile raccontare come in Sardegna e in Friuli - per citare soltanto due tra le nazionalità dello Stato italiano - il '68 sia stato un fenomeno fortemente caratterizzato e differenziato rispetto al '68 ... italiano) e vicende di peso europeo.

In estrema sintesi, sostengo che il '68 in Valle d'Aosta visse lo scontro tra destra e sinistra, ma visse anche, all'interno della destra e della sinistra, il maturare di una dinamica nuova che ispirò, di lì a poco, la nascita dei centres culturels, vero '68 valdostano. Le mie considerazione valgono, quindi, sia sul piano locale, sia su quello allargato e sottintendono una esperienza, quella dell'Équipe d'Action Culturelle, un centre culturel le cui finalità sono sempre state quelle di creare "une alternative européenne" e, quindi, sono sempre state parte di un movimento valdostano di respiro europeo.

L'E.A.C. ha cercato di essere un centre culturel che portasse l'Europa in una Valle d'Aosta incapace di produrre una riflessione seria su sé stessa ed al cui interno si producevano fenomeni troppo fortemente influenzati dalla cultura stato-nazionale, troppo poco legati all'ambito della sua area culturale storica (quella francoprovenzale), poco sensibili alla grande realtà francofona. Tutto questo per portare, di contro, la Valle d'Aosta in Europa. C'è sempre stata, dunque, una filosofia nell'action dell'E.A.C. e non è possibile raccontare l'E.A.C. e quegli anni senza citare connessioni ignorate dai più. E senza proporre opportune ed adeguate riflessioni.

Oggi in Italia ed in Valle d'Aosta ci sono persone che si atteggiano a depositarie gelose di un loro '68 rivoluzionario, trasgressivo, libertario e "rosso", anche se negli anni della loro maturità hanno fatto scelte culturali e politiche che sono scaturite da un altro '68 che essi negano perfino si sia prodotto. Oggi ci sono altre persone che hanno vissuto un loro '68 rivoluzionario, trasgressivo, libertario e "nero" e che rinnegano questa loro esperienza, convinti di aver sbagliato - allora - la parte con la quale si schierarono; non è inconsueto che oggi costoro siano dei progressisti e che minimizzino il significato delle loro esperienze giovanili, definendole "roba da ragazzi".

Gli uni e gli altri finiscono col non essere troppo diversi da quelli che passarono attraverso il '68 senza accorgersi di nulla, come se nulla stesse accadendo. Forse per questo tutti scelgono il rifugio della gogliardia che è morta nell'ambiente universitario, ma rispunta come folklorizzazione della cultura del '68. Come sempre la folklorizzazione è dannosa per la cultura. La prima sigaretta o il primo spinello, il primo amore o la prima molotov, il primo discorso in pubblico o il primo volantino diventano, così, il ricordo di gesti di una normale adolescenza.

Un comportamento, questo, che ha molto in comune con le forme di revisionismo storico che caratterizzano la normalizzazione post-bellica in Italia e, in particolare, questi nostri anni di revisionismo culturale dovuto al fatto che al governo della Repubblica siedono esponenti della cultura di destra e di orientamento politico post-fascista: sia quelli che ha fatto la Resistenza, sia quelli che sono stati nella Repubblica Sociale Italiana sarebbero da considerare - secondo le tesi revisioniste - come "patrioti" che, in fondo, volevano solo il bene dell'Italia, pur militando in fronti contrapposti.

Con un'ottica revisionista del tutto analoga, la maggior parte di chi ha fatto il '68 considera quegli anni soltanto gli anni della propria giovinezza (che è sempre "primavera" di qualcosa!), seppur vissuta con un po' più di passione politica e civile di altre generazioni. Si arriva, così, ad affermare che nel '68 non ci furono una parte giusta ed una parte sbagliata. E se ci furono, queste oggi sono addirittura rovesciate: rileggendo quegli anni, la cultura italiana odierna giunge ad affermare che il paese aveva bisogno di essere difeso dal comunismo; la rivolta giovanile del '68 e dintorni, insomma, sarebbe stata un incosciente atto antidemocratico, un attentato alla democrazia, perchè la spinta giovanile, unita a quella degli operai in sciopero durante il cosiddetto "autunno caldo", sarebbero state parti di una strategia sovversiva di cui divenne poi componente non spuria il terrorismo.

Contro il comunismo, così, tutto diventò "legittimo" nella politica reazionaria dei vari governi italiani (in realtà lo è sempre stato e continua ad esserlo!): le violenze della Polizia del Governo Scelba contro gli operai; l'assassinio di Moro (abbandonato dallo Stato al proprio destino); le bombe di Stato; le scelte di quanti contrastarono ideologicamente e fisicamente la piazza "rossa". Contro il comunismo tutto diventa legittimo anche nella rilettura odierna di quegli anni che identifica una parte giusta in quel conflitto politico e sociale: quella reazionaria. Che è giusta solo perchè, come sempre avviene nella storia, è la verità dei vincenti.

Cerchiamo, allora, una verità che vada oltre la "verità" storico-politica, evidenziando gli elementi più profondi e nascosti (forse per questo non compresi neppure da molti protagonisti di quegli anni). Ritorniamo alla spinta rivoluzionaria e trasgressiva che caratterizzò quegli anni per affermare che non furono soltanto gli anni della contestazione e della reazione, ma anche del dibattitto sulle forme della democrazia e dello Stato. Un dibattito che aveva radici lontane, radici senza le quali il '68 stesso non si sarebbe prodotto, un dibattito che continuò anche quando i fuochi della rivolta giovanilista e della reazione governativa si spensero, lasciando comunque un segno profondo nella politica e nel costume.

In quegli anni, qualcuno pensava che fossero imminenti dei grandi cambiamenti e che bisognasse farsi trovare pronti ed armati. Il P.C.I. aveva una struttura clandestina, parallela al Partito ed armata; so di giovani valdostani che hanno vissuto entrature o continuità con queste aree del comunismo italiano. E ricordo come il vecchio capo missino di Aosta, per trattenere i giovani che nel giro di pochi mesi si erano avvicinati alla Giovane Italia e se ne stavano allontanando, spaventati dal timore di essere corresponsabili dello stragismo neofascista, assicurava che era imminente un colpo di Stato anticomunista.

Le Brigate Rosse e altre formazioni rivoluzionarie, clandestine e non, sono state una realtà; il golpe di Valerio Borghese anche. Nelle prime furono coinvolti anche dei valdostani (Sofri è in galera, innocente, per le delazioni strumentali di un valdostano); nel secondo fu coinvolto il capo del Movimento Sociale Italiano di Aosta, pesce piccolo, comunque allertato (all'armi siam anticomunisti!).

Non possiamo, allora, ricordare soltanto un '68 fatto di gioia, di fantasia, ecc., sostanzialmente per svuotarlo politicamente di ogni significato e per concludere che tutti abbiamo fatto il '68 ... un po' come dire che tutti abbiamo fatto l'alpino, anche se in realtà, ci han chiamati nell'artiglieria missilistica contraerea o abbiamo fatto gli obiettori di coscienza. Il '68 mitizzato (per svuotarlo della sua verità) fu essenzialmente un movimento spontaneo ed anarcoide, ispirato da due valori fondamentali: la "gioia" di una generazione che cresceva senza incubi bellici, senza orrori nazifascisti, senza fame, senza ignoranza, quasi senza classi e - sicuramente - senza limiti e confini; e la voglia di ribellarsi a tutto ciò che poteva mettere a rischio il libero fluire di questa vita finalmente vitale: le logiche pericolose dei blocchi, la povertà, lo sfruttamento di troppi popoli, il colonialismo nel continente africano, il razzismo a casa dei "liberatori" americani.

Questo movimento trovò spazio in Valle d'Aosta in buona parte senza avvedersi di quanto la realtà della Valle fosse diversa dal resto d'Italia. Fu un movimento fotocopia e come tale non trovò la forza per individuare nella Valle l'importanza del ruolo della dimensione locale in contrapposizione ad una dimensione globale che già allora si affermava. Eppure in Valle d'Aosta, la matrice cattolica di Émile Chanoux e quella marxista di Gramsci avevano prodotto, fin dai primi anni del 900, un singolare parallelismo ideologico ed ideale: l'individuazione degli operai e dei contadini come due classi indispensabili alla vita ed allo sviluppo di un popolo; l'individuazione del territorio, della dimensione locale come spazio umanizzato, a partire dal quale è possibile costruire una società più ampia e solidale ... Che questo sia il federalismo non è azzardato affermarlo.

In Valle d'Aosta, all'interno della Resistenza antifascista erano presenti, più che le differenziazioni e/o le divisioni politiche, quelle di tipo "nazionale": molti comunisti, socialisti, democristiani, azionisti si sentivano soprattutto valdostani; ancora nei primi difficili anni del dopo guerra poterono scoppiare i fuochi del separatismo. All'inizio degli anni 50, mentre in tutta Italia i comunisti erano messi al bando e venivano esclusi dalla possibilità di governare (tranne, ovviamente, nelle zone "rosse" dove il consenso che ottenevano era considerevole), la Valle d'Aosta affermò la propria diversità nella concezione stessa della politica, portando proprio i comunisti al governo della Regione insieme al partito autonomista che raccoglieva un variegato consenso tra moderati, federalisti, separatisti, impegnati a cercare di trarre il meglio dall'autonomia concessa (Statut octroyé) dallo Stato.

Sembrò quasi che i partiti mentre in Italia costruivano una diga anticomunista e antiautonomista (con i suoi riflessi nella politica valdostana, ovviamente), differenziandosi per caratteristiche ideologiche, in Valle d'Aosta si differenziassero per altre caratteristiche: contadini e borghesi nella D.C., comunità immigrate e, in particolare, calabresi nel P.S.I. (soprattutto negli anni '60), nazionalisti italiani negli schieramenti conservatori e liberali. Che comunisti ed autonomisti potessero governare insieme dovette sembrare a Roma un doppio tradimento: gli unionisti erano considerati anti-italiani, i comunisti erano considerati anti-democratici. In Valle d'Aosta governavano insieme e, a quanto dicono la storia e la cronaca, governavano abbastanza bene, portando avanti un progetto politico fortemente ispirato dal bisogno di mantenere uno stretto rapporto - a cavallo tra tradizione e rinnovamento (tradition et renouveau) - tra uomini e territorio, in una dimensione fortemente ispirata dai valori della solidarietà.

In quegli stessi convulsi anni, "grandi" progetti che venivano attuati in Valle d'Aosta per volontà del potere centrale, erano considerati dai valdostani più attenti non come occasione di sviluppo, ma come aggressione agli uomini ed al territorio: la costruzione delle dighe per la produzione di energia idroelettrica si rivelò in tutta la sua drammaticità, soprattutto là dove comportò lo delocalizzazione di interi villaggi che furono sommersi dalle acque di enormi e pericolosi invasi.

Queste grandi opere divennero nella loro ineluttabilità, il simbolo della "dipendenza" della Valle d'Aosta da scelte economiche e politiche contro le quali non si poteva opporre neppure l'autonomia. Le pressioni della Chiesa, che per aiutare la D.C. giunse a scomunicare gli autonomisti che collaboravano con il P.C.I; la preponderanza organizzativa del P.C.I, che nella maggioranza con l'U.V. la schiacciava, muovendo i giovani autonomisti a rivendicare, con orgoglio, una capacità di attivarsi per motivi preminentemente ideali; i primi concreti e positivi risultati che l'autonomia pur conseguiva, dimostrando che nelle logiche politiche ed economiche italiane la Valle d'Aosta aveva qualcosa da guadagnare (la qualità della vita migliorò indubbiamente), caratterizzarono per un lungo periodo l'attività delle organizzazioni politiche, culturali e giovanili.

In questa "normalizzazione" lo stesso significato "storico" dell'accordo tra P.C.I ed autonomisti cominciò a non esser percepito come tale e benché la sinistra fosse al potere, il '68 scoppiò anche in Valle d'Aosta. A me quella rivolta, almeno per come si produsse in Valle d'Aosta, sembrò pretestuosa: altre, e non quelle dei contestatori, mi sembravano dover essere le ragioni vere di un ribellismo che pur si rendeva necessario; e troppo uguali al resto d'Italia erano le argomentazioni dei contestatori per poter costituire un credibile movimento "valdostano", quale auspicavo diventasse quando con gli amici del Gruppo che sarebbe diventato formalmente, di lì a poco, l'Équipe d'Action Culturelle, proponevo i valori del federalismo (quello vero, ovviamente), come proposta di rivolta contro ogni forma di centralismo, quello dei ribelli e quello dei reazionari.

Torniamo ai fatti o, almeno, ai miei ricordi dei fatti, proposti in una libera aggregazione per presentare non tanto una sequenza temporale, ma il clima politico, culturale, sociale e psicologico. In questo clima, l'E.A.C. muoveva i suoi primi passi. Nel 1967 (avevo 16 anni), organizzai i compagni di scuola in un "Gruppo Giovanile": li pungolai a far teatro, a raccogliere poesie, a realizzare mostre, a cimentarsi con la musica, a leggere e rileggere la storia e la cultura della Valle d'Aosta. In un volantino, che ciclostilammo presso la F.G.C.I., protestavamo perché "la società non dialoga".

Analizzammo, così, il problema della droga, il cui uso cominciava a diffondersi tra i nostri coetanei; la nostra ricerca, lunga ed approfondita, venne poi pubblicata nel 1972. Seguivamo da vicino le proposte delle altre organizzazioni giovanili, tra queste il C.U.V. (Comitato degli Universitari), guidato da un Salvadori con il quale condividevamo l'idea di istituire una università in Valle d'Aosta, trovando, da allora e fino agli anni 90, la ferma opposizione di tutte le forze politiche. Eravamo un gruppo anarcoide, privo di struttura e di organizzazione, politicamente e culturalmente eterogeneo; nessuno era interessato a qualificarsi in qualche modo, a rientrare in qualche schema, a contrapporsi ad altri per questo.

In quel periodo mi capitò di subire la prima di una serie di "censure" giornalistiche che ho spesso subito nel tempo (oggi, ormai, non me ne curo, poiché comprendo che è sempre la paura della verità o motivare ogni forma di censura): da bambino, avevo scritto un breve articoletto sulle tradizioni valdostane, pubblicato, a seguito di un concorso, sul "Monitore Valdostano"; affrontai lo stesso argomento in lingua francese per il giornaletto del liceo che respinse il mio contributo!

Nel gruppo, ero un piccolo leader: pochi dei miei compagni conoscevano le vicende della Resistenza come le conoscevo io: mio padre, partigiano comunista a Cogne, me le aveva raccontate quando altri genitori ai figli raccontavano le fiabe; senza istruzione e senza intellettualismi, lui che non aveva mai letto un libro in vita sua, teneva in casa dei libri: li leggevo al posto di Tex Willer (ho cominciato ad apprezzarlo solo in anni "maturi"). Ogni domenica, mio padre leggeva l'Unità e per molto tempo i libri dell'Unità furono per me letture "obbligatorie". Mi diedero una formazione ed una predisposizione al dubbio, là dove tutti erano pronti a trovare uno schieramento nel quale collocarsi acriticamente, nutrendosi di false certezze; sfuggii il carattere obbligatorio di quelle letture, trovandomene altre, di ispirazione diversa.

Per questo mio ruolo di leader di un gruppo, fui invitato alle prime riunioni che si tenevano alla Birreria di Aosta, in Via Xavier de Maistre e nella quale venne preparato ... il '69 della Valle d'Aosta. Mi ritrovai di fronte ad un nuovo obbligo: ribellarmi, perchè tutti si ribellavano. L'idea non mi convinceva e ancor meno mi convinceva l'idea di lasciare che il mio gruppo fosse spazzato via. Così quando il Liceo di Aosta venne occupato dal Movimento Studentesco, feci parte di quei 240 studenti che firmarono un volantino per dire che volevano ragionare con la loro testa. L'associazionismo locale sembrava impegnato a partecipare al Movimento Studentesco o al Movimento Operaio ed incapace di connotare una propria indipendenza che, a mio avviso, comportava il rifiuto della obbligatorietà di una rivolta che non mi appariva affatto tale, assumendo ai miei occhi più la caratteristiche di un fatto episodico, di una moda che altro: mi ero convinto, infatti, ed erano le letture di Denis de Rougememont a confortarmi, che solo il federalismo rappresentava qualcosa di diverso in un quadro storico nel quale comunismo da un lato e capitalismo dall'altro non erano che due facce di una stessa dinamica incentrata sulla conquista del potere.

Dopo l'ultima Assemblea studentesca nella quale ero stato deriso perché considerato non propositivo, mi schierai a destra, contro il movimento studentesco e preparai per il "Gruppo René de Challand", nel quale si raccoglievano i giovani reazionari, un progetto di riforma della scuola basato sul tempo pieno, la meritocrazia, i sussidi agli studenti universitari ... insomma tutte le cose che sono normalmente richieste dalla ... sinistra. Il documento proponeva anche l'istituzione di una Università Valdostana.). Proposi, inoltre, l'approfondimento nella scuola valdostana della storia valdostana; Italo Cossard scriveva, fin dal 1950, nella sua Histoire et Géographie de la Vallée d'Aoste, che alla fine della seconda guerra mondiale si contarono molti morti e "un jour qu'on espère assez proche, on pourra ajouter à ces morts ceux qui sont tombés de l'autre coté de la barricade". Proposi una lettura incrociata - che a molti dei miei coetanei risultò sconvolgente - delle "Lettere di condannati a morte della Resistenza" e delle "Lettere di condannati a morte della R.S.I.". Il mio non era revisionismo, ma ricerca della verità, anche di quella impopolare e scomoda.

Presi botte dai "rossi", ma forse per un intervento di mio padre, forse per caso, alla fine non subii più nessuna aggressione fisica Per difendermi da quelle culturali non mi sono mai mancate le argomentazioni. Appena il clima si calmò, cominciai a ritessere le fila di un mio gruppo, di un mio movimento, anche perché molti amici del vecchio Gruppo Giovanile, uscivano con le ossa rotte dal movimento studentesco o dalle esperienze estremistiche di sinistra: il Movimento Studentesco li aveva portati "altrove", aveva proposto impegni che puntavano a realizzare una qualche rivoluzione e la festa della ribellione si stava rivelando una ubriacatura intellettuale; la destra li aveva portati ancor più lontano, li aveva resi complici di una involuzione politica che metteva in difficoltà la stessa democrazia.

Vissi direttamente ed indirettamente "strane" esperienze che più di ogni lettura o di ogni rabbiosa reazione, mi fecero maturare. In quegli anni, ad esempio, i gruppi più agguerriti dell'estrema destra e dell'estrema sinistra, cominciarono a trovare intese e sintonie. Un ex agente segreto spagnolo raccontò in un libro (che io recensii negli anni 80 per "La Stampa") che in alcune località del Nord Italia, e fra queste Aosta, nei primi anni 70 si tennero riunioni di "nazimaoisti", termine che ben definisce chi fossero i partecipanti a queste riunioni. Lo spiritualismo etnico di Julius Evola (non suoni avulso, le sue ceneri riposano in Valle d'Aosta, nel ghiacciaio del Monte Rosa) ispirò alcuni movimenti nazionalitari europei che pur di affrancarsi dal dominio degli Stati nei quali erano stati accorpati, erano stati capaci durante la seconda guerra mondiale di allearsi con i nazisti; fra questi i fiamminghi.

Un intellettuale tradizionalista basco da alcuni considerato un teorico di ETA, cominciò a frequentare la Valle d'Aosta e a raccogliere attorno a se un cenacolo di giovani. Un giovane piemontese, Roberto Gremmo, che negli anni 90 diventò consigliere regionale in Valle d'Aosta utilizzando in campagna elettorale un simbolo che evocava quello dell'U.V., negli anni 70 evocò la possibilità che i walser della Valle del Lys avessero un legame genetico con i fiamminghi. Il massimo teorico del federalismo politico, Guy Héraud, frequentava già da alcuni anni la Valle d'Aosta; legato al filosofo austriaco Théodor Veither, è considerato ancora oggi come una delle voci più autorevoli della nuova destra europea.

E mentre a destra si determinavano queste strane connessioni, la sinistra dei popoli di Lelio Basso, i militanti delle lotte di liberazione nazionale ispirati da Franz Fanon, i baschi e gli irlandesi, Feltrinelli con il suo progetto di fare della Sardegna la Cuba del Mediterraneo, si proponevano di unire i proletari e le nazioni senza stato in una unica lotta. Il nazimaoismo si infiltrò in queste lotte dando vita soprattutto in Irlanda e nei Paesi Baschi a gruppi nazionalitari nei quali fu difficile distinguere i provocatori al servizio di non si sa bene chi ed i rivoluzionari.

In Italia il ruolo dei Servizi Segreti e quella che fu definita la strategia di tensione con le stragi di stato, dimostrò che tutte le lotte risultavano in qualche modo inquinate. Di lì a poco un esponente di primo piano della cultura valdostana, Pierre Grosjacques, propose all'U.V. l'adesione ad una Internazionale delle nazionalità, avvedendosi appena in tempo per rimanerne fuori che era proposta dai fiamminghi post-nazisti. L'Unione Sovietica in quegli anni finanziava baschi, irlandesi ed altre nazionalità con l'esplicito intento di destabilizzare l'Europa o, quanto meno, di contribuire a creare confusione e tensione sociale in tutti gli Stati occidentali. In Europa, così, chi non era per questa strategia "comunista" sovietica e marxista, ma era leninista, troskista, ecc, continuava e rimanere vittima delle logiche gruppettare tipiche della sinistra.

Intanto in Valle d'Aosta una certa esaltazione della tradizione (quella cui io guardavo nei miei primi articoli per poter entrare più a fondo nell'identità della terra dove sono nato), corrispondeva alla sublimazione di una identità metafisica: il rito, il mito e la festa diventarono, così, i tre elementi identificanti di un immaginario collettivo identitario; la civilisation veniva interpretata come una sorta di destra rurale le cui chiusure mentali spiegano - insieme alle lotte intestine per il potere - come l'U.V. abbia potuto spaccarsi ripetutamente a destra e a sinistra. Mi succedette allora di rendermi conto di tutto ciò e di poter finalmente definire in un articolo che metterà un anno e mezzo a superare le censure, la cultura della destra come "cultura del sangue" che su un falso identitario innesca violenze e terrore. L'articolo mi cosò caro: il M.S.I. diffuse volantini e affisse manifesti contro di me e le organizzazioni della sinistra tentarono di marginalizzare le proposte che articolavo con il mio nuovo e rinnovato gruppo culturale.

E mentre proponevo questa considerazione vivevo intensamente l'esperienza di quel terzo '68 della Valle d'Aosta che ritengo di aver contribuito a determinare mettendo insieme il fil rouge della mia visione politico-culturale, depurata dagli errori di quell'azionismo a tutti i costi di cui resta traccia nella definizione stessa di quella che è l'organizzazione culturale alla quale ho dato questa mia esperienza, mescolandola a quella di altri: l'Équipe d'Action (appunto!) Culturelle. Le ragioni più genuine legate al sociale di cui è portatrice la sinistra, e le ragioni più autentiche dell'identità di cui è portatrice la destra, sono presenti in quel substrato culturale valdostano che si rifà agli scritti di Chanoux e di Gramsci.

Una vasta mobilitazione spontanea che mira alla valorizzazione del territorio si fa protagonista di un movimento culturale, quello dei centres culturels: slogan come "Ven pa ta tera", "Le sou son de papì, la tera l'est d'or" esprimono il bisogno di ripartire dalla dimensione locale per leggere i fenomeni del mondo, evitando che questi la cancellino, evitando di fare lotte che non sono le proprie, ma il frutto di logiche e di giochi di potere ai quali la Valle d'Aosta è estranea. Fu una spinta davvero "rivoluzionaria" e non solo perchè trovò radici in un federalismo libertario e sociale (per non dire socialista), quello di Proudhon. Lo fu perché produsse effetti prima ancora di poter essere individuata come un "movimento": era un spinta dal basso e perché continuò a produrne anche quando apparentemente si era spenta.

Spaccò presto il centro, portando alla morte della D.C. ed alla nascita di una sinistra cattolica, quella dei DP, neoautonomisti. Spaccò la sinistra che fino agli anni 90 ha subito, proprio da allora, una lenta, ma inarrestabile emigrazione dei propri militanti verso le più radicali rivendicazioni nazionalitarie espresse dall'U.V. Spaccò la destra valdostana interna all'U.V. che, finalmente, capì quanto equivoche potessero essere le nozioni di destra e sinistra se prima non si fossero raggiunti obiettivi storici come l'esercizio del diritto all'autodeterminazione. La vecchia Valle d'Aosta dei partiti sclerotizzati, dei poteri in mano ad una borghesia urbana ed aostana, sentì che stava rischiando di esser spazzata via.

Il '68 generazionale, rosso, fortemente ideologizzato, non la spaventava perché sempre si propongo, ciclicamente, momenti di ribellione e di rivolta che poi si sopiscono e si imborghesiscono. Neppure il '68 conservativo di una destra che si rinnovava e si rafforzava proponendosi come l'unico baluardo contro il comunismo, l'aveva spaventata, poiché rappresentava quel prezioso ed insostituibile alleato di un modo errato di concepire l'autonomia che è lo Stato, con i suoi poteri ed il suo stupido centralismo che permettono ai Valdostani di sentirsi diversi e lesi nei loro diritti, senza aver più bisogno di sapere davvero cosa li renda diversi e quali siano questi diritti. La spaventò questo terzo '68, portatore di un modo diverso di essere valdostani; portatore dell'orgoglio e della dignità dell'uomo che si fa comunità condividendo una lingua (ma non per motivi intellettualistici) ed un territorio (ma non per sfruttarne le risorse).

Un movimento così forte e nuovo, quello dei centres culturels, e così diffuso sul territorio (come risultò dal reportage giornalistico che pubblicai sul periodico "Nouvelles Valdôtaines") da costringere l'U.V. e le istituzioni ad occuparsi in modo nuovo - proprio per togliere spazio al movimento - dei problemi sociali e culturali. La risposta istituzionale soffocò lo spontaneismo dei centres, ma - ormai - avevani impresso a tutta la Valle d'Aosta una spinta formidabile. Nel '72 compii 21 anni e diventai maggiorenne: la mia associazione culturale aveva ripreso il proprio discorso - centre culturel nel movimento dei centres culturels - là dove il vento del Movimento studentesco l'aveva interrotto.

Non è vero l'assioma che i padri fecero la Resistenza ed i figli hanno fatto il '68 e così via fino a leggere l'attualità con la stessa ottica, giungendo a dire che i nipoti fanno il movimento no global di oggi. La realtà della Valle d'Aosta, il villaggio locale/villaggio globale (Mc Luhan), è la realtà di un piccolo popolo posto in mezzo alle bufere della storia, travolto e quasi cancellato ogni volta che ha subito gli eventi e non ha saputo difendersi da essi. Negato ogni volta che con le sue intuizioni (il bilinguismo, il federalismo, l'importanza della dimensione locale) hanno costituito un vero pericolo per lo Stato.

Per una storia dell'E.A.C. .: su :.

L'Équipe che nasce ad Aosta a cavallo tra il '67 ed il '68 é un gruppo spontaneo, un organismo variamente composto; la denominazione Équipe d'Action Culturelle verrà ufficialmente adottata solo in epoca successiva (1973), ma è chiaro - fin dai suoi primi passi - che il gruppo è orientato verso una concreta "azione" culturale, concependo - cioè - la cultura come un fatto dinamico e non come un esercizio intellettualistico.

Nell'Équipe operano, nei primi anni di attività, in molti: la sua spinta anarcoide e la sua mancanza di organizzazione non sono improvvisazione, ma strumento di partecipazione ad un gruppo aperto. Del resto personaggi come Enrico Thiébat, di cui vennero promosse mostre ad Aosta e Milano, non avrebbero mai accettato la formalità di una "adesione". In questo senso l'Équipe è un "movimento", negli anni che precedono lo scoppio della contestazione giovanile ("Protestano con 50 quadri perché la società non dialoga" è il titolo del primo articolo che si occupa dell'Équipe); le attività del "movimento" studentesco ne spaccano l'unità, ne interrompono lo spontaneismo e ci vorrà del tempo prima che si ricuciano perfino delle amicizie personali che le diverse scelte di campo di quegli anni misero in crisi.

La riflessione "storica" che precede questo nostro testo ricostruisce le tensioni di quegli anni e le contestualizza nella realtà valdostana, dimostrando l'autenticità di quel '68 valdostano rappresentato dal "movimento" dei centres culturels di cui l'E.A.C. fu parte e di cui è probabilmente una delle rare superstiti. A causa del suo spontaneismo, nella storia dell'E.A.C. c'è il ricordo di tutti e di nessuno, fino a quando nella cantina di Gène Corniolo (che ospitava solitamente feste ed incontri di amici) viene firmato un documento organizzativo: alcuni sono presenti solo per caso (far festa in cantina era una consuetudine che la famiglia Corniolo continua a portare avanti ancora oggi, durante momenti di socializzazione come la veillà di S.Orso) e firmano lo stesso, mentre altri - abitualmente attivi - sono assenti in quel momento "topico" e non figurano, quindi, nella storia scritta dell'associazione.

Praticamente da sempre con noi, ci sono Ezio (era nelle attività teatrali dei primi anni, nella banda rock, lavorò più avanti per il fumetto "Tsan") e Valdo (sue le principali pubblicazioni della collana Ethnos che restano nelle bibliografie fondamentali della VdA); c'è Pier Giorgio, estroso artista e depositario di una memoria orale di tante discussioni ed animati confronti interni; c'è - in un lungo itinerario di collaborazione - il catalano Aureli (con il quale l'E.A.C. fonda il C.I.E.M.E.N. e realizza prestigiose manifestazioni, fra le quali le mostre di Mirò e Subirachs); non c'è invece, nella storia scritta, Enrico (ha dato una mano per i primi concerti e, da allora, accompagna con i suoi articoli l'attività del gruppo); non c'è Pino (messaggero, viaggiatore e cassiere del cineforum); e non c'è Bruno Favre (walser che dell'Équipe propone la denominazione in tich). E ci sono molti altri, da Lucio a Piero, un lungo elenco. Negli anni 80 l'associazione viene ufficialmente riconosciuta dalla Regione e, ottenendo i primi finanziamenti, "deve" darsi una struttura con Presidente (sarà un altro, autorevole, Pino a ricoprire questa carica), Segretario, Direttivo e Assemblea dei Soci Prima di istituzionalizzarsi, però, l'E.A.C. programma quattro anni di attività come un piano di studi universitari, e, "contro" tutti, rilancia la sua idea di Università Valdostana.

L'assoluta libertà ed il pluralismo delle idee non vengono meno all'interno dell'E.A.C. nemmeno quando dalla convergenza con il lavoro di Bruno Salvadori e dall'amicizia con François e Robert, scaturisce una fase di fiancheggiamento dell'Union Valdôtaine - che viene vissuto dall'E.A.C. come se, in realtà, il legame fosse inverso! - e di impegno nel S.A.V.T. di cui, in certo senso, alcuni animatori dell'E.A.C. diventano i referenti per le attività culturali ed internazionali. In questa fase, l'E.A.C. ha le intelligenze per sostenere che di ideali e valori espressi da uomini come Émile Chanoux e Lino Binel, nessuno in Valle è unico depositario e che altri valori e ideali, come ad esempio quelli di Chabod e di Sapegno, non sono estranei alla Valle d'Aosta, come una malintesa "cultura" politica fa intendere. Sostanzialmente, l'E.A.C. si fa portatrice di un progetto legato all'identità ed alla cultura, ma non all'accezione "politica" del significato di questi termini.

Quando, tuttavia, l'E.A.C. si avvede che il riconoscimento istituzionale, i contributi e il coinvolgimento politico cui una associazione culturale è costretta in Valle d'Aosta per sopravvivere, hanno spento la spontaneità del gruppo, trasformandone i membri più attivi in élite culturale, fa una scelta coerente con la sua storia: rinuncia ai finanziamenti garantiti per legge; evidenzia quanto sia grave l'incapacità della Valle d'Aosta di produrre cultura (a fronte di un aumento del consumo passivo e acritico di eventi culturali) e decide di sciogliersi, fissando una data significativa per l'interruzione delle proprie attività, il 26 febbraio 1998, 50. Anniversario dello Statuto di Autonomia, accompagnando tale scelta con alcuni dossier di commento, critica, autocritica, proposta, ecc. sul modo con cui la questione valdostana è stata posta negli ultimi 50 anni e durante i 30 anni di storia dell'E.A.C.. Curiamo apposite pubblicazioni, in parte cartacee (il quaderno "Agorafobia"), in parte presentate in rete, nel sito Internet della A.P.M. (Associazione per i Popoli Minacciati), dove questi materiali sono raggruppati con il titolo "Lingue parlate, lingue scritte".

Difendendo l'identità nazionale della Valle d'Aosta, l'E.A.C. ne ha proposto un'immagine dinamica, ne ha curato la prospettiva, ne ha evidenziato gli elementi di apertura al posto di quelli di ripiegamento; considerandone il francoprovenzale la vera lingua della Valle d'Aosta, l'E.A.C. non ha, tuttavia, partecipato alla radicalizzazione del confronto tra lingua francese e lingua italiana ed ha affermato le ragioni di un "indipendentismo sostenibile", secondo il quale non va propugnata tanto la nascita di uno Stato valdostano o la conquista di nuove istituzioni (Stati ed istituzioni nella storia sono transitori), quanto l'affermazione di un'identità che sia indipendente in se stessa (poiché, comunque, non può esserlo nelle logiche politiche, elettorali, sociali, culturali e linguistiche di oggi, logiche - tutte - della dipendenza; si può essere indipendenti sotto la peggior dittatura e totalmente dipendenti nella più aurea delle autonomie, nella più totale delle sovranità statuali, nella più utopistica delle prospettive federaliste).

Per la verità, la decisione dell'E.A.C. di interrompere le proprie attività non scuote la Valle d'Aosta. E c'è una ragione: quando chiude una fabbrica si determina un problema occupazionale che preoccupa tutti; quando viene meno l'erogazione di un servizio l'intera comunità lamenta il disservizio; quando chiude un'associazione culturale apparentemente il problema riguarda pochi intellettuali. E' difficile far capire che, senza cultura o in presenza di una crisi culturale come quella questa che la Valle d'Aosta attraversa oggi, la società si trova priva dei mezzi necessari a dar risposte adeguate ai problemi sociali, economici che si determinano e preoccupano tutti; e, peggio, questa stessa società si trova in balia della politica, la cui "cultura" (cultura politica) affronta i problemi con l'ottica distorta dell'interesse di parte.

L'Équipe che chiude le proprie attività a cavallo tra il '97 ed il '98 è - di nuovo - un gruppo spontaneo, accomunato da una valutazione della storia valdostana degli ultimi 50 anni: i mutamenti che si sono prodotti nel mondo, in Europa, in Italia ed in Valle d'Aosta hanno esaurito la carica propulsiva, l'attualità del pensiero, lo stesso valore universale di un Émile Chanoux e di tutto ciò che nel sociale, nel culturale e nel politico si è formato alla sua scuola. Per 30 anni, anche l'E.A.C. ha svolto un'azione culturale misurandosi con il metro della coerenza rispetto a quell'uomo. Oggi ci sarebbe bisogno di un altro Chanoux (ma non c'è) per poter progettare il futuro della Valle d'Aosta. Da oggi, prima dell'azione bisogna riattivare il pensiero.

Le attività dell'E.A.C. .: su :.

ANNI 60 - Alla mostra di Tonino Yaku fanno seguito quelle di Deval, Cossu e Thiébat (e il sogno di una biennale). La raccolta di poesie in italiano, francese, francoprovenzale e tich (l'invenzione di un premio e la voglia di diventare editori); una rappresentazione teatrale (e l'idea di una Stabile della VdA); il cineforum (e l'ambizione di realizzare una grande rassegna) sono le prime attività.

ANNI 70 - Il gruppo si crea uno spazio musicale (la band esegue brani propri), propone l'istituzione di un'università valdostana, l'obiezione di diritto (un'obiezione di coscienza arricchita dalla rilettura della storia valdostana), il cineforum, la musica etnica, i sondaggi d'opinione, l'istituzione di una comunità montana per i walser, una legge elettorale regionale basata sulle comunità montane. Affianca i centres culturels e le popolazioni del Parco del Gran Paradiso nelle loro rivendicazioni; chiede che la Valle d'Aosta abbia un proprio rappresentante nel Parlamento Europeo; partecipa alla fondazione del C.I.E.M.E.N. e realizza tre sogni: una rassegna internazionale di cinema, le mostre di Mirò ed alcune pubblicazioni (la rivista "Minoranze" e la collana "Ethnos").

ANNI 80 - Dopo aver edito il fumetto "Tsan" ed altre pubblicazioni, il gruppo realizza i suoi corsi popolari di comunicazione e giornalismo ("giornalistinsieme"); Branduardi, Stivell, Malicorne, Chieftains e Poletti sono i grandi nomi del Festenal; il "Pasolini friulano" corona una stagione di grandi mostre. Duemila giovani giungono ad Aosta da tutta Europa per firmare il "Document Émile Chanoux2 sui diritti dei Popoli, documento che viene consegnato all'ONU; nell'85 si tengono a Barcelona i lavori della Conseu, Conferenza delle Nazioni senza Stato: è Claudio, portavoce dell'E.A.C., a tenere il discorso di chiusura.

ANNI 90 - Il Festenal compie 20 anni; l'E.A.C. collabora all'attuazione di un Congresso europeo sulla Comunicazione; le pubblicazioni e gli interventi giornalistici ed editoriali non si contano più; il gruppo partecipa all'approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli e della Dichiarazione Universale dei Diritti linguistici; nella sua dimensione internazionale (quella del C.I.E.M.E.N.), cura la mostra di Subirachs; partecipa alla CONSEU (Conferenza delle Nazioni senza Stato) e chiude 30 anni di attività con un obiettivo: pensare e progettare il futuro della Valle d'Aosta.

L'associazione riprende ad operare nel 1999. Tra il '67, quando nacque, ed il '98, quando annunciò il proprio scioglimento motivandolo con la necessità di uscire dalle logiche culturali del "regime", l'E.A.C. è stata al tempo stesso associazione culturale e movimento di opinione Proprio come associazione culturale e movimento di opinione, il 26 aprile 1999, alcuni neo-fondatori hanno deciso di ricostituirla, aggiungendo la definizione "noua" ("nuova", in francoprovenzale) alla propria denominazione "storica".

Momenti di aggregazione per i Sardi, per i friulani e per le organizzazioni delle comunità immigrate, per gli ambienti politici e culturali interessati alle problematiche del diritto all'autodeterminazione, per quanti sono impegnati a favorire il riconoscimento del francoprovenzale come lingua, costituiscono il primo nucleo di attività della nuova E.A.C..

Non ottiene visibilità, ma assume una importanza storica "a futura memoria", la redazione di una bozza della Nuova Dichiarazione di Chivasso che l'E.A.C. predispone e pubblica in rete nel sito A.P.M., per approvarla il 19 dicembre 2003, 60. anniversario della Dichiarazione originale. Si intensifica in questi anni l'attività di pubblicazione in rete dei materiali e dell'E.A.C.: sui siti del C.I.E.M.E.N. e, in particolare, dell'Associazione per i Popoli Minacciati, queste pubblicazioni raggiungono una utenza di oltre 70 mila lettori al mese. Particolare impegno richiede l'elaborazione di un progetto di nuovo Statuto di Autonomia della Valle d'Aosta e di proposte di Modifica della Costituzione Europea, per renderla rispondente al diritto dei Popoli alla autodeterminazione, ai quale la nuova E.A.C. si applica in un 2003 che è - insieme - il 30. anniversario della propria costituzione ed il 35. anniversario delle proprie attività.

Claudio Magnabosco, Via Parigi 80, 11100 Aosta, e-mail: claudio.magnabosco@tiscali.it, cell. 340.7718024


Il libro 'AKARA-OGUN E LA RAGAZZA DI BENIN CITY', 2002Vedi anche di Claudio Magnabosco:
"Sono nessuno o sono una nazione", su evolutionbook.com, versione .rtf zip 55KB
Akara-Ogun e la ragazza di Benin City
La ragazza di Benin City
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Per una storia della Valle d'Aosta dal 1945 al 2000
Le chemin du S.A.V.T. 1952-2002

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