Logo Associazione per i popoi minacciati HOME | INFO | NEWS | DOSSIER | BACHECA / TERMINE | EDICOLA / KIOSK | LADIN
>>> INDEX | PARTE 1 | PARTE 2 | PARTE 3

Tame Iti, attivista Maori

Popoli indigeni, popoli minacciati

in occasione del DECENNIO INTERNAZIONALE DEI POPOLI INDIGENI promosso dall'ONU (1995-2004)

Questo libro è dedicato alla memoria di Helge Kleivan (1924-1983), fondatore dell'IWGIA, difensore serio ed appassionato di tutti i popoli indigeni


Parte seconda

ASIA: Adivasi: l'altra faccia dell'India | Ainu: un popolo che vuole rinascere | Igorot: I popoli della Cordigliera | Penan: "Voi avete il mondo, lasciateci i boschi" | Siberia: i piccoli popoli del nord | Tibetani: un grido dal tetto del mondo | Timoresi: il genocidio dimenticato

EUROPA: Sami/Lapponi: gli Indiani d'Europa

ASIA

su

ADIVASI - L'altra faccia dell'India

Adivasi è il termine hindi che indica collettivamente i popoli aborigeni dell'India. Già nei testi sacri per eccellenza, i Veda, si parla di popoli indigeni esistenti nel sub-continente indiano prima dell'arrivo degli Arya (i progenitori degli attuali Indiani).
Nel corso dei secoli gli Arya vennero a contatto e presumibilmente si scontrarono con queste etnie non-arie, i cui discendenti sono gli attuali Adivasi. Secondo un criterio linguistico questo eterogeneo insieme di popoli viene diviso in 4 gruppi: dravidico, munda, mon-khmer e tibeto-birmano.
I popoli indigeni dell'India sono circa 250 (ma la Costituzione ne riconosce solo 212, che vengono ufficialmente definiti "tribù catalogate") ed abitano in prevalenza negli stati centrali ed orientali della federazione. Raggiungono complessivamente i 60.000.000: alcuni popoli contano poche migliaia di persone, mentre altri arrivano a qualche milione. Discriminati dalla maggioranza hindu, che ha usurpato le loro terre, vivono da sempre ai margini della società.
Negli anni subito dopo l'indipendenza (15 agosto 1947) si possono contare ben 140 popoli indigeni, distribuiti su tutto il territorio, dall'Himalaya all'estremo sud. Le buone intenzioni del governo sono testimoniate dal fatto che Nehru, Primo Ministro, presenta un programma che riguarda lo "sviluppo dei popoli tribali" . Questo programma, che si basa sulle teorie dell'antropologo inglese Verrier Elwin, prevede il minor intervento esterno possibile. Gli Adivasi devono esser lasciati liberi di evolversi secondo la loro natura; gli operatori sociali e gli attivisti impiegati nei programmi devono appartenere al popolo in cui operavano; è previsto uno scrupoloso rispetto dei loro diritti territoriali.
Nonostante queste buone intenzioni e gli stanziamenti fatti, gli interventi di vario tipo si rivelano fallimentari.
Come conseguenza si rafforza una coscienza politica che si concretizza nella fondazione dello Jharkhand, il movimento politico "per la costituzione dello stato delle foreste". Inizia così la lotta che prevede appunto la costituzione di uno stato tribale all'interno della federazione indiana. La nuova entità territoriale nel nord-est del paese e dovrebbe comprendere parti di 4 stati (Bengala, Orissa, Madhya Pradesh e Uttar Pradesh).
Molto attivo negli anni Quaranta e Cinquanta, lo Jharkhand inizia un lento declino nel 1963, quando si allea col Partito del Congresso. Il declino prosegue nei decenni successivi: il seguito viene meno, perchè molte aspettative degli indigeni sono state disattese. Tuttavia lo Jharkhand è l'unico movimento che esprime leaders indigeni rappresentativi e promuove una forte solidarietà inter-tribale.
A questo fanno seguito altri movimenti, in genere meno strutturati, per la difesa della cultura e dell'ambiente. Spiccano in particolare quelli che si oppongono alla costruzione di una diga sul fiume Narmada, un progetto faraonico dall'impatto ambientale devastante, o quelli che difendono i boschi del fiume Godavari. Nel sud è molto attivo il movimento Appiko, che si batte per la difesa delle foreste e per il loro uso razionale.
Negli ultimi anni si assiste ad una riorganizzazione radicale dei movimenti più specificamente politici. Nel 1993, al terzo congresso dell'Indian Council of Indigenous and Tribal Peoples, viene riaffermato l'obiettivo di uno stato autonomo. Negli ultimi tre anni l'attenzione viene concentrata sulla lotta per il riconoscimento delle lingue tribali e sulle opportunità offerte dal Decennio Internazionale dei Popoli Indigeni.
La commissione governativa presieduta da Dileepsingh Bhuriya, alla quale partecipano anche i parlamentari tribali, presenta nel gennaio 1995 un rapporto che propone importanti novità per gli Adivasi, fra cui l'autonomia amministrativa dei villaggi e l'accesso degli indigeni alle risorse naturali. Ma i vari stati della federazione rifiutano le raccomandazioni del Rapporto Bhuriya, e l'imponente protesta organizzata dagli aborigeni nel febbraio 1996, accompagnata da una lettera al Primo Ministro Rao, segna l'inizio di una nuova stagione di lotte.

Giovanna Fuggetta

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
C. Delacampagne - G. Busquet, Les Aborigénes de l'Inde, Arthaud, Paris 1981.
S. Fuchs, The Aboriginal Tribes of India, St Martin's Press, New York 1977.
N. Hasnain, Tribal India Today, Harnam Publications, New Delhi 1983.
R. Hörig, Selbst die Götter haben sie uns geraubt: Indiens Adivasi kämpfen ums Überleben, Gesellschaft für bedrohte Völker, Göttingen 1990.
India: Cultures in Crisis, numero monografico di "Cultural Survival Quarterly", XIII, n. 2, 1989.
M. Offredi, L'acculturazione dei tribali del Bastar, CESVIET, Milano 1983.
L. Pussetto, I Santal del Bangladesh. Tradizioni e feste, EMI, Bologna 1983.
S. K. Saha, "Historical Premises of India's Tribal Problem", Journal of Contemporary Asia, XVI, n. 3, 1986, pp. 274-319.
G. Sen (a cura di), Indigenous Vision: Peoples of India's Attitude to the Environment, India International Centre, Delhi 1992.
A. K. Singh - M. K. Jabbi (a cura di), Tribals in India, The Other India Press, Goa 1997.

INDIRIZZI UTILI
INDIAN COUNCIL OF INDIGENOUS AND TRIBAL PEOPLES
14 Jangpura-B, Mathura Road
New Delhi 110014, India
tel. +91-11-4619821, fax +91-11-4623681

INDIENHILFE
Luitpoldstraße 20
D-8036 Herrsching, Deutschland
tel. +49-8132-1231

VANYAJATI [rivista]
Bharatiya Adimjati Sevak Sangh
New Line Road, Jhandewalan, New Delhi 55, India
tel. +91-7525492

su

AINU - Un popolo che vuole rinascere

I Giapponesi si considerano abitanti di uno dei paesi più omogenei del mondo e forse, in linea di massima, questa convinzione è corretta. In Giappone esistono però importanti minoranze etniche di cui si parla raramente e che sono state sempre più o meno discriminate. Fra queste la più singolare è quella degli Ainu (uomini), che oggi vivono nell'Hokkaido, l'isola più settentrionale dell'arcipelago nipponico. Questo popolo viene generalmente considerato di ceppo europoide, anche se mostra delle affinità con certi popoli della Siberia. Attualmente gli Ainu propriamente detti sono circa 15.000, ma le stime variano fino a 50.000 se si tiene conto dei sanguemisto. Un tempo erano molto più numerosi e popolavano anche quei vasti territori ad est e a nord dell'arcipelago: la parte settentrionale dell'isola di Sakhalin ed alcune delle isole Curili. Al tempo stesso vivevano nelle regioni nordorientali dello Honshu (la grande isola centrale dell'arcipelago), da dove i Giapponesi li cacciarono costringendoli a raccogliersi nei luoghi più remoti del nord, dove oggi vivono gli ultimi discendenti.
Nel secolo undicesimo gli ultimi gruppi spariti attraversarono lo stretto di Tsugaru e si stabilirono definitivamente nell'Hokkaido. Dalla metà del 1400 in poi i contatti fra Ainu e Giapponesi furono abbastanza frequenti, ma degenerarono in fretta: il secolo sedicesimo e diciassettesimo furono caratterizzati da rivolte e scontri intervallati da lunghi periodi di pace incerta.
Nel 1868, con la Restaurazione Meiji, l'Hokkaido divenne parte integrante del Giappone. Iniziò così un processo di colonizzazione che trasformò notevolmente la cultura ainu. I Giapponesi, in continuo aumento demografico (erano già oltre 40.000.000), furono attratti da quelle terre incontaminate, ricche di foreste, pascoli e fiumi. Al tempo stesso il Giappone doveva fronteggiare il pericolo rappresentato dall'imperialismo russo. Il governo istituì quindi un Ente per lo sviluppo dell'Hokkaido, che affrontò il problema della minoranza ainu nella maniera peggiore. Urgeva nipponizzare velocemente la grande isola del nord. Fu istituito un capoluogo amministrativo, Sapporo; si costruirono ponti e ferrovie, si disboscarono le pianure, fu dato il via allo sfruttamento delle risorse naturali. Gli indigeni si videro così privati della terra, dei fiumi, dei boschi. Nel 1872 il governo emanò nuove misure per la trasformazione dell'isola: gli Ainu vennero censiti fra i Giapponesi, e nei documenti erano registrati come Kyodojin (aborigeni).
Verso la fine del secolo iniziò il trasferimento coatto degli Ainu delle Curili nella sperduta isola di Sakhalin.
Sebbene il governo avesse dichiarato di voler proteggere gli Ainu e la loro cultura ponendoli sotto la protezione imperiale, in realtà li incoraggiò in ogni modo a rinnegare la propria identità culturale. Nel 1899 un'apposita legge regolò definitivamente i rapporti fra Ainu e Giapponesi: a ciascuna famiglia vennero assegnati
un pezzo di terra (5 ettari), sementi ed attrezzi per l'agricoltura, e gli indigeni furono così costretti a diventare contadini. Il vecchio sistema di vita basato su caccia, pesca e raccolta, che aveva una stretto rapporto con la religione, iniziò rapidamente a declinare.
Agli inizi del Novecento gli Ainu vivevano in condizioni spaventose: i fieri indigeni dell'Hokkaido conducevano una vita seminomade, moltissimi erano affetti da tubercolosi, sifilide, tracoma, ed altrettanti erano alcoolizzati. Anche la lingua ainu era ovviamente contrastata: i bambini venivano educati in giapponese in un sistema di scuole separate che era stato creato nel 1901. Questo particolare sistema scolastico era regolamentato in modo rigido e chiaramente discriminatorio: i bambini ainu ed i bambini giapponesi studiavano separatamente; lo studio della letteratura nipponica era considerato prioritario; i bambini ainu venivano incoraggiati ad abbandonare le proprie tradizioni, che erano derise e considerate inferiori, per abbracciare quelle "superiori" dei Giapponesi; venivano inculcati i concetti di "obbedienza assoluta all'Imperatore e amore per la nazione". L'educazione scolastica doveva favorire così un graduale processo di assimilazione.
Il sistema delle scuole separate restò in vigore fino al 1937. In quegli anni la maggior parte degli Ainu viveva in villaggi-ghetto della valle di Saru ed in altri sparsi nell'isola.
Molti erano divenuti agricoltori, altri mandriani o boscaioli. Qualcuno, più fortunato, era riuscito a trovare lavoro in fabbrica come operaio. Nei villaggi dove vivevano anche dei Giapponesi, questi avevano il controllo di ogni attività, e gli ainu rimanevano cittadini di seconda classe. Nel 1930, per proseguire la sua politica assimilazionista, il governo decise di fondare a Sapporo un'associazione che avrebbe studiato i problemi degli Ainu. I responsabili del nuovo organismo si segnalarono comunque per il servizio sociale e l'assistenza dei bisognosi. Sedici anni dopo (1946), il governo prefetturale riorganizzò l'istituzione e la chiamò Hokkaido Ainu Kyokai (in inglese Ainu Association of Hokkaido, di seguito indicata con la sigla AAH).
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale iniziò lo sfruttamento degli Ainu per fini turistici: furono perciò costruiti dei villaggi, organizzati secondo l'antico sistema del kotan (una decina di famiglie riunite), per poter mostrare ai turisti americani e giapponesi come viveva "un popolo incontaminato rimasto fermo all'alba della storia". Gli Ainu divennero così personaggi da etnoshow, clowns del passato che dovevano dare un tocco "etnico" alle foto da mostrare agli amici ed ai colleghi di lavoro. A lungo andare, però, anche il turismo contribuì a far crescere l'interesse per gli aborigeni sia in Giappone che all'estero.
Agli inizi degli anni Settanta molti antropologi ed etnologi giapponesi cominciarono a studiare con passione i costumi, la cultura e la lingua degli antichi abitanti dell'Hokkaido. Gli Ainu passarono così da una sorta di vergogna per le proprie tradizioni ad una riscoperta orgogliosa e polemica. Nel 1969 fu celebrata la prima cerimonia commemorativa in onore di Shakushain, il mitico eroe della resistenza antinipponica vissuto nel diciassettesimo secolo.
Tre anni dopo fu fondato il villaggio-museo di Nibutani, gestito da Kayano Shigeru, che era anche uno dei responsabili dell'AAH. Il 1973 vide la nascita del primo giornale ainu, il foglio d'opinione Anutari Ainu (Siamo esseri umani), che mirava ad attirare l'attenzione dell'opinione pubblica sui problemi della minoranza. Il mensile, che tre anni dopo fu costretto a cessare le pubblicazioni, aveva cercato anche di aprire un dibattito fra i giovani ainu sulla riscoperta dell'identità etnica.
In quegli anni nacque anche la Yay Yukar Ainu Minzoku Gakkai, la prima Società Etnologica Ainu, alla quale aderirono molti studiosi giapponesi, e nel 1973 fu organizzato un grande meeting nazionale ainu al quale parteciparono oltre 400 persone che discussero a lungo i problemi della minoranza indigena.
Al tempo stesso cominciarono a diffondersi in varie parti dell'isola dei centri di autocoscienza etnica. Si cercò anche di inserire la lingua ainu in un sistema educativo pubblico: a Nibutani il professor Shigeru fondò infatti un centro per l'insegnamento dell'antica lingua isolana. L'inizio incontrò però l'opposizione del Ministero dell'Educazione, che si rifiutò di sostenerla.
La prima metà degli anni Settanta fu caratterizzata anche dalla nascita di alcuni movimenti radicali che volevano colpire i simboli del colonialismo nipponico. Nell'agosto del 1972 alcuni giovani attivisti ainu inscenarono una violenta manifestazione davanti all'Università di Sapporo per protestare contro la Società Antropologica Giapponese: non volevano più essere oggetto di dotte misurazioni antropometriche. Fu anche lanciata una bomba artigianale che danneggiò seriamente il dipartimento universitario. Negli stessi anni ebbero luogo alcuni attentati - bombe contro uffici e monumenti, l'aggressione del sindaco di Shiraoi - ad opera di giovani intellettuali giapponesi che militavano nell'estrema sinistra e simpatizzavano per la causa ainu. L'opinione pubblica ne fu profondamente scossa: nella paura che stesse per nascere un vero e proprio movimento autonomista, i circoli di autocoscienza etnica cominciarono ad essere guardati con sospetto e sorvegliati dalla polizia.
Proprio perché le legittime ma democratiche rivendicazioni indigene non fossero confuse col terrorismo, nella città di Asahigawa nacque un'altra associazione, la Ainu Kyokai, con lo scopo di riorganizzare la resistenza. Il nuovo organismo, gestito direttamente da ainu, nacque anche in contrapposizione all'Utari Kyokai (AAH) di Sapporo, che veniva accusata di essere manovrata dal governo.
Bisogna comunque riconoscere che nell'ultimo decennio l'AAH ha svolto un'intensa attività internazionale. Nel 1988 ha presentato una proposta di legge chiamata Nuova legge per gli Ainu, che ha trovato il sostegno dell'altra associazione ainu con sede ad Asahigawa. La Terza Conferenza dei Paesi del Nord tenutasi nel settembre 1990 ad Anchorage (Alaska) ha visto la presenza di una delegazione proveniente dall'Hokkaido. In quell'occasione sono stati conclusi importanti accordi con Valentin Fyodorov, governatore delle isole Sakhalin, affinchè le famiglie che vi avevano vissuto per generazioni potessero tornarci.
Nel 1992 Giichi Nomura, presidente dell'AAH, è stato invitato a tenere un discorso inaugurale all'Assemblea delle Nazioni Unite. A Ginevra, dove si tiene il convegno annuale dell'ONU sui popoli indigeni, gli indigeni dell'Hokkaido sono ormai presenti con regolarità. Nonostante l'accresciuto rilievo internazionale degli Ainu, il Giappone rifiuta ancora di riconoscerli come popolo indigeno. Così continuano la battaglia diplomatica per ottenere questo riconoscimento e per far approvare la proposta di legge presentata nel 1988. A questo scopo prosegue un'intensa attività politica, che fra l'altro cerca di sfruttare al massimo le opportunità offerte dal Decennio Internazionale dei Popoli Indigeni (1995-2004).
L'8 maggio 1997 la Dieta ha approvato a larghissima maggioranza una nuova legge relativa ai diritti degli Ainu. A ben vedere, però, la legge presenta diversi difetti sostanziali. Quello più manifesto è che non parla di diritti ma si concentra sui temi della tradizione e della cultura ainu. Presso i diretti interessati le reazioni sono state svariate. Jiro Sasamura, presidente dell'Ainu Association of Hokkaido, si è detto soddisfatto della legge, che secondo lui rappresenta comunque un progresso importante. Al tempo stesso, però, ha lamentato la mancata istituzione di un fondo che garantisca l'autosufficienza del popolo indigeno.
Ma il punto centrale - il riconoscimento degli Ainu come popolo indigeno - continua ad essere eluso.

Silvio Calzolari

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA S. Kodama, Ainu. Historical and Anthropological Studies, Hokkaido University Press, Sapporo 1970.
"No longer forgotten: The Ainu", AMPO - Japan-Asia Qarterly Review, XXIV, n. 3, 1993, pp. 2-34.
D. Sanders, "The Ainu as an Indigenous People", IWGIA Newsletter, n. 45, April 1986, pp. 119-149.
K. Shigeru, Our Land was a Forest. An Ainu Memoir, Westview Press, Boulder (Colorado) 1994.
K. Sjoberg, The Return of the Ainu. Cultural Mobilization and the Practice of Ethnicity, Harwood Academic Press, Chur 1993.

INDIRIZZI UTILI
AINU ASSOCIATION OF HOKKAIDO
Kita 2 Nishi 7 Chuo-ku
Sapporo, Hokkaido, Japan
tel. +81-11-2110462, fax +81-11-2210672

AINU NATIONAL CONGRESS
c/o Aki Sawai, Tokiwa 4-2, Minami-ku
Sapporo, Hokkaido, Japan
tel. +81-11-5924756, fax +81-11-5922188

PACIFIC ASIA RESOURCE CENTER
Rm. 103, Seiko Bldg., 1-30 Kanda-Jimbocho, Chiyoda-ku
Tokyo 101, Japan
tel. +81-3-32915901, fax +81-3-32922437
E-mail: PARC@jca.ax.apc.org
Web: www.jca.ax.apc.org/PARC
Pubblicazioni: AMPO - Japan-Asia Quarterly

su

IGOROT - I popoli della Cordigliera

Spesso il termine cordigliera è associato alle Ande, ma parlando di indigeni i popoli della Cordigliera sono in realtà gli aborigeni delle Filippine, che vivono nel nord dell'arcipelago. Si autodefiniscono Kaigorotan, ma gli altri li chiamano Igorot, "popoli delle montagne". Si tratta di dieci gruppi etnolinguistici che raggiungono il milione di persone: i più numerosi sono gli Ifugao, che vivono nella provincia omonima. I popoli della Cordigliera non sono comunque gli unici indigeni dell'arcipelago: ci sono anche i Lumad e i Moro, che vivono sull'isola di Mindanao, i Magayan di Mindoro, i Negritos, i Dumagat ed i Caraballo. Si tratta in tutto di 4.500.000 di persone divise in una quarantina di gruppi etnoliguistici, molti dei quali non hanno contatti fra loro.
Ma torniamo alla Cordigliera. Per molti secoli, i popoli della regione vivono in villaggi indipendenti, impegnati in prevalenza nella coltivazione del riso. Le varie comunità, i barangay, variano dalle 100 alle 500 persone e mantengono comunque strette relazioni. All'inizio del 1500, attratti dalle miniere d'oro, gli Spagnoli iniziano la colonizzazione delle Filippine, che si protrarrà per quasi quattro secoli. Ancora una volta sono sostenuti in modo decisivo dall'azione devastante dei missionari. Comunque gli indigeni resistono strenuamente per almeno un paio di secoli. Non solo quelli della Cordigliera, ma anche i Moro; questi ultimi sono musulmani a causa dei contatti con i commercianti arabi che risalgono al quattordicesimo secolo (gli Spagnoli chiamano appunto moros tutti i musulmani). Attorno alla metà del 1800 gli Spagnoli prendono definitivamente possesso di numerose regioni, ma il loro declino è ormai prossimo. Lasciano l'arcipelago nel 1896, ma le risorse naturali (oro, manganese, zinco, argento e rame) attraggono subito gli Stati Uniti: tre anni dopo le Filippine diventano colonia americana.
Sono gli anni della grande espansione americana nel Pacifico: Washington ha già un folto gruppo di colonie, che oltre alle Filippine comprende Guam, le isole Midway, Samoa e l'arcipelago hawaiiano. Quando arrivano gli americani esistono già due gruppi ben distinti: da una parte, una maggioranza assimilata e prevalentemente ispanofona, dall'altra una varietà di minoranze indigene che hanno conservato l'identità culturale e l'indipendenza economica.
Nel 1902 viene approvata una legge che introduce il concetto di proprietà fondiaria individuale. Una novità incomprensibile per gli indigeni, molti dei quali rifiutano di adeguarsi all'idea di una terra da possedere. Nel 1905, una nuova legge dispone che tutta la terra non legalmente rivendicata venga dichiarata "terra pubblica" e come tale in vendita. La Cordigliera viene così aperta ad un'invasione che può farsi scudo della legge. Nei decenni successivi lo sviluppo della Cordigliera prosegue quindi di pari passo con i progetti faraonici che danneggiano gravemente il suo ecosistema.
Dal 1956 al 1982, finanziate dalla Banca Mondiale, vengono costruite tre dighe per potenziare l'industrializzazione della regione: per fare spazio a questi progetti quasi 2000 indigeni vengono rimossi forzatamente. Nel 1975, con un decreto presidenziale di Ferdinando Marcos, tutte le terre con una pendenza oltre il 18% vengono dichiarate inagibili per fini agricoli e poste sotto il diretto controllo del governo: molti indigeni, non potendo più coltivare, sono costretti alla povertà o ad un inurbamento dalle prospettive incerte. Inizia il disboscamento selvaggio della Cordigliera: nel 1984 un quarto della regione è già divisa fra venti compagnie per il taglio ed il trasporto del legname.
La protesta indigena si organizza in vari comitati locali, poi riuniti in modo più efficace nella Cordillera Peoples Alliance, nata nel 1984 ed animata da Victoria Tauli-Corpuz.
Il documento che segna la nascita del nuovo organismo indigeno contiene un'articolata serie di proposte, fra cui la creazione di una Regione Autonoma della Cordigliera. Alla crescita del movimento indigeno il governo risponde con la repressione militare. In varie occasioni la resistenza indigena si intreccia con la New Peoples Army, un movimento armato di osservanza comunista. Le aspirazioni sono ovviamente assai diverse ma il nemico è lo stesso: il governo centrale. Dopo Marcos il potere passa nelle mani di Corazon Aquino, che si propone come alternativa democratica ai metodi dittatoriali del suo predecessore. Ma per gli indigeni la situazione si rivela addirittura peggiore, perché l'esercito intensifica la repressione militare.
Neanche con Fidel Ramos, eletto presidente nel 1992, si aprono prospettive migliori.
Lo sfruttamento selvaggio della Cordigliera continua inarrestabile, mentre gli Igorot intensificano la loro attività diplomatica a livello internazionale. La situazione appare disperata, ma la resistenza indigena continua contro ogni evidenza.

Alessandro Michelucci

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
W. Bello - D. Kinley - E. Elinson, Development Debacle: The World Bank in the Philippines, Institute for Food and Development Policy, San Francisco 1982.
H. Fry, A History of the Mountain Province, New Day Publishers, Quezon City 1983.
W. H. Scott, Of Igorots and Independence, Baguio City, ERA 1993.
The Philippines: Authoritarian Government, Multinationals and Ancestral Lands, Anti-Slavery Society, London 1983.
R. Singh, "The Indigenous Peoples of the Philippines", in C. Nicholas - R. Singh (a cura di), Indigenous Peoples of Asia, Asia Indigenous Peoples Pact, Bangkok 1996, pp. 231-258.

INDIRIZZI UTILI
CORDILLERA PEOPLES' ALLIANCE
Box 975
2600 Baguio City, Philippines
tel. +63-74-4427008, fax +63-74-4437159
E-mail: wwp@is.phil.gn.apc.org
Pubblicazioni: Hapit

CORDILLERA RESOURCE CENTER FOR INDIGENOUS PEOPLES' RIGHTS
Box 7691, Airmail Distribution Center
NAIA 1300, Pasay City, Philippines
tel. +63-74-4424175

JOURNAL OF NORTHERN LUZON
St Mary's College of Bayombong
Nueva Vizcaya 3700, Philippines

su

PENAN - "Voi avete il mondo, lasciateci i boschi"

I Penan vivono nella foresta tropicale più antica del mondo (150.000.000 di anni), che sorge nel Borneo, nei pressi del mar Cinese meridionale. Questa regione appartiene allo stato di Sarawak, che dal 1963 -anno che segnò la fine della sovranità britannica- fa parte della federazione malese. I dati ufficiali parlano di circa 10.000 Penan, oggi semisedentari, mentre solopoche centinaia sono rimasti nomadi. In Sarawak vivono altri venti popoli indigeni, collettivamente chiamati Dayak, tutti più o meno dipendenti dalle foreste.
I Penan vivono in piccole palafitte costruite in mezzo alla foresta. Sono poco avvezzi ai conflitti e non conoscono divisioni gerarchiche. I bambini sono considerati membri della società a pieno titolo, ma difficilmente vengono puniti od obbligati a fare qualcosa. I Penan e la maggior parte dei popoli dayak non hanno pregiudizi nei confronti degli stranieri. La loro venerazione per gli anziani è tale che si rivolge anche ai funzionari governativi. "La nostra buona fede è davvero eccessiva: crediamo che gli altri siano leali come noi" dice Mutang Urud, membro del popolo Kelabit e fondatore dell'Alleanza dei popoli indigeni di Sarawak, che negli anni Ottanta ha iniziato ad organizzare la difesa dell'ambiente contro il saccheggio ambientale portato avanti dalle industrie del legno. Una difesa nonviolenta che ha ottenuto il sostegno di associazioni ecologiste e per i diritti umani. Pioniere di questo movimento è stato lo svizzero Bruno Manser, che per sei anni ha condiviso la vita dei Penan dando eco mondiale alla loro situazione tragica. Nel 1990, perseguitato dalle autorità malesi, è stato costretto a lasciare il paese.
"La foresta ci dà protezione, il cibo e le sostanze per la nostra medicina. La storia del mio popolo si sviluppa nella foresta" dice Mutang Urud, che oggi vive esule in Canada e da lì continua la sua lotta. Radidah Aziz, Ministro del Commercio Estero e dell'Industria, inquadra il problema in un'ottica ben diversa: "Parliamo del ventunesimo secolo. Non possiamo permetterci che alcuni nostri concittadini caccino scimmie nella foresta". Ma i Penan, sotto il tetto fitto della foresta, continuano a coltivare il riso e commerciano con i Dayak, scambiando i prodotti della foresta con sale, attrezzi di ferro, tegami ed altri oggetti. Fra i popoli indigeni del Borneo esistono infatti legami economici assai vari ed estremamente funzionali.
La tragedia di questi popoli richiama quella degli indios amazzonici. La foresta costituisce infatti una formidabile fonte di affari, che schiaccia senza pietà la varietà ambientale e i diritti dei popoli indigeni. Il disboscamento diviene quindi il nemico dei Penan e dei Dayak: nel corso degli anni Ottanta, oltre la metà del legno tropicale esportato nel mondo proviene da queste foreste. Perfino l'Organizzazione internazionale del commercio di legno tropicale critica le quote malesi. Le autorità governative sostengono di sfruttare il patrimonio forestale in modo selettivo, ma in realtà si tratta di uno scempio che arriva a diradare i due terzi della sconfinata foresta tropicale. La caduta degli alberi giganteschi ed i bulldozer devastano la foresta.
Il disboscamento procede a pieno ritmo, giorno e notte.
A causa dell'erosione i fiumi si trasformano velocemente in torrenti di fango: la conseguenza è l'inquinamento dell'acqua potabile. Il disboscamento determina la scomparsa di pesci, uccelli, piccoli mammiferi, alberi da frutto: in altre parole, delle principali fonti d'alimentazione per gli indigeni.
I Penan stessi vengono deportati in campi dove muoiono di infezioni, di malattia, di fame. Alcuni organizzano manifestazioni nonviolente, generalmente bloccando l'accesso delle strade ai bulldozer. Il prezzo che pagano è alto: alcuni vengono feriti o uccisi, altri vengono imprigionati e torturati.
Mutang Urud, intanto, spera nella solidarietà internazionale. Molte imprese del legno gli hanno offerto grosse somme affinchè rinunciasse alla sua lotta, che invece continua con rinnovato slancio.

GfbV-Österreich

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
R. Algenii, Religione e vita di una tribù daya del Borneo occidentale, EMI, Bologna 1980.
H. Hong, Natives of Sarawak: Survival in Borneo's Vanishing Forests, Institut Masyarakat, Penang (Malaysia) 1987.
A. Linklater, Selvaggi con il walkman. Tra i cacciatori di teste nella giungla del Borneo, Garzanti, Milano 1992.
B. Manser, Voices from the Rainforest, Institute for Social Analysis, Petaling Jaya (Malaysia) 1996.
R. Milanesio, Borneo. Popoli che scompaiono, Tranchida, Milano 1992.
N. T. Dieu, "The State versus Indigenous Peoples: The Impact of Hydraulic Projects on Indigenous Peoples of Asia", Journal of World History, VII, n. 1, Spring 1996, pp. 101-130.

INDIRIZZI UTILI
THE BORNEO PROJECT
1137 Hearst Avenue, Suite D
Berkeley, CA 94702, USA
tel. +1-510-5280421, fax +1-510-5277665
E-mail: mbelcher@igc.apc.org

BRUNO MANSER FONDS
Heuberg 25
CH-4051 Basel, Schweiz
tel. +41-61-2619474, fax +41-61-2619473
E-mail: bmf@bmfonds.links.ch
Pubblicazioni: Newsletter

su

SIBERIA - I piccoli popoli del Nord

Il nome della Siberia evoca l'immagine di uno sconfinato deserto di ghiaccio, dove quasi non c'è spazio per la vita. In effetti questa è la più vasta regione della terra, che si estende per oltre 12.000.000 di kmq (40 volte l'Italia) e costituisce quasi un decimo delle terre emerse. La Siberia copre circa due terzi della federazione russa e coincide praticamente con la sua parte asiatica. E' abitata da 25.000.000 di persone (russi, ucraini, georgiani, etc.) e da una trentina di popoli indigeni la cui quantità complessiva si aggira sul milione e mezzo.
Questi popoli sono molto diversi fra loro: non solo per lingua, cultura ed economia, ma anche per il grado di autonomia di cui godono all'interno della federazione russa. I più numerosi (fra cui gli Jacuti ed i Komi, che hanno una propria repubblica autonoma) non sono compresi fra i 26 "piccoli popoli del Nord". Al tempo stesso, questo termine ufficiale non comprende solo le minoranze siberiane, ma anche altri popoli indigeni che vivono nella Russia europea, come i Sami (Lapponi) che abitano la penisola di Kola.
Questi popoli, spesso di consistenza numerica veramente minima, abitano le fredde distese siberiane da migliaia di anni. Alcuni le hanno lasciate per raggiungere l'America attraverso varie ondate migratorie che risalgono a 40.000-50.000 anni fa: i popoli indiani delle Americhe sono infatti di origine asiatica.
In origine la Siberia conosce essenzialmente due tipi di economia: il mare e la foresta si adattano alla pesca, mentre l'allevamento delle renne viene praticato nella tundra da pastori nomadi.
I contatti con l'Europa iniziano attorno alla metà del secolo sedicesimo, quando i primi commercianti di pellicce superano l'area orientale degli Urali che segna il confine naturale fra l'Europa e l'Asia. Nel secolo succcessivo la Siberia comincia a popolarsi di immigrati russi: mercanti, contadini, marinai. Questo causa l'emigrazione di vari popoli in altre regioni siberiane.
L'impero zarista può ormai annettere la regione in modo indolore; i Russi ammirano gli aborigeni per la loro abilità nello sfruttamento delle risorse, ma dimostrano un certo razzismo nei loro confronti.
Nel 1822 viene promulgato il Codice di Amministrazione Indigena, concepito da Mikhail Speransky, uno dei più stretti collaboratori dello zar Alessandro I. Si tratta di una legge avanzata, che cerca di proteggere i diritti territoriali degli indigeni, ma che nei decenni successivi subisce modifiche sostanziali, in seguito ai quali la legge non riesce a fermare lo sfruttamento dei territori indigeni da parte dei commercianti di pellicce.
Intanto, l'alcoolismo si diffonde fra gli indigeni grazie ai liquori che i mercanti offrono come principale merce di scambio: è lo stesso triste destino che in questi stessi decenni si sta abbattendo sugli indigeni dell'Australia e dell'America settentrionale.
Alla fine del secolo, quando viene emanato lo Statuto dei popoli indigeni, la situazione dei popoli siberiani è ancora molto preoccupante. All'inizio del 1900 si sviluppa un movimento regionalista siberiano, in prevalenza non-indigeno, che suggerisce fra l'altro l'adozione delle riserve già funzionanti altrove (Australia e Nord-America), ma la proposta rimane senza seguito.
La Rivoluzione d'Ottobre (1917) porta nuove leggi che ribadiscono il diritto degli indigeni ad uno sviluppo autonomo. In realtà molti dei nuovi leaders politici, a cominciare da Stalin, disprezzano profondamente questi popoli e li considerano dei "primitivi" la cui diversità non deve intralciare la "marcia vittoriosa verso il socialismo". Il comunismo diviene quindi un paravento per la russificazione.
Negli anni Trenta la neonata URSS, in piena crisi economica, intensifica lo sfruttamento della Siberia. E' il periodo della grande industrializzazione: i popoli autoctoni, nonostante le loro terre siano protette dalla legge, in realtà sono spesso costretti ad abbandonare i luoghi che abitano da migliaia di anni.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, le minoranze siberiane vengono esentate dall'arruolamento. Il dopoguerra segna l'inizio di una russificazione più dura, che gli indigeni riescono a contrastare solo minimamente.
Nelle scuole viene ridotto l'insegnamento delle lingue autoctone; nelle zone abitate da popoli senza alfabeto, come Keti ed Aleuti, è addirittura soppresso.
Intanto l'industrializzazione prosegue a tappe forzate. Il territorio - ricco fra l'altro di rame, nickel, alluminio, diamanti e carbone - si conferma d'importanza vitale per l'economia sovietica. La Transiberiana, costruita nel tardo Ottocento, favorisce l'arrivo della manodopera russa che si insedia nelle città nate all'inizio del secolo. Lo sviluppo industriale dell'URSS prosegue quindi travolgendo i popoli e le culture della regione: la Siberia diventa il laboratorio dove si sviluppa la competizione tecnologica fra le due super-potenze. Anche l'estrazione di petrolio viene portata avanti senza alcun rispetto dei diritti indigeni.
Al tempo stesso, la sconfinata regione diviene tristemente nota per i gulag descritti da Aleksandr Solgenitsin. Ormai il volto della Siberia è cambiato profondamente: fra il 1940 ed il 1970 la popolazione è decuplicata, e piccoli villaggi sono diventati porti di rilievo.
Non si deve poi dimenticare la grande importanza strategica della Siberia, che è alla base della sua militarizzazione.
L'avvento di Gorbaciov (marzo 1985) non migliora la situazione dei popoli indigeni. L'uomo della perestrojka concentra la sua attenzione sui problemi economici, aggravati dal costo della guerra in Afghanistan.
Poco dopo esplodono in varie parti dell'URSS i problemi etnici e le rivendicazioni di autonomia. Anche se i popoli siberiani non guadagnano le prime pagine come la Lituania o le repubbliche del Caucaso, inizia anche per loro una nuova presa di coscienza. Cominciano così i contatti fra popoli lontanissimi che finora hanno vissuto ignorandosi. Nel 1990 si riuniscono a Mosca per gettare le basi di una strategia comune, confrontando la propria situazione con quella di altre minoranze polari. Lo scopo del congresso è quello di costituire un'associazione dei piccoli popoli del Nord sovietico: non soltanto la Siberia, quindi, ma l'intera area artica e sub-artica dell'Unione Sovietica. Il promotore dell'iniziativa, lo scrittore Vladimir Sangi, viene eletto presidente.
Negli anni successivi vengono stretti rapporti con gli organismi internazionali che difendono i popoli indigeni.
Nel 1991 cade l'URSS. Con la nuova Russia di Boris Eltsin gli indigeni hanno rapporti sporadici e senza costrutto.
Nel 1994, l'invasione della Cecenia costringe molte minoranze della Russia, fra cui quelle siberiane, a rivedere radicalmente il proprio atteggiamento nei confronti del primo presidente postcomunista. Eltsin, dal canto suo, è troppo assorbito dalla crisi cecena e dalla campagna presidenziale (1996) per occuparsi degli indigeni siberiani:
un problema che al momento può apparire secondario, ma che non tarderà a manifestarsi nuovamente.

Alessandro Michelucci

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
AA. VV., Indigenous Peoples of the Soviet North, IWGIA, Copenhagen 1990 (Document n.
AA. VV., Polar Peoples: Self-Determination and Development, Minority Rights Group, London 1994.
J.D. Ajpin, Indianer Rußlands. Die kleinen Völker des hohen Nordens und fernen Ostens der Russischen Föderation, Gesellschaft für bedrohte Völker, Bozen/Bolzano 1996.
B. Bobrick, Siberia, Mondadori, Milano 1995.
L. Gabbrielli, Siberia e Siberiani, Serarcangeli, Roma 1987.
N. Vakhtin, Native Peoples of the Russian Far North, Minority Rights Group, London 1992.

INDIRIZZI UTILI
ASSOCIATION OF THE INDIGENOUS PEOPLES OF THE NORTH, SIBERIA AND THE FAR EAST
Building 8, K 2, Suite 707
Stroitelej Street, Moscow 117876, Russia
tel-fax +7-095-9307078

L'AURAVETL'AN FOUNDATION
Heiligkreuz 40, P.O. Box 39
FL-9490 Vaduz, Liechtenstein
fax +41-75-237 45 46, E-mail: 106224.747@compuserve.com
Pubblicazioni: L'auravetl'an

su

TIBETANI - Un grido dal tetto del mondo

Nel settimo secolo dopo Cristo, quando si presenta alla storia, il Tibet è un regno in grande espansione: antiche cronache ci narrano di principi e re guerrieri che sono riusciti a riunire i vari clan per dar vita ad uno stato unitario. Poi, dopo un lungo periodo di crisi, l'impero si disgrega e nel secolo tredicesimo Godan, il sovrano mongolo nipote di Gengis Khan, conferisce al lama Kunga-Gyaltsen il potere temporale su gran parte del Tibet. Così, sotto l'egida dei signori delle steppe, un lama diviene vicerè teocratico del paese delle nevi.
La collaborazione continua con il nipote di Kunga-Gyaltsen, Phags-Pa, che addirittura riuscì a convertire al buddhismo il nuovo Gran Khan, Kubilai. Si stabiliscono così i precedenti di una singolare relazione fra sovrani cinesi e teocrati tibetani, che diverrà poi uno dei motivi principali delle rivendicazioni del protettorato di Pechino sulle genti degli altipiani. Il Gran Lama intercede per ottenere dal cielo i favori divini, il Sovrano del Celeste Impero ricambia con una protezione militare. Caduta la dinastia mongola, il regno Ming (1368-1644) limita il suo dominio sulle marche esterne, fra cui la Manciuria, il Sinkiang e parte del Tibet. Per più di tre secoli il paese degli altipiani resta in pratica indipendente. Si consolida così un nuovo potere, quello dello della Chiesa Buddhista Riformata, in altre parole i Gelug-pa (virtuosi), più noti come Berretti Gialli per i loro copricapi. I pontefici di questa chiesa vengono chiamati Dalai Lama (oceano di saggezza).
Figura di spicco nella storia tibetana è quella del quinto Dalai Lama, Lobsang Gyatso (1617-1682), che unifica nuovamente il paese e lo rende del tutto indipendente. Intanto la Cina sta risorgendo con la dinastia Ch'ing (1644-1912), che fra il diciassettesimo ed il diciottesimo cerca di estendere al massimo i territori governati da Pechino. Approfittando dei disordini creati in Tibet dalla successione del Dalai Lama, nel 1720 l'esercito cinese occupa la capitale Lhasa. Comincia allora un larvato legame di vassallaggio fra Celeste Impero e Tibet che durerà fino all'inizio del Novecento. I Tibetani devono così subire la presenza di due commissari inviati da Pechino e protetti da battaglioni di scorta.
Solo nel 1912, con la caduta della dinastia Ch'ing, i Tibetani cacciano i commissari e dichiarano l'indipendenza. Questa dura fino al 1950, quando Mao Tsedong occupa l'altopiano. Dopo la conquista il Dalai Lama cerca un modo per coesistere pacificamente con gli invasori, ma questo non placa la sanguinosa oppressione cinese.
Nel 1959, dopo un tentativo di rivolta che viene represso duramente, il Dalai Lama abbandona il paese insieme a molti seguaci e dopo un lungo viaggio si rifugia in India, a Dharamsala, dove vivrà fino ai nostri giorni. Nel 1965 viene istituita la Regione Autonoma Tibetana (Xizang) nell'ambito della Repubblica Popolare Cinese e si avvia un programma di modernizzazione forzata.
Ma scoppia la Rivoluzione Culturale e seguono per il Tibet anni terribili. Fra il 1976 ed il 1986 le Guardie Rosse uccidono migliaia di monaci e di laici, bruciano templi e monasteri, saccheggiano e danno alle fiamme biblioteche di valore inestimabile: è uno dei più spaventosi etnocidi del nostro secolo. La furia delle Guardie Rosse continua per molti anni e solo poche istituzioni riescono a salvarsi.
Ma in provincia le cose vanno diversamente, e la maggior parte dei monasteri viene distrutta. Dei famosi romitori di Samye e di Gianse, rispettivamente dell'ottavo e quindicesimo secolo, rimangono pochi cumuli di macerie. La città di Galden viene rasa al suolo, mentre lo Yumbu Lakhang, il più antico edificio del Tibet, viene ridotto ad un ammasso di rovine. Oggi restano solo una ventina degli oltre 2000 edifici storici sacri.
Intanto il Dalai Lama, dal suo esilio indiano, porta avanti una paziente attività diplomatica, cercando fra l'altro l'appoggio delle Nazioni Unite. Fra il 1959 ed il 1965 vengono approvate varie risoluzioni di condanna nei confronti della Cina. Nel 1963 la massima autorità tibetana presenta una proposta di Costituzione che però non avrà alcun seguito.
Dopo la morte di Mao (1975), il nuovo corso inaugurato da Deng Xiaoping porta qualche miglioramento: per qualche anno si attenua la repressione, ci sono timidi spiragli di autonomia ed anche una certa ripresa economica. Il paese si apre al turismo e molti stranieri possono visitarlo. Testimonianza di questa apertura sono i réportages ed i servizi fotografici sul Tibet: il mondo comincia finalmente a prendere coscienza della tragedia tibetana. In molte parti del mondo si levano le prime denunce da parte di associazioni, giornalisti, uomini di cultura. In tutto il mondo si moltiplicano le iniziative politiche e giuridiche sulla questione tibetana. In Italia nasce l'Associazione Italia-Tibet, presieduta da Pietro Verni ed ancor oggi molto attiva.
Nel 1987 il Dalai Lama propone un piano di pace, ma il governo cinese rifiuta di discuterlo. Poi, dopo i moti popolari di Lhasa (settembre 1987) e la strage di piazza Tienanmen a Pechino, inizia un nuovo periodo di repressione. Negli ultimi anni, grazie anche al Premio Nobel che è stato conferito al Dalai Lama nel 1989, la solidarietà internazionale è aumentata in modo notevole, ma una soluzione appare ancora lontana. Al Tibet, vittima di una tragedia che si protrae da mezzo secolo, tocca anche un triste ma poco evidente primato: il prigioniero politico più piccolo del mondo. E' il successore del decimo Panchen Lama (la figura religiosa più importante dopo il Dalai Lama). Si chiama Gendun Choekyi Nyima; rapito nel 1995 dai Cinesi perché riconosciuto dal Dalai Lama, oggi ha otto anni.

Silvio Calzolari

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
J. F. Avedon, Il Dalai Lama. In esilio dal paese delle nevi, Dall'Oglio, Milano 1989.
R. Barnett - S. Akiner (a cura di), Resistance and Reform in Tibet, Hurst, London 1994.
C. King, Tibet: un paese e il suo dramma, Shakespeare & Company, Firenze 1996.
A. Kumar (a cura di), Tibet: A Sourcebook, Radiant Publishers, New Delhi 1995.
F. Maraini, Segreto Tibet, Dall'Oglio, Milano 1984.
N. Norbu, Viaggio nella cultura dei nomadi tibetani, Shang Shung, Arcidosso (Grosseto) 1995.
L. Vassallo (a cura di), La situazione del Tibet e il Dalai Lama, Chiara Luce, Pomaia (Pisa) 1993.
P. Verni, Dalai Lama. Biografia autorizzata, Jaca Book, Milano 1990.
B. Zoratto, Tibet in fiamme. Con intervista al Dalai Lama, Premio Nobel per la pace 1989, Schena, Milano 1989.

INDIRIZZI UTILI
ASSOCIAZIONE ITALIA-TIBET
Via Pinturicchio 25
20133 Milano, Italia
tel-fax +39-02-70638382
E-mail: tibet-it@ines.org

TIBET INFORMATION NETWORK
7 Beck Road
London E8 4RE, Great Britain
tel. +44-171-5335458, fax +44-171-4053814
E-mail: tin@gn.apc.org

su

TIMORESI - Un genocidio dimenticato

Nel novembre del 1991 almeno un centinaio di persone che stanno partecipando ad una processione funebre vengono uccise dall'esercito indonesiano nel cimitero di Santa Cruz, presso Dili, capitale di Timor Est, l'ex-colonia portoghese invasa nel 1975 dalle forze armate di Giakarta. Questo episodio, ripreso dalle telecamere di una televisione britannica, arriva sui teleschermi di tutto il mondo, squarciando per una volta il muro di silenzio che circonda la tragedia del popolo timorese. In risposta alle proteste internazionali, il governo indonesiano replica che si è trattato di un fatto spiacevole, ma isolato ed in nessun modo conseguenza della sua azione politica.
Ma è facile sentire in queste parole l'odore della menzogna: da oltre vent'anni Amnesty International ed altre organizzazioni umanitarie denunciano la strage perpetrata dalle truppe indonesiane ai danni della popolazione timorese. Negli anni successivi all'invasione muoiono oltre 200.000 persone - su un totale di 600.000 - uccise dalle armi indonesiane o per la carestia provocata dagli invasori.
L'Indonesia sta cercando di ridurre ai minimi termini la popolazione dell'isola, ed a questo scopo ricorre anche a pratiche di sterilizzazione forzata e di sradicamento culturale. E' infatti proibito l'uso del tetum, lingua franca locale, ed i nomi vengono trasformati (Henrique diventa Hendrykus, Carvalho viene indonesizzato in Tcharfaliu, etc.). Questa repressione non ha però annullato la resistenza dei Timoresi, che cercano in ogni modo di resistere all'etnocidio.
L'isola di Timor, abitata da un popolo di ceppo melanesiano, si trova all'estremità sudorientale dell'arcipelago della Sonda, a circa 500 chilometri dall'Australia. Ha una superficie complessiva di 32.000 kmq; la parte orientale ne occupa circa 18.000 (un'area equivalente al Veneto).
Ann Forbes, una viaggiatrice inglese che visita l'isola attorno al 1880, definisce Dili
"il luogo più malsano dell'arcipelago" e parla dell'atmosfera miasmatica che aleggia sulla città. Alcuni indicatori di progresso, come il numero dei medici (3 per 600.000 abitanti) o l'estensione delle strade asfaltate (30 km in tutto), mettono in rilievo il disinteresse del Portogallo per questa colonia, che viene utilizzata essenzialmente come terra d'esilio per oppositori politici e funzionari in disgrazia.
Anche se i primi portoghesi erano arrivati nel 1514, è solo all'inizio del ventesimo secolo che si posero il problema di un controllo sistematico del territorio, scontrandosi con una tenace resistenza che fu repressa causando molte migliaia di morti. Nel 1904 si realizzò la divisione dell'isola in due parti ben distinte: le due potenze coloniali interessate all'area, Olanda e Portogallo, firmarono un trattato che assegnava la parte occidentale alla prima e quella orientale alla seconda.
L'interesse economico rimane comunque scarso, anche se viene imposto il sistema di lavoro forzato, allora diffuso in tutte le colonie portoghesi: evidentemente qualche quintale di caffè e di legname non esercitano un'attrazione particolare.
L'importanza strategica di Timor Est comincia ad emergere nel corso della Seconda Guerra Mondiale, quando i Giapponesi invadono l'isola ed i limitati contingenti australiani inviati per contrastarli vengono sostenuti dalla resistenza locale. I timoresi che muoiono negli scontri sono 40.000.
Nel 1945, la vicina Indonesia conquista l'indipendenza e Timor Ovest diviene parte della nuova repubblica, che assume rapidamente un ruolo di primo piano nel nascente Movimento dei Non-Allineati. In quegli anni, a Timor Est, nessuno può immaginare che proprio quel paese si rivelerà il nemico principale.
Mentre infuriano le guerre di liberazione nelle colonie portoghesi dell'Africa, anche a Timor comincia a svilupparsi un movimento indipendentista. Quando la "rivoluzione dei garofani" abbatte il regime di Salazar (1974) sembra che anche le speranze del popolo timorese possano essere esaudite. La stessa Indonesia, per bocca del suo Ministro degli Esteri, si pronuncia più volte a favore di una Timor Est indipendente e non-allineata.
Nell'estate del 1975, però, dopo un incontro a Washington fra il generale Suharto e Gerald Ford, la posizione indonesiana muta radicalmente, e nelle dichiarazioni ufficiali l'indipendenza dell'isola viene definita "un pericolo per la sicurezza dell'Indonesia". Le pressioni degli Stati Uniti sui militari di Giakarta sono state decisive: sconfitti nel Vietnam, costretti ad abbandonare la Cambogia, gli americani aumentano in modo rilevante gli aiuti militari all'Indonesia lasciando "in deposito" sull'isola di Giava buona parte degli armamenti utilizzati nella regione. Gli Stati Uniti temono che presso lo stretto di Ombai-Wetar, unico passaggio in acque profonde per i sottomarini atomici
fra il Pacifico e l'Indiano, possa installarsi un regime socialista. Questo fa scattare la ragion di stato fondata sui principi della pax americana: poco importa se per questo un popolo verrà strangolato.
Il 28 novembre 1975 il FRETILIN (Fronte Rivoluzionario di Timor est indipendente) proclama la repubblica di Timor est, che viene subito riconosciuta da dodici paesi. Pochi giorni dopo, l'attacco delle truppe indonesiane. All'alba del 7 dicembre, mentre Ford e Kissinger, reduci da una visita ufficiale, lasciano Giakarta in aereo, l'isola viene invasa contemporaneamente da paracadutisti, forze di mare e di terra.
Nonostante la sorpresa, i Timoresi iniziano a resistere e si ritirano sulle montagne. La resistenza armata, guidata dal FRETILIN, utilizza soprattutto le armi lasciate dai Portoghesi, ma via via che queste si esauriscono deve contare solo su assalti ad arsenali indonesiani.
Così, per compensare la debolezza militare, si sviluppa una resistenza popolare basata sulla disobbedienza civile: l'esercito invasore deve perciò fare i conti con una popolazione capace di utilizzare mille occasioni per dimostrare la propria resistenza all'etnocidio.
Intanto, nel corso degli anni Ottanta, le trivellazioni condotte nel Mar di Timor rivelano
la presenza di riserve petrolifere tali da collocare la zona fra i 25 maggiori siti petroliferi del mondo. La terra del sandalo e del caffé inizia così a diventare interessante anche sotto il profilo economico. Il governo australiano stringe subito un accordo con l'Indonesia per lo sfruttamento congiunto del sito: questo presuppone un riconoscimento de facto dell'annessione di Timor est all'Indonesia. L'Australia, quindi, non tiene conto delle varie risoluzioni dell'ONU, che riconoscono a Timor est lo status di "territorio da decolonizzare". Secondo il diritto internazionale, la potenza amministrante è ancora il Portogallo, che infatti ricorre alla Corte Internazionale dell'Aia sostenendo che l'accordo petrolifero fra Australia ed Indonesia non tiene conto dei suoi diritti sulle risorse del territorio.
Comunque, il popolo timorese sa di poter contare solo sulle proprie forze. Tutti i loro alleati si muovono in una trama di ambiguità che nasce da interessi economici e geopolitici contrastanti. La Costituzione portoghese conserva un articolo che impegna a favorire l'indipendenza dell'isola, al pari delle altre ex-colonie. All'interno dell'ONU, in effetti, sembra che Lisbona sostenga con coerenza questa posizione, ma è anche vero che negli ultimi anni l'interscambio con l'Indonesia aumenta in modo considerevole. L'Unione Europea, che a parole sostiene la posizione portoghese, stenta ad andare oltre le condanne verbali, perché rischierebbe di perdere un mercato potenziale di 200.000.000 di persone (gli Indonesiani) per difendere un micromercato (400.000 timoresi).
La Chiesa cattolica, che pur si sente investita di una responsabilità morale in quanto l'80% dei Timoresi è cattolico, non ha alcuna intenzione di rompere le relazioni diplomatiche con un paese come l'Indonesia, dove i cattolici sono una minoranza ma occupano spesso posizioni di rilievo.
La proposta di un referendum da svolgersi sotto il controllo dell'ONU, avanzata più volte da Portoghesi e Timoresi, si scontra sempre col netto rifiuto di Giakarta. E' improbabile che il Premio Nobel per la Pace attribuito nel 1996 a Monsignor Carlos Felipe Ximenes Belo e José Ramos Horta si riveli positivo per la questione timorese.
Le speranze più consistenti sono legate ad un possibile cambiamento in Indonesia dopo la morte o almeno la scomparsa politica del generale Suharto: un paese che aspira ad entrare nel novero delle potenze industriali moderne non potrà conservare troppo a lungo un regime militare antidemocratico e fortemente repressivo.
Le donne e gli uomini di Timor est, intanto, continuano a lottare.

Alberto Melandri

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
AA. VV., Io sono timorese. Testimonianze da Timor Est, CIES, Roma-Comitato Ferrara per la Pace, Ferrara 1991.
C. Budiardjo - L. Soei Long, The War against East Timor, Zed Books, London 1984.
P. Carey, East Timor: Third World Colonialism and the Struggle for National Identity, Research Institute for the Study of Conflict and Terrorism, London 1996 (Conflict Studies n. 293-294).
G. Defert, Timor est, le génocide oublié. Droit d'un peuple et raisons d'Etats, L'Harmattan, Paris 1992.
J. R. Horta, Funu. The Unfinished Saga of East Timor, Red Sea Press, Trenton (New Jersey) 1987.
K. Ludwig, Das Schweigen brechen. Osttimor: Kultur und Widerstand, Pazifik Informationsstelle, Neuendettelsau 1991.
B. Pistocchi, Presenza cristiana e radici etniche, Jaca Book, Milano 1976.
S. Sidell, "The United States and Genocide in East Timor", Journal of Contemporary Asia, XI, n. 1, 1981, pp. 44-61.

INDIRIZZI UTILI
COORDINAMENTO DEI GRUPPI DI SOLIDARIETA' CON LA LOTTA DEL POPOLO TIMORESE
Via Muzzina 11
44100 Ferrara, Italia
tel. +39-0532-765770, fax +39-0532-210792

EAST TIMOR ACTION NETWORK
P.O. Box 1182
White Plains, NY 10602, USA
tel. +1-914-4287299, fax +1-914-4287383
E-mail: etan-us@igc.apc.org

TAPOL
111 Northwood Road
Thornton Heath, Surrey CR7 8HW, Great Britain
tel. +44-181-7712904, fax +44-181-6530322
E-mail: tapol@gn.apc.org
Pubblicazioni: Tapol

EUROPA

su

SAMI/LAPPONI - Gli Indiani d'Europa

Generalmente si pensa che i popoli indigeni siano tutti extra-europei, ma esiste un'eccezione: si tratta dei Sami (in Italia meglio noti come Lapponi), che vivono divisi in 4 stati contigui dell'estremo nord europeo (Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia) e sono oggi circa 50.000.
L'isolamento geografico e la loro cultura tribale limitano il contatto con le altre minoranze europee, favorendo invece i rapporti con gli altri popoli artici ed indigeni in generale.
La loro lingua, che appartiene al ceppo ugro-finnico, è da tempo oggetto di complesse dispute glottologiche.
I Sami, popolo fondamentalmente nomade, abitano la tundra artica, dove vivono una vita quasi simbiotica con la renna. Oggi solo il 10% si dedica all'allevamento di questo animale, che resta comunque d'importanza centrale nella cultura e nell'economia.
Sembra che gli antenati dei Sami siano originari della regione dei laghi Ladoga e Onega (Russia nordoccidentale), dove sarebbero stati insediati già attorno al 500 a.C. L'invasione di popoli provenienti dalle regioni uraliche li costringe ad emigrare ad ovest, nella regione scandinava. Fino al secolo unicesimo i Sami vivono tranquillamente di caccia, pesca e raccolta, dopodichè le invasioni vichinghe li spingono all'estremo nord.
Il loro nomadismo viene nuovamente minacciato quando inizia la colonizzazione scandinava, che ha il suo motore nella cristianizzazione del tardo Medio Evo. La nuova era porta con sè strade, ferrovie e nuovi villaggi che mutano profondamente l'economia lappone.
Comincia poi una dura repressione della lingua, non di rado in nome del cristianesimo: molti uomini di chiesa affermano che "il lappone è la lingua del diavolo". D'altro canto, però, si deve proprio a dei missionari la codificazione di una lingua finora tramandata oralmente.
All'inizio del 1800 la Bibbia viene tradotta in sami, ma è solo nel nostro secolo che viene fissato uno standard ortografico (la lingua è divisa in 3 dialetti e 13 sotto-dialetti).
Ma le difficoltà rimangono: dal 1888 alla Seconda Guerra Mondiale, per esempio, ai Sami della Norvegia è proibito usare la propria lingua. Nel 1948 nasce la prima organizzazione lappone, l'Associazione Norvegese degli Allevatori di Renne (NRL), e nel 1956 il Consiglio Sami.
Ha inizio così una discussione serrata dei vari problemi. Fra questi la repressione dello sciamanesimo, che i missionari assimilano alla magia nera (già nel secolo scorso gli oggetti sacri sono stati bruciati o portati nei musei europei). Riemerge anche il problema della lingua: molti sami non la parlano nè sanno leggerla.
Per ovviare a questa situazione ne viene promosso l'insegnamento nelle scuole. In Norvegia, dove vive la comunità più numerosa, una legge del 1969 garantisce l'insegnamento della lingua nei primi sei anni scolastici, ed una successiva revisione darà diritto di scegliere il sami come lingua d'istruzione.
Nel 1973 la nascita dell'Istituto Lappone Nordico costituisce un momento decisivo per la minoranza nordeuropea. L'istituto ha sede a Kautokeino (Norvegia) ed è promosso dal Consiglio Nordico, l'organismo di cooperazione fra gli stati scandinavi. Il suo obiettivo è quello di costituire un punto di riferimento - culturale, giuridico, politico - per tutti i Sami.
Nello stesso periodo emergono anche gravi problemi ambientali, come la diga idro-elettrica che viene costruita sul fiume Alta (Norvegia). Il progetto rischia di allagare vaste zone abitate dai Lapponi, che organizzano azioni di protesta col sostegno dei movimenti ecologisti. Il braccio di ferro col governo è lungo, ma si dimostra fallimentare.
Altri problemi ambientali incombono - ad esempio, l'inquinamento dei fiumi dovuto dallo sfruttamento del petrolio in alto mare. Problemi che diventano secondari quando gli effetti della tragedia di Chernobyl (26 aprile 1986) si abbattono sulle terre lapponi. Le conseguenze sono disastrose: la radioattività rende necessario l'abbattimento di 100.000 renne, e molte altre muoiono per l'avvelenamento dei licheni, che rappresentano il loro nutrimento essenziale.
Il grave danno ambientale ed economico non ferma comunque il cammino dei Sami verso l'affermazione dei propri diritti. Nel 1989 viene istituita in Norvegia un'assemblea nazionale indigena riconosciuta dal governo, che viene chiamata Parlamento Sami. In Finlandia un'istituzione analoga era già attiva dal 1972, mentre in Svezia nascerà solo qualche anno dopo.
Il 1990 porta la paura di una nuova Chernobyl. Il governo sovietico decide infatti di spostare i propri siti nucleari da Semipalatinsk (Kazakistan) all'isola di Novaja Zemlja, che sorge nei pressi delle terre abitate dai Sami. Questa paura è condivisa da altri popoli artici, con i quali viene anche intensificata la collaborazione.
Con il crollo dell'Unione Sovietica (1991) viene anche ristabilito il contatto fra i Sami della regione scandinava e quelli che abitano la penisola di Kola (Russia).
Nel 1995, Svezia e Finlandia aderiscono all'Unione Europea. In seguito a questo, l'assise di Strasburgo sarà parte in causa nei consessi internazionali dove si dibatte della questione indigena.

Alessandro Michelucci

BIBLIOGRAFIA CONSIGLIATA
AA.VV., Self-Determination and Indigenous Peoples: Sami Rights and Northern Perspectives, IWGIA, Copenhagen 1987 (Document n. 58).
S. Aikio - U. Aikio-Puoskari - J. Helander, The Sami Culture in Finland, Lapin Sivistysseura, Helsinki 1994.
H. Beach, The Saami of Lapland, Minority Rights Group, London 1988.
R. Bosi, Lapponi. Sulle tracce di un popolo nomade, Nardini Press, Fiesole (Firenze) 1995.
C. Corradi Musi, I Lapponi, Palatina, Parma 1985.
S. Lucchi, Sciamanismo saami, tesi di laurea,
G. Mazzoleni (a cura di), Same, vol. 1: La dimensione remota, Bulzoni, Roma 1981.
G. Mazzoleni (a cura di), Same, vol. 2: La diversità relativa, Bulzoni, Roma 1982.
C. Mériot, Les Lapons, PUF, Paris 1985 (Que sais-je? n. 2232).
K. Nickul, The Lappish Nation: Citizens of Four Countries, Indiana University Press, Bloomington (Indiana) 1977.
J. Turi, Vita del lappone, Adelphi, Milano 1991.
L. Vagge Saccorotti, (a cura di), Leggende della Lapponia, Arcana, Milano 1993.
N. A. Valkeapaa, Greetings from Lappland. The Sami: Europe's Forgotten People, Zed Books, London 1983.

INDIRIZZI UTILI
NORDIC SAAMI INSTITUTE
PO Box 220
N-9520 Kautokeino, Norway
tel. +47-78-485000, fax +47-78-486969

SAAMI COUNCIL
SF-99980 Utsjoki, Finland
tel. +358-697-677351, fax +358-697-677353

TAIGA RESCUE NETWORK
Box 116
S-96223 Jokkmokk, Sweden
tel. +46-971-17039, fax +46-971-12057, E-mail: taiga@jokkmokk.se
Pubblicazioni: Taiga News


Ultimo agg.: 26.2.2004 | Copyright | Motore di ricerca | URL: www.gfbv.it/3dossier/popoli/pop2.html | XHTML 1.0 / CSS | WEBdesign, Info: M. di Vieste
HOME | INDEX DOSSIER >>> INDEX | PARTE 1 | PARTE 2 | PARTE 3