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Nutrire il mondo, nutrire tutti

La sfida di una agricoltura etica e sostenibile

Pogrom bedrohte Völker n. 283, 4/2014

Bolzano, marzo 2015

Indice

Editoriale, Sabrina Bussani | Sahara Occidentale: pomodori dalla colonia | Brasile. La situazione dei Guaraní: morire per vivere | Brasile: tutelare gli ecosistemi significa innanzitutto salvare i diritti delle popolazioni indigene | Etiopia: furto di terre o modernizzazione dell'agricoltura? | Mali, dove terra e acqua sono preziose | Riso - l'oro bianco dell'Asia | Sale - da millenni elixir di vita | Territori occupati palestinesi: la filosofia di vita della famiglia Nassar | India/Tamil Nadu: Ecofarming - un progetto per l'uomo e la terra

Editoriale [ su ]

Di Sabrina Bussani

Nutrire il mondo, nutrire tutti. La sfida di una agricoltura etica e sostenibile, pogrom / bedrohte Völker 283 (4/2014). Nutrire il mondo, nutrire tutti. La sfida di una agricoltura etica e sostenibile, pogrom / bedrohte Völker 283 (4/2014).

Care lettrici, cari lettori,

attualmente la popolazione mondiale è di circa 7 miliardi di persone. Ma siamo in crescita e secondo le stime dell'ONU già nel 2050 saremo in 9 miliardi. Oltre alla preoccupazione per la produzione energetica, per molti la sfida è quella dell'alimentazione. Mentre i governi e le comunità economiche stipulano accordi per l'importazione di prodotti agricoli a basso costo, le multinazionali hanno da tempo avviato una corsa all'accaparramento di terre nel cosiddetto sud del mondo e invocano la necessità di metodi di produzione agricola industriali e intensivi e perlopiù ecologicamente poco sostenibili. Popolazioni intere vengono dislocate per allagare ampie porzioni di terra in cui sorgono dighe e centrali idroelettriche o per avviare piantagioni dedite alla coltura di prodotti agricoli destinati all'industria alimentare o da trasformare in biocarburanti. Succede così che i consumatori europei possono comprare pomodori coltivati nel deserto del Sahara occidentale a prezzi inferiori dei pomodori prodotti localmente o che piccoli coltivatori del sud del mondo si ritrovino quasi da un giorno all'altro a lavorare in condizioni di semi-schiavitù in piantagioni sorte su quella che solo poco tempo prima era la propria terra capace di sfamare intere comunità. Spesso ciò che viene giustificato nel nome dello sviluppo e della lotta alla fame produce al contrario povertà, che è, come ricorda il World Food Report dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (FAO), il primo passo verso la malnutrizione e la fame.

Sempre secondo la FAO, nel mondo ci sono oggi circa 850 milioni di persone che soffrono cronicamente la fame. L'Unicef ci segnala che nei paesi in via di sviluppo circa 200 milioni di bambini sotto i 5 anni soffrono di qualche forma di malnutrizione ed è sempre la scarsa alimentazione a causare ogni giorno la morte di circa 3.800 i bambini sotto i cinque anni.

Eppure non c'è mai stato così tanto cibo come oggi. Secondo Jean Ziegler, ex-relatore speciale sul diritto all'alimentazione per il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, "allo stato attuale la produzione agricola mondiale potrebbe facilmente sfamare 12 miliardi di persone". Perché allora tanta fame nel mondo? Sempre secondo Jean Ziegler, la causa va cercata nella corsa al profitto delle multinazionali e nella speculazione finanziaria sui prodotti alimentari di base. L'uomo, continua Ziegler, ha creato "un sistema cannibale". Ma il sistema non è inamovibile. L'uomo l'ha creato e l'uomo lo può cambiare. E per farlo, dice Ziegler, non ci vuole poi tanto, serve solamente il risveglio delle coscienze.

In questo numero abbiamo voluto vedere cosa accade attorno al cibo nel mondo, dall'aspetto prettamente culturale alle implicazioni politiche, dalle conseguenze concrete e quotidiane per chi è vittima delle politiche agricole neoliberali ai progetti di sviluppo agricolo sostenibile, di pace e dignità per le persone coinvolte.

Sabrina Bussani

[Foto di copertina] Questo giovane Asháninka della comunità Apiwtxa nello stato brasiliano dell'Acre si chiama Piyanco. Gli Asháninka hanno messo molto impegno nella creazione del centro di formazione Yorenka Ãtame attraverso il quale trasmettono le loro conoscenze tradizionali anche ai non-indigeni. Mentre gli Asháninka sono riusciti a salvaguardare e curare la propria cultura, molte altre comunità indigene devono ancora lottare duramente per il rispetto dei propri diritti fissati dalla costituzione brasiliana del 1988 ma troppo spesso violati e ignorati dalla politica e dalle istituzioni. Foto: Ministério da Cultura/Flickr BY 2.0.

Sahara Occidentale: pomodori dalla colonia [ su ]

L'ultima colonia d'Africa

Di Frederik Kirmeier

Nel 2012 l'Unione Europea ha siglato un accordo di libero scambio con il Marocco. Poco dopo l'entrata in vigore dell'accordo, nei banchi dei supermercati europei, tra cetrioli, ravanelli e cipolle i consumatori hanno iniziato a trovare anche dei bellissimi pomodori ciliegini provenienti proprio dal paese nordafricano. Almeno così recitano le indicazioni di provenienza. Tra i maggiori importatori di prodotti agricoli dal Marocco risultano l'impresa franco-marocchina Idyl e l'Azura Group. Entrambe indicano la provenienza dei loro pomodorini con "Marocco", ma spesso questi provengono invece dalla regione attorno a Dakhla nel Sahara Occidentale. Qui diversi conglomerati marocchini e multinazionali francesi producono ed esportano oltre 60mila tonnellate di prodotti agricoli, per buona parte pomodori, in gran parte destinati al mercato estero (più del 95 per cento) di cui quello europeo fa la parte del leone.

Coltivazioni di pomodorini vicino a Dakhla/Sahara Occidentale. Foto: jbdodane/Flickr BY-NC 2.0. Coltivazioni di pomodorini vicino a Dakhla/Sahara Occidentale. Foto: jbdodane/Flickr BY-NC 2.0.

I pomodorini di Dakhla fanno una prima tappa ad Agadir in Marocco dove vengono mescolati con i pomodorini coltivati in Marocco, poi il viaggio continua verso l'Europa. Per il commerciante europeo a questo punto diventa praticamente impossibile stabilirne l'esatta provenienza.

Dal 1975 il Marocco occupa illegittimamente e in violazione al diritto internazionale la regione del Sahara Occidentale. Nel 1991 è stata siglata una tregua tra Rabat e il movimento indipendentista Fronte Polisario. Una delle principali condizioni poste dal Fronte Polisario per la firma dell'accordo era lo svolgimento da parte del Marocco di un referendum che permettesse ai circa 75.000 abitanti della regione, i Saharawi, di decidere se avessero voluto restare con il Marocco o diventare indipendenti. Finora questo referendum non è stato fatto. Per le Nazioni Unite il Sahara Occidentale è un "Non-Self-Governing Territory", ossia un territorio non autonomo. Di conseguenza sarebbe vietato estrarre risorse naturali finché non è chiarito lo status giuridico della regione. Negli scorsi anni diverse imprese europee si sono ritirate dal commercio con lo sfruttamento di fosfati, utilizzati sia per concimi sia per alimentari, ma con la coltivazione di pomodori a Dakhla viene avviata una nuova forma di sfruttamento del territorio.

Sfruttamento delle riserve d'acqua
L'accordo di libero scambio del 2012 tra l'Unione Europea e il Regno del Marocco non esclude esplicitamente il Sahara Occidentale come luogo di coltivazione della frutta e verdura importata. Intanto, il governo marocchino progetta l'espansione a livello industriale delle coltivazioni di pomodori nel deserto attorno all'oasi di Dakhla ad opera di imprese alimentari industriali. Nella regione non ci sono piccoli agricoltori.

La coltivazione di pomodori richiede un alto consumo d'acqua e la loro coltivazione in un'area desertica pone già di per sé molti problemi di sostenibilità ecologica. Nella regione di Dakhla le precipitazioni medie annue sono di appena 45 mm. In confronto, Bolzano conta su circa 711 mm di pioggia all'anno. Per coltivare i pomodori si vanno quindi a sfruttare le riserve d'acqua dolce dell'oasi. I futuri problemi di approvvigionamento d'acqua per la popolazione locale sono già prevedibili.

Per il governo del Marocco le piantagioni di verdure attorno a Dakhla non rivestono solo importanza economica, ma anche politica. I nuovi posti di lavoro creati dall'industria agroalimentare vengono occupati quasi unicamente da operai provenienti dal Marocco. Per il governo di Rabat la crescente presenza di cittadini marocchini nel Sahara Occidentale serve principalmente a rafforzare le proprie pretese sulla regione e ad incrementare la fetta di popolazione che in caso di referendum quasi certamente voterebbe a favore dell'annessione al Marocco.

Brasile [ su ]

La situazione dei Guaraní: morire per vivere

Di Sabrina Marie Rommerskirchen

"Non possiamo continuare a guardare senza fare nulla. Forse questa è l'ultima volta che riusciamo ad alzare la nostra voce …. ma non dobbiamo avere paura. Siamo sulla nostra terra, sul nostro suolo. Qui sono nati i nostri padri, qui vivono i nostri padri. Non è nemmeno più possibile dire da quanto tempo ormai è così perché la storia del nostro popolo è antica. E' per questo che dobbiamo alzare la nostra voce."
(Marcal Tupa, Guaraní)

Questi Guaraní - complessivamente 40 famiglie - sono stati cacciati dalla loro terra nel 2003. Fino ad oggi continuano a lottare per poter tornare a casa. Foto: Percurso da Cultura/Flickr BY-SA 2.0. Questi Guaraní - complessivamente 40 famiglie - sono stati cacciati dalla loro terra nel 2003. Fino ad oggi continuano a lottare per poter tornare a casa. Foto: Percurso da Cultura/Flickr BY-SA 2.0.

"Questa terra è la mia vita. E' la mia anima. Se me la togli, mi togli la vita", lamenta il Guaraní Marcos Veron in un'intervista del 2010 con l'associazione per i diritti umani Survival International. Con una popolazione di ca. 51.000 persone, i Guaraní costituiscono il maggiore popolo indigeno in Brasile. Speravano che il Campionato mondiale di calcio e i prossimi Giochi Olimpici avrebbero contribuito ad attirare l'attenzione sulla povertà e le difficoltà delle comunità indigene in Brasile e che il governo avrebbe colto l'occasione per approvare finalmente le necessarie misure di tutela. Purtroppo non è stato così. Nei mesi estivi del 2014 il Brasile ha fatto di tutto per fornire di sé l'immagine di un paese che da grande importanza ai diritti dei popoli indigeni. Di fatto però non è cambiato nulla.

Tra i Guaraní il tasso di suicidio è il più alto tra tutti i popoli indigeni del paese. Secondo i dati forniti da Survival International, tra il 1986 e il 1999 si sono suicidati 244 persone del popolo Guaraní. Nel 2013 ci sono stati 72 suicidi, in maggioranza di giovani tra i 15 e i 30 anni. Una tragica forma di protesta in una lotta senza speranze. Questi atti di disperazione hanno acceso i riflettori sulla situazione dei Guaraní in Brasile. Cacciati dalle loro terre da proprietari terrieri senza scrupoli, molti Guaraní vivono accampati lungo le strade, senza acqua pulita né cibo, senza assistenza medica e senza ovviamente la possibilità di vivere secondo la propria cultura e tradizione.

Il dislocamento dei Guaraní dai loro territori tradizionali è iniziato poco dopo la guerra della Triplice Alleanza (1864 - 1870) durante la quale il Paraguay combatté contro gli alleati Argentina, Brasile e Uruguay. I Guaraní vennero cacciati dalle loro terre ancestrali per fare posto agli agricoltori. Oggi il paesaggio dello stato federale del Mato Grosso do Sul è caratterizzato da enormi piantagioni. Le foreste sono state in gran parte abbattute e al loro posto sono sorti campi di mate, soia e di canna da zucchero. Per i Guaraní questo ha significato la fine del loro stile di vita tradizionale. Non essendo nomadi ma vivendo di caccia, raccolta di frutti e di pesca, le foreste erano fondamentali per la loro sopravvivenza.

Lo stato federale brasiliano Mato Grosso do Sul prende il nome dalla vegetazione che copriva il territorio. Ma della 'fitta macchia del sud' ormai è rimasto poco. Quasi l'intero territorio dello stato è stato disboscato e coperto da piantagioni a monocoltura. Foto: Percurso da Cultura/Flickr BY-SA 2.0. Lo stato federale brasiliano Mato Grosso do Sul prende il nome dalla vegetazione che copriva il territorio. Ma della "fitta macchia del sud" ormai è rimasto poco. Quasi l'intero territorio dello stato è stato disboscato e coperto da piantagioni a monocoltura. Foto: Percurso da Cultura/Flickr BY-SA 2.0.

Di tanto in tanto qualche gruppo di Guaraní tenta di tornare sulla propria terra nonostante questa risulti ora di proprietà di qualche latifondista. La reazione dei nuovi proprietari solitamente è molto violenta e non è raro che allevatori e/o proprietari terrieri sparino ai Guaraní. Nella maggior parte dei casi la polizia non interviene.

Alle comunità guaraní sono rimasti solo piccoli terreni separati l'uno dall'altro. Nella riserva Terra Indígena Dourados nel Mato Grosso do Sul più di 12.000 persone vivono accalcate in appena 35 km2, con una densità di popolazione di 340 persone per km2. Molti altri Guaraní sono invece stati costretti ad andare a vivere in villaggi lontani dalle loro terre ancestrali. La legislazione ora prevede la demarcazione delle terre indigene, ma secondo i criteri fissati i Guaraní andrebbero a perdere ulteriori porzioni di terra.

Per molti Guaraní l'unica possibilità di sopravvivenza è il lavoro nelle piantagioni. Si tratta di un lavoro che assomiglia molto alla schiavitù, in cui i braccianti sono costretti a tagliare canna da zucchero per 12-14 ore al giorno, a diretto contatto con gli agenti chimici spruzzati sulle piante per accelerarne la crescita. Il salario basta appena per sopravvivere e solo in rari casi le aziende agricole offrono ai propri braccianti vitto, alloggio e un minimo di assistenza medica. Un bracciante delle piantagioni in media non riesce a superare i 15 anni di lavoro. La legge brasiliana prevede una pena tra i due e gli otto anni di carcere per i proprietari di piantagioni e di aziende agricole che costringono i propri lavoratori a lavorare in condizioni disumane, ma le poche condanne finora si sono concluse con semplici multe.

Tutto ciò spiega bene la disperazione e l'alto tasso di suicidi tra i Guaraní. In particolare le giovani generazioni sembrano avere poche speranze che i loro diritti vengano rispettati e sono afflitte dalla mancanza di prospettive future. I dati riguardanti le comunità Guaraní sono allarmanti ma non sembrano spaventare il governo brasiliano. Anche Anastácio Peralta, un Guaraní-Kaiowá, è pessimista: "Il popolo dei Guaraní era come un fiume che scorreva lentamente e pacifico quando un enorme masso è stato gettato nel suo letto e lo ha diramato in tutte le direzioni."

Secondo i dati forniti dal Conselho Indigenista Missionário (CIMI) e dalla Fondazione nazionale della salute (Fundação Nacional de Saúde) in Brasile vivono circa 51.000 Guaraní, di cui 40.000 solo nello stato federale del Mato Grosso do Sul. I restanti 11.000 vivono distribuiti tra gli stati federali di Rio Grande do Sul, Santa Catarina, Paraná, São Paulo, Rio de Janeiro e Pará. Tra i Guaraní si distinguono tre gruppi: i Kaiowá, i Mbyá e i Ñandeva. Nel Mato Grosso do Sul vivono soprattutto i Guaraní appartenenti ai gruppi Guaraní-Kaiowá e Guaraní- Ñandeva.

[L'autrice] Sabrina Marie Rommerskirchen si è laureata in Diritto europeo e internazionale ("European and International Laws") all'università di Maastricht e si è occupata di diritti umani nell'ambito della specializzazione in giurisprudenza e globalizzazione. Tra il 2007 e il 2008 ha partecipato a un programma di scambio studentesco grazie al quale ha trascorso dodici mesi in Brasile. Ha poi concluso un tirocinio presso l'Ambasciata tedesca a Brasilia e da allora ha iniziato a viaggiare in Brasile anche a titolo personale. Durante il suo praticantato presso l'Associazione per i Popoli Minacciati si è occupata della situazione dei popoli indigeni in Brasile.

Brasile [ su ]

Tutelare gli ecosistemi significa innanzitutto salvare i diritti delle popolazioni indigene

Le coltivazioni di mais, soia e cotone mettono in pericolo 15.300 persone nello stato brasiliano di Mato Grosso do Sul. Appartenenti alla popolazione indigena degli Xavante, rischiano di perdere la loro terra e con essa la loro base esistenziale e la loro identità culturale. Nell'agosto 2014 il giornalista Paul Jay della rete televisiva online Real News Network (RNN) con sede a Baltimora / USA ha intervistato Hiparidi Top'Tiro, presidente dal 1996 dell'associazione indigena Xavante Warã e fondatore nel 2006 della Mobilitazione dei popoli indigeni del Cerrado.

Fino a qui e non oltre! Hiparidi Top'Tiro mostra il confine tra il territorio degli Xavante e le piantagioni di soia. Foto: Gerry Hadden/PRI.org. Fino a qui e non oltre! Hiparidi Top'Tiro mostra il confine tra il territorio degli Xavante e le piantagioni di soia. Foto: Gerry Hadden/PRI.org.

RNN: Per quale motivo ha fondato la Mobilitazione dei popoli indigeni del Cerrado?
Hiparidi Top'Tiro: In Brasile ci sono sei grandi ecosistemi, l'Amazzonia che a livello mondiale è quello di maggiore importanza, il Cerrado, il Caatinga, il Pantanal, le foreste atlantiche e la Pampa (1).
Quattro di questi ecosistemi non godono di alcun tipo di tutela da parte del governo brasiliano. La Mobilitazione dei popoli indigeni del Cerrado è stata fondata per attirare l'attenzione sul fatto che anche il Cerrado deve essere protetto. Nel Cerrado chiunque poteva coltivare soia, cotone o mais con le modalità e nelle quantità che voleva. La legislazione per lo sfruttamento dell'Amazzonia è in confronto molto più severa. Secondo la legislazione brasiliana infatti il 32% dell'Amazzonia e solamente il 22% del Cerrado devono restare intatti. Noi popoli indigeni del Cerrado ci siamo organizzati per mantenere vive le nostre culture. Crediamo che il disboscamento del Cerrado non comporterà solo la scomparsa di animali e uccelli ma anche della nostra spiritualità come popoli indigeni. Tutto è iniziato con una corsa cerimoniale organizzata dall'associazione dei Xavante Warã.
Poi l'associazione dei Xavante ha invitato a un'altra corsa l'associazione dei Krahô, un sottogruppo dei Timbira. E così un po' alla volta siamo diventati sempre di più. Nel Cerrado vivono anche dei Quilombola (2). Abbiamo preso contatto anche con loro. Ci siamo resi conto che più persone riusciamo a unire, popoli indigeni e tradizionali, meglio riusciamo ad attirare l'attenzione sulla necessità di tutelare il Cerrado. Con ogni albero abbattuto i popoli indigeni perdono una parte della loro cultura. I Xerente per esempio hanno già perso tutta la loro conoscenza tradizionale legata all'ambiente, non hanno ricordi. I popoli perdono la loro lingua, la conoscenza dei nomi di piante e animali che non esistono più. Come popoli indigeni dobbiamo lavorare anche con i Quilombola e guadagnare sempre più alleati affinché il governo brasiliano inizi finalmente ad ascoltarci.
La nostra grande sfida è quella di ottenere una legislazione di tutela ambientale per il Cerrado che sia altrettanto vincolante come quella per l'Amazzonia. Finora siamo riusciti ad ottenere che il ministero per l'ambiente abbia creato un centro per il Cerrado. Questo centro però non può essere paragonato al centro per l'Amazzonia poiché quello per il Cerrado non ha nemmeno un portafoglio.

RNN: Quali conseguenze ha l'economia agraria industriale nella vostra terra per la vita quotidiana?
Hiparidi Top'Tiro: La cosa più grave è che i pesticidi usati in agricoltura finiscono per contaminare l'acqua. Inoltre sta scomparendo dalla nostra riserva la selvaggina che abitualmente cacciamo. Gli animali come i tapiri e i pécari (tayassuidae) lasciano la riserva per andare a mangiare nei campi di soia e mais dove trovano cibo in abbondanza e ingrassano velocemente. Se tornano nella nostra riserva la loro carne è molto grassa e questo non fa bene alla salute, in particolare a quella dei nostri bambini. E' anche diventato molto più difficile trovare il materiale necessario alla costruzione dei nostri archi e frecce. Sulla nostra terra non cresce più e siamo costretti a lasciare la riserva e andare a cercarlo in vicinanza delle piantagioni. Ma l'agricoltura si ripercuote anche sulle nostre cerimonie nuziali. Secondo la nostra tradizione durante un matrimonio si regala selvaggina ma ormai dobbiamo andare a cacciare in aree che non ci appartengono più. Questo vale anche per i frutti che nella nostra riserva quasi non crescono e che dobbiamo andare a cercare al di fuori. La nostra terra è diventata troppo piccola per nutrirci e siamo costretti ad abbandonarla per poter mangiare a sufficienza. E' anche diventato difficile trovare il materiale che usiamo per allestire le nostre cerimonie. Per questo ne facciamo molte meno, meno di quanto le nostre tradizioni prevedano. Nella nostra cultura anche i sogni sono molto importanti. Prima di poter ricevere il mio nome, Hiparidi, qualcuno ha dovuto sognarlo. Se non dovesse più esistere il Cerrado con tutti i suoi animali e uccelli che nei nostri sogni ci portano i nomi dal mondo degli spiriti, per noi e la nostra cultura sarebbe un grande danno.

RNN: Come vivono ora le persone? Come organizzano la loro vita?
Hiparidi Top'Tiro: Per tradizione e cultura siamo cacciatori e raccoglitori. Attualmente coltiviamo poco i nostri orti perché l'arrivo di tanti intrusi non-indigeni sta creando molti conflitti. Tutto è iniziato con la "marcia verso occidente" (3) durante la dittatura di Getúlio Vargas. Con Vargas lo stato iniziò a distribuire la nostra terra a persone provenienti da sud, dallo stato federale di Paraná. La nostra gente venne costretta in piccole riserve e i nostri anziani iniziarono a ricevere una piccola pensione affinché smettessero di cacciare. Gli anziani così presero ad avere un atteggiamento passivo nei confronti della vita e iniziarono così tutti i nostri problemi. Ma ciò nonostante tuttora noi continuiamo a cacciare, a pescare e a raccogliere i frutti selvatici. Ci alimentiamo ancora in modo tradizionale, anche se mangiamo molto meno di una volta.

Un'anziana Quilombola. I Quilombola sono i discendenti degli schiavi africani fuggiti che fondavano proprie comunità nascoste. Hiparidi Top'Tiro cerca l'appoggio dei Quilombola per fermare a forze unite la distruzione dell'ecosistema del Cerrado. Foto: Amanda Oliviera/Flickr BY-NC-SA 2.0. Un'anziana Quilombola. I Quilombola sono i discendenti degli schiavi africani fuggiti che fondavano proprie comunità nascoste. Hiparidi Top'Tiro cerca l'appoggio dei Quilombola per fermare a forze unite la distruzione dell'ecosistema del Cerrado. Foto: Amanda Oliviera/Flickr BY-NC-SA 2.0.

RNN: Cosa risponde alle persone che pensano che queste grandi piantagioni siano necessarie per l'alimentazione della popolazione brasiliana ed estera?
Hiparidi Top'Tiro: Non penso che il capitalismo globale debba per forza distruggere i popoli indigeni. Penso che si possa coesistere. Noi però dipendiamo dal fatto di riuscire a mantenere in vita la nostra cultura e abbiamo gli stessi diritti di tutti gli altri. La cosiddetta industria agraria deve anch'essa assumersi le sue responsabilità. Non c'è bisogno che rubino la nostra terra e distruggano la nostra vita e cultura per produrre. Devono accettare che ci sono anche altre persone, altrettanto cittadini brasiliani e che in quanto tali hanno dei diritti.

RNN: Anche all'interno del suo popolo ci sono persone che pensano che l'agricoltura industriale non sia poi tanto male e che ci si può guadagnare?
Hiparidi Top'Tiro: E' illusorio pensare che tutte le cose della vita moderna facilitino la vita, lascino più tempo per il riposo e per pensare alla vita. Alcune persone pensano così e questo crea conflitti interni alla nostra comunità. La maggioranza tra noi però sostiene che per noi sia meglio produrci da soli il nostro cibo. Chiunque preferisca il cibo che ci arriva da fuori la riserva può, se vuole, andare in città e vedere con i propri occhi com'è veramente la vita là.

RNN: Quale dovrebbe essere la politica del governo brasiliano?
Hiparidi Top'Tiro: Vogliamo dal governo che rispetti i popoli indigeni e i nostri diritti come cittadini. Abbiamo lottato per vedere riconosciuti i nostri diritti e averli fissati nella Costituzione del 1988. Chiediamo anche che i rappresentanti politici diano vita a dei programmi efficaci per la tutela delle nostre culture e in particolare per la demarcazione delle nostre terre. Infine chiediamo al governo che emetta delle leggi a tutela ambientale, che rispettino in egual modo tutti gli ecosistemi del nostro paese. Pur essendo l'Amazzonia "il polmone del mondo", tutti gli ecosistemi devono poter godere della stessa protezione. Ci piacerebbe che il governo e i cittadini brasiliani tutti sapessero e fossero orgogliosi del fatto di avere sul territorio 220 popoli indigeni autonomi e che questi parlino 180 lingue diverse. In quale altro posto del mondo c'è tanta ricchezza e diversità?

RNN: Voi state chiedendo al governo di rinunciare alla costruzione di sei grandi centrali idroelettriche e di porre fine ai trasporti navali industriali sui grandi fiumi. Questo comporterebbe una limitazione per l'agrobusiness visto che utilizza l'energia delle centrali e i fiumi come vie di trasporto.
Hiparidi Top'Tiro: Così sostiene il governo. Di fatto, durante il governo Lula (Luiz Inácio Lula da Silva è stato presidente del Brasile dal 2003 al 2011) si sosteneva che i popoli indigeni costituissero un ostacolo allo sviluppo del paese. L'attuale governo del partito dei lavoratori PT (Partido dos Trabalhadores) sostiene lo stesso concetto ma noi crediamo che sia falso. I nostri diritti come cittadini e come appartenenti a un popolo indigeno sono fissati da diverse leggi e dall'articolo 231 della Costituzione. Lo Stato non può semplicemente far finta di niente e farci eliminare per il cosiddetto progresso. Soprattutto se questo progresso non è affatto pensato per tutti ma solamente per una minoranza. Esistiamo anche noi, e ci sono molte persone che dovrebbero poter migliorare con lo sviluppo: popoli indigeni, le comunità degli ex-schiavi, il movimento degli afro-brasiliani, i senza-terra. Io so che nel nostro paese esiste una minoranza preoccupata solo del guadagno e questa minoranza è quella che parla male di noi popoli indigeni. Noi non siamo d'accordo con quanto dicono di noi. Sarebbe d'aiuto se le persone in altri paesi come qui negli Stati Uniti (paese in cui è stata realizzata l'intervista) potessero venire a conoscenza della nostra lotta e dei progetti tramite i quali vogliamo difendere il Cerrado e i suoi abitanti.

La videointervista si trova in portoghese sottotitolata in inglese in: www.intercontinentalcry.org/protecting-amazon-includes-defending-indigenous-rights

[Note]
(1) Il Cerrado è una grande savana tropicale nel Brasile centrale. La Caatinga è la più grande foresta in zona arida del Sudamerica. Gli alberi sembrano secchi per tutto l'anno e rinverdiscono solamente nella stagione delle piogge. Il Pantanal è un'immensa pianura alluvionale, la più grande zona umida del mondo.
(2) I Quilombola sono i discendenti degli schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano prigionieri all'epoca della schiavitù e che andavano a formare comunità autonome di schiavi fuggitivi, i cosiddetti quilombo.
(3) Con la "marcia verso occidente" il presidente Getúlio Vargas annunciò nel 1938 di voler rendere accessibili all'agricoltura grandi appezzamenti di terra nella parte centrale del paese. Getúlio Vargas ha governato il Brasile come dittatore dal 1930 al 1945 e come presidente eletto dal 1950 al 1954.

Etiopia: furto di terre o modernizzazione dell'agricoltura? [ su ]

Scontro tra gli esperti dello sviluppo sugli investimenti in agricoltura

Di Ulrich Delius

Anuak-People /Etiopia. Foto: Julio García/Flickr BY-NC 2.0. Anuak-People /Etiopia. Foto: Julio García/Flickr BY-NC 2.0.

Ciò che per gli uni è uno dei maggiori pericoli per la sopravvivenza dei popoli indigeni per gli altri è un adeguamento necessario alle sfide del 21. secolo. Il dibattito sulle concessioni di terre agricole soprattutto a investitori stranieri è a dir poco animato e raramente le opinioni degli esperti sono state così lontane una dall'altra.

Ciò che a prima vista potrebbe sembrare un arido dibattito teorico, è per milioni di persone al mondo questione di sopravvivenza. Negli scorsi anni circa il 30% delle terre agricole mondiali pari a più di 80 milioni di ettari sono state date in concessione o vendute a grandi investitori. Il giro d'affari è notevole. Per i concessionari/venditori delle terre agricole, perlopiù stati nazionali, l'operazione ha comportato introiti per complessivamente 100 miliardi di dollari americani. La questione del controllo delle terre si configura sempre più come una questione di politica internazionale. I prezzi dei prodotti alimentari crescono e cresce anche la popolazione mondiale. I governi di molti paesi del mondo sono già in competizione tra loro per assicurarsi terreni agricoli a buon prezzo su cui produrre alimenti, piante per la produzione energetica o mangimi. Per molti esperti è solo questione di tempo finché esploderanno nuovi conflitti generati dal controllo dei terreni agricoli.

Etiopia - "luogo del reato"
In Etiopia gli investimenti agricoli internazionali contribuiscono a creare tassi di crescita a doppia cifra. Sono valori che i politici europei possono solo sognare. Per ottenere questi tassi, il governo etiope offre agli investitori stranieri aree agricole grandi quanto l'Olanda, il Belgio e il Lussemburgo messi insieme. I governi etiopi giustificano la scelta di concedere enormi appezzamenti del loro territorio con la necessità di modernizzare la propria agricoltura. Ma se questa scelta sembra beneficiare le casse dello stato altrettanto non si può dire per i bilanci familiari dei piccoli contadini e agricoltori. In Etiopia circa l'80% della popolazione vive ancora nelle aree rurali di un'agricoltura di sussistenza.

Gli investitori stranieri prediligono terreni situati nei bassipiani dov'è più semplice utilizzare grandi macchinari. I posti di lavoro creati per i contadini rimasti senza terra sono pochissimi poiché la popolazione locale in genere non possiede le qualifiche necessarie richieste. Nei pochi casi in cui i contadini locali trovano invece un nuovo impiego, i salari non bastano a coprire il fabbisogno familiare e le famiglie colpite si trovano ad essere più povere di prima. Le istituzioni e gli investitori promettono alla popolazione nuove strutture e servizi e il miglioramento del loro standard di vita ma le strutture realizzate coprono prevalentemente i bisogni degli investitori stessi e non tengono conto dei reali bisogni della popolazione. Mentre gli investitori costruiscono nuove strade per il trasporto dei loro prodotti, le autorità distruggono i villaggi situati sulle terre date in concessione e la popolazione viene forzatamente dislocata in nuovi villaggi con la promessa che presto questi villaggi saranno dotati di posti medici e scuole. Ciò che viene taciuto è che spesso i vecchi villaggi distrutti già avevano scuole, piccoli ospedali, e altre infrastrutture. Più che al reale miglioramento delle condizioni di vita della sua popolazione rurale, la presunta modernizzazione dell'agricoltura etiope sembra mirare all'allargamento del suo mercato d'esportazione. L'Etiopia punta al superamento dell'attuale agricoltura in gran parte di sussistenza per profilarsi come esportatore di riso, mais, cotone, olio di palma e di altri prodotti agrari.

A breve termine questa strategia migliora il bilancio delle esportazioni e di conseguenza il bilancio commerciale dello stato ma restano i molti dubbi sugli effettivi vantaggi economici a lungo termine.

Da un lato lo stato etiope concede gli appezzamenti in affitto a prezzi veramente stracciati di circa 1 euro per ettaro e anno per un lasso di tempo che va dai 70 agli 80 anni. Raramente i contratti d'affitto sono trasparenti, la popolazione colpita da dislocamento forzato non riceve alcuna informazione sulle condizioni d'affitto né sui diritti e doveri fissati per contratto degli investitori. Accade poi relativamente spesso che gli investitori non mantengano le promesse fatte e lascino la terra incolta. Grazie ai prezzi così bassi, essi possono infatti sospendere la produzione agricola in attesa di momenti congiunturali migliori. Quando i terreni vengono invece coltivati, il passaggio da un'agricoltura di sussistenza a coltivazioni intensive e monoculture rischia da un lato di impoverire velocemente i terreni e dall'altro comporta un consumo di acqua elevatissimo e eccessivo per una regione che già oggi soffre la siccità e le difficili condizioni climatiche. Per molti esperti di agricoltura i terreni non sono adatti alla coltivazione intensiva e questo finirà per degradare irrimediabilmente la terra. L'erosione e il disboscamento inoltre si riflettono negativamente sul cambiamento climatico e contribuiscono a una diminuzione delle precipitazioni.

Da diversi anni l'Etiopia così come anche gli altri paesi del Corno d'Africa subiscono le conseguenze sempre più incisive del cambiamento climatico. L'aumento delle temperature e la diminuzione delle piogge hanno considerevolmente accorciato gli intervalli tra una siccità e l'altra e quindi anche tra una carestia e l'altra. Questa già difficile situazione viene aggravata sia dal progressivo disboscamento per creare nuovi terreni da dare in concessione sia dall'enorme aumento del consumo di acqua causato dall'agricoltura intensiva e dall'aumento esponenziale delle aree coltivate.

Per reperire le grandi quantità d'acqua necessarie alle nuove piantagioni l'Etiopia progetta e costruisce nuove dighe. Queste però causano ulteriori problemi. Ancora una volta la popolazione che vive nelle aree destinate alle dighe e ai loro bacini idrici subisce il dislocamento forzato, i terreni che prima davano da mangiare ai contadini che vi vivevano finiscono sott'acqua, l'equilibrio idrico dell'intera regione viene sconvolto e la popolazione ancora una volta risulta essere il grande perdente di questa politica di sviluppo. Alla ricerca di acqua vengono anche scavati nuovi pozzi sempre più profondi che a loro volta riducono pericolosamente lo specchio freatico.

L'enorme consumo di acqua delle nuove piantagioni
L'Etiopia oggi ha una popolazione di quasi 95 milioni di persone ma con un tasso di crescita annuo del 3% circa si stima che nel 2020 gli Etiopi saranno 110 milioni. La locazione di terre fertili sempre più estese ha già iniziato a creare problemi all'approvvigionamento alimentare della popolazione, e di certo la situazione non può migliorare con una popolazione in crescita e nuovi terreni destinati a investitori stranieri.

Per una regione che da sempre è caratterizzata da condizioni climatiche instabili, la locazione dei terreni, la conseguente coltivazione intensiva e l'enorme consumo d'acqua che questa richiede, si ripercuotono ulteriormente sul clima e intensificano le conseguenze negative del cambiamento climatico.

Sfide globali per il futuro
L'Etiopia è solamente uno dei molti esempi per il furto di terre in tutto il mondo. La critica maggiore degli esperti di sviluppo a questo sistema è la generale mancanza di sostenibilità dei progetti. Gli investitori non sono interessati a un'agricoltura sostenibile che rispetta i terreni e l'ambiente, né sono interessati alla tutela e al miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali che fino a quel momento avevano lavorato generazione dopo generazione la terra. I grandi investitori di fatto sono interessati alla massimizzazione del profitto e al rendimento a breve termine. La terra spesso non viene nemmeno lavorata ma viene acquisita unicamente per speculazione, nell'attesa di poterla rivendere in futuro con il massimo profitto possibile.

Tutto ciò è inconcepibile per la maggior parte delle popolazioni indigene. La terra è nella loro cultura non una merce vendibile a piacimento, ma il luogo in cui sono sepolti gli avi e la garanzia di sopravvivenza delle future generazioni. Si tratta quindi di rispettare la terra e far sì che anche in futuro possa essere coltivata e continui a dare i suoi frutti.

Si tratta di due concezioni di terra talmente diverse tra di loro che non stupisce la mancanza di dialogo costruttivo tra grandi investitori e popoli indigeni.

I popoli nativi in tutto il mondo chiedono infatti rispetto per la loro terra tradizionale e accusano autorità, governi e investitori di ignorare che la loro terra non è, come dicono, "senza padrone", ma che da generazioni viene coltivata, curata e usata proprio dai popoli che da millenni vi vivono. Per i popoli nativi non si tratta solamente di considerazioni economiche. Vi è una stretta connessione tra la terra e il senso di appartenenza, di cultura e tradizioni e di coesione sociale. Finché i governi, gli investitori e i cosiddetti esperti di cooperazione non sono disposti a prendere sul serio la visione dei popoli nativi e a ragionare in termini di sostenibilità a lungo termine non vi sarà soluzione al problema del "landgrabbing", del moderno furto di terre.

Mali [ su ]

Dove terra e acqua sono preziose

Di Mascha Brammer

Il fiume Niger è una delle principali vene d'acqua e di vita dell'Africa. Lungo il fiume si concentra molta dell'agricoltura dei paesi che il fiume attraversa, e in particolare del Mali. All'incirca la metà del territorio del paese è coperta dal deserto del Sahara e solo una esigua parte è adatta all'agricoltura e all'allevamento di bestiame. L'economia del Mali è fortemente caratterizzata dai piccoli coltivatori e allevatori. Circa il 70% della popolazione lavora in questo settore.

Giornata di mercato in Mali. Foto: Alexbip/Flickr BY-NC-ND 2.0. Giornata di mercato in Mali. Foto: Alexbip/Flickr BY-NC-ND 2.0.

La desertificazione, la costruzione di miniere, di impianti per l'irrigazione e di dighe che hanno distrutto il naturale sistema d'irrigazione hanno innescato una lotta per i pochi e preziosi terreni fertili del delta interno del Niger. La riduzione dei terreni ad utilizzo agricolo riduce anche la sicurezza alimentare nel paese. A ciò si aggiunge l'aumento delle concessioni di appezzamenti di terreno fertili a grandi investitori stranieri.

La terra appartiene ufficialmente allo stato ma di fatto viene tradizionalmente passata in eredità all'interno dei villaggi e delle famiglie e viene considerata proprietà comune. Nel 2006 il governo del Mali ha ufficialmente riconosciuto e fissato legalmente questa tradizione. Ciò non di meno, lo stato può espropriare terreni per "interesse statale" e dietro il pagamento di un indennizzo. In molti casi però l'indennizzo non arriva.

L'agenzia "Office du Niger" fu istituita nel 1932 con il compito di gestire i terreni agricoli situati tra la città di Ségou e la frontiera con la Mauritania. Nel 1994 l'agenzia passò sotto il controllo del Ministero per l'agricoltura e nel 2009 sotto la competenza diretta di un segretario di stato del primo ministro. L'Office du Niger dovrebbe concedere terreni in locazione a piccoli coltivatori, vendere acqua, gestire la produzione di riso e in questo modo assicurarsi della sufficiente produzione di cibo nel e per il paese. Molti coltivatori lamentano però la mancanza di trasparenza nel lavoro dell'Office du Niger, in particolare per quanto riguarda le concessioni ai grandi investitori stranieri. L'Office du Niger è infatti un importante promotore degli investimenti terrieri stranieri, o, altrimenti detto, del furto di terre da parte dei grandi investitori a danno dei piccoli coltivatori e delle comunità locali.

Spesso infatti la terra viene espropriata senza il pagamento di alcun indennizzo, a volte i piccoli coltivatori che lavorano terre cadute nel mirino di imprese straniere vengono accusati di trovarvisi illegalmente e vengono cacciati, e le concessioni non tengono conto dello spazio e dei bisogni dei villaggi dividendo e distruggendo comunità tradizionali situate sui terreni dati in concessione.

Da quando sono state attuate le riforme economiche liberali chieste dalla Banca Mondiale già negli anni '80, il governo e le istituzioni pubbliche cercano di facilitare gli investimenti stranieri. Se questa politica da un lato migliora il clima per i grandi investitori, dall'altro produce effetti negativi per i piccoli coltivatori e allevatori. In seguito alle molte carestie, l'ex primo ministro Modibo Sidibé ha dato vita all'"iniziativa riso".

Con l'iniziativa riso la produzione agricola si è concentrata sulla produzione di riso a scapito di molte delle varietà di verdura e grano coltivate prima. Contemporaneamente è stata proibita l'esportazione di riso ma permessa l'importazione. Così da un lato si è impoverita la dieta della popolazione e dall'altro le importazioni di riso hanno fatto sì che il prezzo del riso locale scendesse talmente tanto che molti coltivatori non erano più gin rado di permettersi l'acquisto dell'acqua necessaria a irrigare le risaie. Nel 2010 il governo del Mali ha quindi ritirato la proibizione all'esportazione di riso.

Parte della terra gestita dall'agenzia governativa Office du Niger si sovrappone al territorio Tuareg nel nord del Mali. I Tuareg sono tradizionalmente allevatori di bestiame e come tali contribuiscono alla sicurezza alimentare del paese, tanto più che molti di loro hanno abbandonato la vita nomade e sono diventati sedentari. Ciò nonostante e proprio come i piccoli coltivatori, anche i Tuareg subiscono l'ingerenza dei grandi investitori. Da sempre discriminati dalle istituzioni pubbliche, i Tuareg vengono cacciati dai loro insediamenti per far posto a piantagioni di monoculture e a miniere di uranio. Il dislocamento forzato dei Tuareg, le costanti discriminazioni, l'inquinamento ambientale creato da piantagioni e miniere e il generale malcontento hanno ripetutamente portato a gravi conflitti i Tuareg e il governo del Mali, e in alcuni casi hanno favorito l'affiliazione di gruppi di Tuareg a gruppi estremisti come Al-Qaeda.

Il maggiore accordo finora siglato dall'Office du Niger è quello relativo al progetto "Malibya". Siglato nel 2008 con la società di investimenti libica "Libya Africa Investment Portfolio" (LAP), l'accordo prevede che la LAP possa utilizzare nei prossimi 50 anni 100.000 ettari di terreno per coltivazioni di riso e pomodori e l'allevamento di bestiame. Inoltre la LAP avrà una disponibilità illimitata di acqua al costo di annualmente 5 US$ a ettaro. Per facilitare l'afflusso di acqua e il trasporto verranno costruiti un canale lungo 40 km e una strada altrettanto lunga.

I progetti come "Malibya" costituiscono la ragione centrale per la locazione di grandi terreni a investitori stranieri. L'associazione dei coltivatori del Mali Sexagon è contraria al mega-progetto. Il loro timore è che il riso coltivato nell'area concessa al LAP sia destinato all'esportazione e che i piccoli coltivatori dislocati dai loro terreni per far posto al progetto Malibya non abbiamo più di che nutrire la propria famiglia. I coltivatori del luogo infatti non sono stati coinvolti né nella progettazione né tanto meno nella realizzazione del progetto. I coltivatori non hanno ricevuto alcun risarcimento né sanno se potranno lavorare come braccianti nelle terre che fino a ieri essi stessi coltivavano. I lavori per le infrastrutture legate al progetto Malibya hanno finora colpito 150 famiglie.

Fino al 2012 l'Office du Niger ha ufficialmente dato in locazione 540.000 ettari di terreno, principalmente a investitori cinesi, statunitensi, francesi e britannici. Secondo indiscrezioni ufficiose l'Office pianifica la locazione di complessivamente 820.000 ettari di terreno agricolo.

La politica liberale intrapresa dal Mali lascia aperte molte domande: chi guadagna veramente con i contratti di locazione terriera? Quali conseguenze avrà l'utilizzo illimitato di acqua per il sistema fluviale del Niger? Quali saranno le conseguenze per i piccoli coltivatori dislocati? La sicurezza alimentare del paese sarà veramente garantita grazie a questi mega-progetti? E da un punto di vista legale: a chi appartiene veramente la terra in cui si insediano i grandi investitori stranieri? I piccoli coltivatori chiedono di essere risarciti per la perdita di terreno ma troppo spesso questi risarcimenti non arrivano.

In Mali non è solo la terra a esser rubata ma anche l'acqua. Il delta interno del Niger dipende dalla periodiche inondazioni estive ma grazie al progetto Malibya le multinazionali ora potranno prelevare illimitatamente le acque del fiume prima che raggiunga il delta interno. L'unica limitazione posta dal governo è il divieto di coltivare tra gennaio e maggio piante che necessitano di molta acqua. Il rischio che i massicci prelievi di acqua ad opera dei grandi investitori stranieri finiscano per lasciare a secco i piccoli coltivatori e la popolazione ma anche il fiume è un rischio reale.

Riso [ su ]

L'oro bianco dell'Asia

Di Rainer Feldbacher, Martina Haselböck

In molte culture il riso è simbolo di vita e fertilità. L'uso diffuso di lanciare riso ai novelli sposi probabilmente arriva dalla Cina e simboleggia l'augurio di figli e fortuna. Lo Yunnan è sicuramente una delle regioni con la maggiore biodiversità della Cina. Qui, lungo le ripidi pendici del fiume Saluen, i contadini hanno creato migliaia di terrazze su cui coltivano il riso.

1.300 anni fa le comunità delle regioni montane vicine al Fiume Rosso hanno creato migliaia di terrazze coltivate a riso. Oggi questo paesaggio fa parte del Patrimonio Culturale dell'Umanità. Foto: R. Feldbacher, M. Haselböck. 1.300 anni fa le comunità delle regioni montane vicine al Fiume Rosso hanno creato migliaia di terrazze coltivate a riso. Oggi questo paesaggio fa parte del Patrimonio Culturale dell'Umanità. Foto: R. Feldbacher, M. Haselböck.

Nella coltivazione del riso l'acqua riveste particolare importanza. Qui nello Yunnan proviene da sorgenti di montagna così come dai grandi fiumi che attraversano la regione. Per lo Yunnan passano infatti tre dei maggiori fiumi della regione, come il Saluen che finisce il suo corso in Birmania e sfocia nell'Oceano Indiano, il Mekong che nasce in Tibet e dopo aver attraversato lo Yunnan, scorre lungo i confini di Laos, Birmania e Thailandia, entra finalmente in Cambogia per terminare il suo viaggio in Vietnam e sfociare nel Mar Cinese Meridionale, e ancora il Yangtze, detto anche il Fiume Azzurro che dopo aver attraversato ampie parti della Cina sfocia a Shanghai nel Mar Cinese Orientale. E' grazie a questi fiumi che molti paesi asiatici possono vantare una grande diversità culturale e naturale e che il riso detenga un ruolo così centrale in tutte queste culture.

Molto prima dei Cinesi Han, lo Yunnan è stato popolato e abitato da più di 250 diversi gruppi etnici con le loro lingue e dialetti, usi e costumi. Oggi questi gruppi vengono riconosciuti politicamente come 25 nazionalità diverse.

Diversità etnica nel cuore della Cina
La sinizzazione dello Yunnan è stata accelerata requisendo le terre più fertili ai proprietari originari e assegnandole ai cinesi Han. I proprietari originari diventavano braccianti dei nuovi proprietari oppure cercavano nuovi spazi di vita a nord, nelle regioni montane difficili da coltivare, oppure a sud, nelle vallate infestate da malattie tropicali. Le relazioni intrattenute dalle autorità del Regno di mezzo con i diversi gruppi etnici rispondeva a una regola molto semplice: chiunque non apparteneva alla maggioranza culturale era considerato barbaro. Protestare significava andare in cerca di guai seri. Il concetto della superiorità di un gruppo etnico fu almeno in teoria superato dall'avvento del comunismo che considerava "tutti uguali". Tutti avrebbero dovuto partecipare allo sviluppo economico e sociale del paese. Nel corso di cosiddette "rilevazioni etniche" e per motivi di semplificazione molti piccoli gruppi etnici, contro la loro volontà, furono accorpati a gruppi più grandi, senza alcuna attenzione per le diversità linguistiche e culturali. La diversità etnica di fatto non venne riconosciuta e per tutti continuano a valere i valori propri dell'etnia Han. Chi nel paese vuole ottenere qualcosa deve seguire lo stile di vita Han.

Per molto tempo il governo centrale di Pechino ha trascurato le province occidentali a favore dello sviluppo economico delle regioni costiere orientali. Forse è questo il motivo per cui nelle città occidentali continua a esistere un crogiolo di etnie e popoli diversi. Le diversità culturali diventano particolarmente evidenti nei giorni di mercato quando gli abitanti dei villaggi circostanti raggiungono le città. Gli abiti tradizionali, le lingue e i dialetti svelano la provenienza di ognuno. Vi si trovano gli Hani con i loro copricapo neri, i Lisu che decorano le loro acconciature con perle rosse, i Miao con le ghette a fascia, gli Yi con i loro particolarissimi copricapo o ancora i Naxi che ancora parlano la propria lingua e usano la propria scrittura. Certo, il processo di assimilazione è già iniziato e non si fermerà, ma nei giorni di mercato e grazie alle persone dei molti villaggi l'antico e variegato Yunnan sembra riprendere nuova vita.

Lo Yunnan non ospita solamente moltissime culture ma è anche la regione con la maggiore biodiversità della Cina. Nello Yunnan troviamo ancora animali come il leopardo delle nevi, le scimmie dal naso camuso e il piccolo panda, ma l'aumento della popolazione e la trasformazione dell'habitat in terre coltivate e aree residenziali costituiscono una minaccia crescente per la sopravvivenza delle molte specie animali e vegetali della regione.

Si continua ad arare in modo tradizionale poiché è praticamente impossibile trasportare qui i pesanti macchinari moderni che comunque non sono adatti alle condizioni ambientali. Foto: R. Feldbacher, M. Haselböck. Si continua ad arare in modo tradizionale poiché è praticamente impossibile trasportare qui i pesanti macchinari moderni che comunque non sono adatti alle condizioni ambientali. Foto: R. Feldbacher, M. Haselböck.

La coltivazione del riso lungo le pendici dell'Himalaya
Una miriade di terrazze permette la coltivazione del riso lungo le pendici dell'Himalaya. Il carico di lavoro è enorme tant'è che si lavora sempre in comunità. A partire dalla Rivoluzione Culturale lo stato ha sostenuto la formazione di cooperative agricole con cui aumentare la produzione, ma per le comunità locali il lavoro cooperativo non costituiva certo una novità. Quali sono i vari passaggi per la coltivazione del riso? Innanzitutto bisogna preparare la semina. I chicchi di riso vanno lasciati in acqua diversi giorni per poi essere trasferiti in terra calda finché non germogliano. Nel frattempo viene arato il terreno della futura risaia e grazie a degli appositi canali il campo viene inondato d'acqua. Poi i piccoli germogli vengono trasferiti dalla terra alla risaia. D'ora in avanti bisogna tenere sotto controllo il livello dell'acqua. Non dovrà mai essere troppo basso per evitare che le nuove piante si secchino ma nemmeno devono marcire per la troppa acqua.

Ogni chilo di riso necessita di circa 5.000 litri di acqua corrente. E' importante anche controllare la velocità con cui far scorrere l'acqua nella risaia. Se l'acqua scorre troppo veloce si porterà via parte del terreno e delle piantine, ma se scorre troppo lentamente c'è il rischio che si formino delle alghe che andrebbero a soffocare le piantine di riso. Dopo mesi di costante irrigazione arriva il periodo della maturazione delle piante e del raccolto. Il riso a questo punto deve essere trebbiato, essiccato e sbramato.

L'alto consumo di acqua nella coltivazione del riso ha indotto il governo centrale a proibirne la coltivazione nei bassipiani come ad esempio nei pressi di Pechino per non intaccare lo specchio freatico.

Il riso e il suo significato
Il riso è l'alimento principale di metà della popolazione mondiale. La variante integrale è quella con il maggiore valore nutritivo, ma anche in questo caso i chicchi vengono puliti e sbramati. Quel che avanza dopo la lavorazione viene usato come alimento per animali, la produzione di cappelli e di scarpe. Le glumelle del riso vengono utilizzate anche per riempire materassi e come materiale da imballaggio. Grazie alla distillazione del riso si ottengono il vino di riso e la grappa di riso.

Non c'è quindi da stupirsi se in Asia il riso gode di tanta considerazione e sia associato a molteplici usi. In alcune lingue e dialetti "mangiare" e "riso" sono la stessa parola, ma il riso simboleggia anche concetti fondamentali quali la vita e la morte. Due bacchette incrociate su un mucchietto di riso indicano la morte e in quasi tutte le cerimonie vengono preparate delle ciotole di riso per gli antenati e gli avi che, secondo l'immaginario religioso, sono presenti e partecipano alla cerimonia. In questo modo il riso, onnipresente nella quotidianità, unisce passato, presente e futuro. E così, un augurio cinese per l'anno nuovo recita "che il tuo riso non si bruci mai".

Articolo tratto da Lebenszeichen 2014 - calendario dell'APM Austria

Sale [ su ]

Da millenni elixir di vita

Di Fred Lange

E' difficile sentire parlare pubblicamente di sale, eppure il sale riveste fin dall'antichità grande importanza e continua ad averne ancora oggi. La produzione mondiale di sale è di circa 200 milioni di tonnellate annue, di cui 50 milioni di tonnellate vengono prodotte dagli USA come maggiore produttore di sale al mondo, seguiti dalla Cina con poco meno di 30 milioni di tonnellate. Il maggiore acquirente di sale è l'industria chimica cinese, poi troviamo l'uso di sale antigelo mentre il sale per uso alimentare costituisce solo una minima parte del consumo totale di sale.

Il sale del deserto di Danakil è la più importante fonte di reddito dei nomadi Afar. Foto: Fred Lange, www.salzreisen.de. Il sale del deserto di Danakil è la più importante fonte di reddito dei nomadi Afar. Foto: Fred Lange, www.salzreisen.de.

Il sale - un minerale fondamentale
L'uomo ha bisogno di sale per trasmettere segnali sensoriali e motori lungo il sistema nervoso. Una deficienza cronica di sale può essere pericolosa per la salute. Nelle regioni povere di sale l'uomo ha da sempre coperto il suo fabbisogno consumando prodotti animali, come facevano ad esempio i nomadi dei deserti dell'Arabia meridionale e della Siberia settentrionale, gli Inuit della Groenlandia o gli Indiani del Nordamerica. Nonostante non conoscessero il sale, essi non ne soffrivano la mancanza grazie alla loro dieta di carne e sangue animale.

In Asia centrale si diffuse e affermò l'abitudine di salare il tè. Anche in Tibet il tè salato e mescolato con burro contribuisce a fornire le sostanze necessarie per poter sopravvivere sul "tetto del mondo". Per il tè salato tibetano bisogna prima sbriciolare il tè pressato in blocchi simili a dei mattoncini, questo viene poi immerso nell'acqua bollente e infine il tutto viene mescolato con sale e burro. Alla fine si aggiunge un pizzico della famosa tsampa (un dado di farina di orzo) e la bevanda è pronta. Molti Tibetani ne bevono fino a 40 tazze al giorno!

Il sale e il potere
Fin dai tempi antichi sovrani e stati nazionali hanno sempre tentato di controllare il commercio del sale. Chi controllava il sale poteva imporre forti tasse e manipolare i prezzi.

All'inizio del 20. secolo il sale era troppo caro per la maggior parte della popolazione indiana. L'India era infatti una colonia inglese e l'oro bianco era controllato dalla Gran Bretagna. Dal 12 marzo al 5 aprile 1930 migliaia di persone marciarono con il Mahatma Gandhi per 320 km con lo scopo di raccogliere un pugno di sale nelle saline del Gujarat per protestare contro la tassa sul sale imposto dal governo imperiale e rivendicare simbolicamente la proprietà di questa risorsa al popolo indiano. Di fatto, la cosiddetta marcia del sale segnò l'inizio della fine del dominio britannico in India.

Dallol, Danakil, Etiopia: le sorgenti calde espellono sale dal terreno i cui depositi formano paesaggi eccezionali. Foto: Fred Lange, www.salzreisen.de. Dallol, Danakil, Etiopia: le sorgenti calde espellono sale dal terreno i cui depositi formano paesaggi eccezionali. Foto: Fred Lange, www.salzreisen.de.

Il sale del deserto - l'estrazione del sale in Etiopia
Se esistesse una classifica delle regioni più inospitali al mondo, il deserto dei Dancali (Danakil) nell'Etiopia nord-orientale occuperebbe senz'altro uno dei primi posti. Il deserto dei Dancali è un deserto di pietre, vulcani, fonti di acqua calda e laghi di sale. Nella terra degli Afar la temperatura può salire oltre i 50° all'ombra, ma l'ombra è veramente rara. E' qui che si trova il sale del deserto. Situato a oltre 100 m sotto il livello del mare, il deserto dei Dancali nel corso della sua storia è stato più volte inondato dal Mar Rosso, l'ultima volta circa 10.000 anni fa. Evaporata l'acqua è rimasto uno strato di sale spesso qualche centinaio di metri.

Già alle prime luci dell'alba i lavoratori si dirigono verso le saline attorno al lago di Assal. Là estraggono il sale usando una tecnica che nel corso dei secoli è perlopiù rimasta invariata. Dei bastoni appuntiti vengono battuti nelle scanalature naturali della crosta di sale e facendo leva vengono estratti dei blocchi lunghi qualche metro. Con un'ascia questi blocchi vengono ridotti a lastre di circa 12 chili ognuno. Dall'alba fino al calare del buio con solo due interruzioni per il pranzo e per una pausa tè, i lavoratori continuano a colpire con le loro asce i blocchi di sale in un ritmo sempre uguale che sembra il battere monotono di un tamburo. Guardando lavorare questi uomini con la pelle corrosa dal sale, ci si chiede come facciano a sopportare la fatica e soprattutto a non crollare per disidratazione. Il loro bene più prezioso è contenuto in sacche di pelle di capra. Le mani rovinate dal lavoro e dal sale afferrano con delicatezza le sacche da cui gli uomini bevono l'acqua fresca proveniente dalle oasi del deserto senza sprecarne nemmeno una goccia. In lontananza si intravedono - quasi fossero una fata morgana - dei piccoli punti in movimento. Dopo un po' si riconoscono i cammelli di una carovana lunga quasi due chilometri. Gli animali carichi di provviste e legna da ardere condotti da uomini con le facce stanche si avvicinano lenti alla salina.

Scaricati i cammelli inizia il lavoro più difficile dei carovanieri. Le tavole di sale devono essere caricate in modo uniforme sui cammelli in modo da distribuire bene il peso e non affaticare inutilmente gli animali. Ogni cammello porta in media fino a 20 lastre di sale. Nel pomeriggio i circa 1.000 cammelli della carovana sono carichi di sale che dopo sette giorni di marcia attraverso il deserto viene venduto al mercato del sale. I cammelli carichi non possono fermarsi più di tanto, altrimenti non resistono alla fatica. Ogni cammelliere guida i suoi cammelli canticchiando una sua precisa melodia. Si ha la sensazione che animali e uomini possano continuare a camminare così all'infinito, per settimane, e fermarsi solo con la fine della melodia.

Articolo tratto da Lebenszeichen 2014 - calendario dell'APM Austria

Territori occupati palestinesi [ su ]

La filosofia di vita della famiglia Nassar

Di Konstantin Udert

La mattina del 19 maggio 2014 Tony Nassar riceve una terribile telefonata che lo informa che circa un quarto delle terre della sua famiglia sarebbe appena stata distrutta. Dei bulldozer israeliani avrebbero sradicato 1.500 alberi da frutto pronti per la raccolta e avrebbero spianato i circa 10 ettari di campi a terrazza su cui crescevano gli alberi.

Campo estivo di giovani presso la Tent of Nation/Territori palestinesi occupati. Foto: Konstantin Udert. Campo estivo di giovani presso la Tent of Nation/Territori palestinesi occupati. Foto: Konstantin Udert.

Il vicedirettore di scuola di Betlemme/Cisgiordania non perde tempo e insieme a familiari e osservatori internazionali va a ispezionare i danni . Quello che trovano sono macerie. Laddove in decenni di lavoro la famiglia Nassar aveva fatto crescere e fiorire gli alberi da frutto ora ci sono detriti, sassi, terra marrone e tracce di cingolati. Tony Nassar è il primo a riprendersi dalla rabbia, la frustrazione e la tristezza che assale i presenti. "Se abbattono i nostri alberi, noi ne pianteremo di nuovi", dice, "loro hanno i bulldozer ma noi abbiamo la speranza e la fede in una pace giusta".

I testimoni oculari raccontano dei veicoli militari israeliani che verso le sette di mattino sono apparsi sulla stradina di accesso al terreno dei Nassar. Poi sarebbero arrivati tre bulldozer che in meno di due ore hanno sradicato e sotterrato tutti gli alberi da frutto.

Ma perché qualcuno distrugge 1.500 alberi da frutto prossimi al raccolto? E da dove viene l'ottimismo di Tony Nassar? Le risposte rispecchiano alcuni aspetti ricorrenti e quasi esemplari del conflitto israelo-palestinese.

La questione attorno agli alberi della famiglia Nassar nasce nel 1916 quando Daher Nassar acquistò questo terreno di 42 ettari a sud di Betlemme. All'epoca una stretta di mano valeva più di ogni documento ma Daher Nassar era prudente e fece iscrivere il suo nuovo terreno nel registro fondiario. Quando la regione passò sotto il mandato britannico, Daher Nassar chiese la conferma ufficiale della sua registrazione, e così fece a ogni cambio della potenza occupante. In questo modo la famiglia Nassar ha potuto documentare e far valere il proprio titolo di proprietà anche di fronte alle autorità israeliane. La lungimiranza di Daher Nassar ha determinato la sorte dei suoi discendenti. Tutti i vicini della famiglia Nassar sono stati espropriati già decenni fa a causa di una documentazione lacunosa o mancante.

Il terreno della famiglia Nassar, la cosiddetta "vigna di Daher" è però molto richiesto. Fin dagli anni 1970, la proprietà dei Nassar è circondata da colonie israeliane che da anni vorrebbero espandersi sul terreno dei Nassar. A partire dal 1991 la famiglia è costantemente coinvolta in qualche procedimento giudiziario in cui deve dimostrare di essere la proprietaria legale del terreno. Le forze armate israeliane hanno ripetutamente dichiarato la terra dei Nassar come "terra statale", e ogni volta la famiglia Nassar si trova a dover ricorrere in giudizio e a dover dimostrare in tribunale il suo diritto a quella terra. Secondo Tony, in quasi 15 anni di processi la sua famiglia ha speso circa 100.000 euro tra carte, bolli e avvocati. Tony racconta anche di chi gli ha offerto un assegno in bianco per la sua terra ma né lui né la sua famiglia sono disposti a vendere. La terra, dicono, è eredità dei loro avi, è il loro futuro ed è la loro speranza per una pace giusta.

La confisca di terre private dichiarandole "proprietà statale" o "zona di interesse militare" è la procedura usuale con cui anche i vicini di Nassar hanno perso la loro terra e casa. Impossibilitati a dimostrare davanti a un giudice i loro diritti di proprietà, essi sono stati costretti a rinunciare alla battaglia legale per gli alti costi che questa implicava. Una volta confiscata, la loro terra è stata venduta dallo stato israeliano a nuovi coloni ed è servita per allargare le cosiddette colonie nei territori occupati, in aperta violazione del diritto internazionale.

Un membro della famiglia Nassar al lavoro. Foto: Melody Nelson/Flickr BY-NC-SA 2.0. Un membro della famiglia Nassar al lavoro. Foto: Melody Nelson/Flickr BY-NC-SA 2.0.

Per le autorità israeliane i Nassar sono una spina nel fianco. Finora non solo sono riusciti a impedire con mezzi legali l'espansione delle colonie ma sul loro terreno hanno anche istituito il progetto Tent of Nations (Tenda delle Nazioni). Il progetto Tent of Nations è gestito da Daoud Nassar, fratello di Tony, ed è diventato un luogo di resistenza non violenta all'occupazione militare israeliana. Dal 2000 la Tenda delle Nazioni ospita regolarmente giornate e attività di dialogo interculturale e interreligioso. Inoltre offre corsi di formazione a donne e adolescenti palestinesi. L'intero progetto funziona secondo lo slogan "ci rifiutiamo di essere nemici" e attira numerosi visitatori da tutto il mondo. Con il tempo la "vigna di Daher" è diventata un luogo importante e altamente simbolico, non solo per la famiglia Nassar. In particolare per la popolazione palestinese dell'area, la Tenda delle Nazioni assolve diverse importanti funzioni:
- per i bambini e adolescenti di Betlemme la Tenda delle nazioni è l'unico luogo dove possono imparare qualcosa sull'ambiente a sulla protezione dell'ambiente. Quasi tutte le aree incolte e ancora in stato naturale in Cisgiordania sono infatti sotto il controllo di Israele e quindi perlopiù inaccessibili alla popolazione palestinese;
- poco sotto il terreno dei Nassar si trova il villaggio di Nahalin con i suoi circa 7.000 abitanti. Se le autorità dovessero decidere di unire tra loro le colonie circostanti e a questo scopo abbattere la Tent of Nations, è prevedibile che - come in passato - torni ad aumentare la repressione militare contro gli abitanti di Nahalin rendendo loro impossibile vivere una quotidianità normale.

Attualmente però è la famiglia Nassar a subire le intimidazioni delle autorità. Oltre alle ricorrenti dichiarazioni della loro proprietà come "terra statale" i Nassar hanno ricevuto ordini di demolizione per le tende, le stalle, le toilette compostanti, l'impianto a energia solare, le cisterne di raccolta dell'acqua e le piccole caverne scavate nella pietra. Tende, caverne, impianto solare, cisterne dell'acqua e toilette compostanti erano stati eretti e costruiti dai Nassar per ovviare ai rifiuti delle autorità ad allacciare la loro proprietà alla rete idrica e energetica e a concedere loro il permesso per la costruzione di strutture fisse. E così, senza volerlo, la Tent of Nation assolve anche alla funzione di mostrare ai visitatori stranieri come si traduce nella quotidianità il vivere sotto occupazione. I visitatori stessi descrivono le reazioni pacifiche e attive della famiglia Nassar come "ispiranti" e "incoraggianti".

Le molte intimidazioni, di cui l'ultimo atto è la distruzione degli alberi da frutto e quindi della base economica della Tenda delle Nazioni, hanno tutte un unico messaggio: "Sparite da qua!"

Il lavoro e la missione della famiglia Nassar ha raccolto solidarietà di una miriade di persone, associazioni laiche e religiose di tutto il mondo. Grazie alle loro offerte, alla loro presenza e lavoro in loco e al lavoro di lobby la Tenda delle Nazioni sulla "vigna di Daher" continua a funzionare e a crescere e la famiglia Nasser riesce a contrapporre all'occupazione israeliana il suo semplice e al contempo forte messaggio "Ci rifiutiamo di essere nemici. Resteremo!"

"La nostra missione è creare ponti tra le persone e ancora tra le persone e la terra. Con la Tent of Nations possiamo unire culture diverse per costruire ponti di comprensione, di conciliazione e di pace."

[Ulteriori informazioni] www.tentofnations.org, www.facebook.com/tentofnations

[L'autore] Konstantin Udert ha lavorato nel 2014 per tre mesi come stagista presso l'Associazione per i Popoli Minacciati a Göttingen. Conosce personalmente la famiglia Nassar e il progetto Tent of nations. Lavora come volontario presso l'associazione Brass for Peace e.V.. L'associazione si è posta come obiettivo quello di far conoscere la situazione in Terra Santa tra i suonatori di strumenti a fiato del movimento dei cori della chiesa evangelica. Brass for peace inoltre sostiene e incentiva i contatti tra musicisti tedeschi e palestinesi. Konstantin Udert ha fatto parte del gruppo Amnesty International delle scuole superiori di Hannover.

India/Tamil Nadu [ su ]

Ecofarming - un progetto per l'uomo e la terra

Associazione Beppe e Rossana Mantovan Bolzano

Lavoro nei campi all'interno del progetto di Ecofarming. Foto: Ass. Beppe e Rosanna Mantova BZ. Lavoro nei campi all'interno del progetto di Ecofarming. Foto: Ass. Beppe e Rosanna Mantova BZ.

Da alcuni decenni in molte zone del mondo il maggior pericolo per la sopravvivenza delle popolazioni autoctone dedite all'agricoltura non sembrano essere gli eventi climatici eccezionali ma tutti quegli interventi che almeno a parole avrebbero dovuto aiutare le popolazioni a stare meglio. Una di queste iniziative è stata la sostituzione spesso obbligata delle sementi tradizionali con quelle industriali ad alto rendimento più o meno manipolate geneticamente. Ciò che avrebbe dovuto creare maggiori entrate per gli agricoltori e aumentare i profitti delle multinazionali venditrici delle sementi, ha in realtà creato maggiore fame e povertà. Le spese necessarie alla coltivazione con sementi industriali sono talmente alte da superare ampiamente l'eventuale maggior rendimento del raccolto, le sementi geneticamente modificate sono sterili e costringono i contadini a ricomprare i semi ogni anno, si è ridotta la biodiversità e con essa la diversità e qualità alimentare delle persone. Per molti piccoli agricoltori il passaggio alle sementi industriali ha comportato l'impossibilità di continuare a vivere di agricoltura, debiti, l'abbandono delle terre, il trasferimento nelle bidonville delle grandi città, o, nella peggiore delle ipotesi, il suicidio.

Per contrastare gli effetti negativi di un'agricoltura imposta dall'agrobusiness, un'associazione bolzanina ha dato vita a un progetto volto a ristabilire l'autosufficienza e la dignità di circa 1.000 piccoli agricoltori in India. La sede bolzanina "Claudia Bertazzi" dell'associazione Beppe e Rossana Mantovan (ABRM) sostiene il Progetto per l'Agricoltura Ecologica e Sostenibile e per lo Sviluppo Rurale. Si tratta di un progetto formulato in modo collettivo con la partecipazione di più di 1000 piccoli agricoltori distribuiti in 50 villaggi del distretto di Villupuram, Stato del Tamil Nadu, in India.

Una delle famiglie partecipanti al progetto di Ecofarming. Foto: Ass. Beppe e Rosanna Mantova BZ. Una delle famiglie partecipanti al progetto di Ecofarming. Foto: Ass. Beppe e Rosanna Mantova BZ.

In questa zona dell'India circa l'80% della popolazione vive in zone rurali ed è costituita in maggioranza da piccoli agricoltori senza terra propria. Negli ultimi anni l'agricoltura indiana ha dovuto affrontare molti cambiamenti. I nuovi metodi di coltivazione importati dall'occidente, hanno stravolto il tradizionale modello di agricoltura. Prima della cosiddetta "rivoluzione verde" la popolazione rurale era autosufficiente per quanto riguarda le sementi, che soprattutto le donne sapevano conservare e proteggere. La situazione è profondamente cambiata con l'introduzione di varietà ad alto rendimento che hanno danneggiato la maggior parte delle varietà indigene. Le sementi di importazione si sono rivelate capaci di resistere a molte difficoltà ambientali ma nello stesso tempo hanno impoverito l'agricoltura indigena, a causa del degrado del terreno e della riduzione della sua fertilità.

Gli agricoltori sono stati indotti ad aumentare la produzione; nonostante ciò i margini di guadagno sono stati ridotti a causa dell'alto costo delle sementi e dei pesticidi di importazione. Da queste considerazioni è nato l'impegno di ABRM per difendere il diritto degli agricoltori alla scelta libera delle sementi, per rafforzare le comunità locali e sostenerne la autonomia nei confronti delle società multinazionali. Molti agricoltori rurali, attivisti sociali e volontari hanno messo in dubbio la sostenibilità delle moderne tecnologie ad alto impatto ambientale orientate esclusivamente al mercato, con o senza l'uso di Ogm, che spinge gli agricoltori ad indebitarsi. Ancora oggi per la maggioranza degli agricoltori poveri di risorse l'agricoltura è un mezzo di sopravvivenza e sussistenza e non una fonte di profitto.

E' necessario favorire un sistema di agricoltura alternativo che punti alla sostenibilità, che comporti rischi limitati, che richieda poche risorse esterne e che accresca la fiducia dei coltivatori. Insieme al partner locale, il Centre for Community Organization and Development (CECO'DE), il progetto triennale, cofinanziato dalla Provincia Autonoma di Bolzano, si propone di reintrodurre i metodi agricoli tradizionali eco-sostenibili e di sviluppare un'agricoltura biologica in 50 villaggi del Distretto di Villupuram e di istruire e formare 1.000 agricoltori poveri di risorse allo scopo di aumentare il loro reddito e il tasso di occupazione. Parte del progetto è anche la produzione di concimi e pesticidi naturali, l'acquisto di un trattore comunitario e l'istituzione di una banca di sementi tradizionali. Il Centre for Community Organization and Development (CECO'DE) è un'organizzazione non governativa (ONG) di volontariato sociale, costituitasi nel 1990 e riconosciuta dal governo del Tamil Nadu.

L'Associazione BEPPE E ROSSANA MANTOVAN, Sezione "Claudia Bertazzi" ha sede presso la Biblioteca Culture del Mondo. E' una associazione di volontariato costituitasi a Bolzano nel 1996. Ha attualmente 59 soci, nessuno retribuito che dedicano ai progetti parte del loro tempo libero e delle ferie.


La versione cartacea è stata realizzata con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano.

Pogrom-bedrohte Völker 283 (4/2014)