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Popoli indigeni

La lotta per il diritto all'acqua

Pogrom bedrohte Völker n. 300, 3/2017

Bolzano, ottobre 2017

Indice

Editoriale, Sabrina Bussani | ONU: dieci anni di Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni | Standing Rock: "We exist. We resist. We rise" | Water protectors: "Basta con le violazioni dei nostri diritti" | La questione della sovranità e il rischio della privatizzazione dei territori tribali | Canada: uniti per salvare il fiume Peace | Colombia: donne costruttrici di pace | Diritti dei popoli indigeni: tra negazioni e riabilitazioni

Editoriale [ su ]

Di Sabrina Bussani

Popoli indigeni. La lotta per il diritto all'acqua, pogrom / bedrohte Völker 300 (3/2017). Popoli indigeni. La lotta per il diritto all'acqua, pogrom / bedrohte Völker 300 (3/2017).

Care lettrici, cari lettori,

nel 2017 la Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni ha compiuto 10 anni. Adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 settembre 2007, essa ha focalizzato le speranze di approssimativamente 370 milioni di persone appartenenti a uno dei circa 5.000 popoli indigeni del mondo per vedere finalmente riconosciuti e rispettati i loro diritti.

In questi dieci anni la Dichiarazione ha certamente contribuito ad allargare la consapevolezza sulla situazione dei popoli indigeni nel mondo e in un certo senso ha anche contribuito a migliorare almeno il loro status formale, ma di fatto la situazione dei popoli indigeni non sembra essere cambiata molto rispetto a dieci anni fa. Uno dei problemi è legato al fatto che la Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni non è vincolante per i firmatari, esprime tutt'al più una dichiarazione d'intenti e la sua violazione non comporta alcuna sanzione. Diventa quindi facile sostenere formalmente i diritti dei nativi senza per questo andare a fermare e sanzionare le violazioni degli stessi diritti. Secondo i dati pubblicati dall'organizzazione per i diritti umani e i crimini ambientali Global Witness, nel 2016 sono stati assassinati almeno 200 attivisti ambientali, di cui la maggior parte apparteneva a un popolo indigeno. Il numero è purtroppo in crescita da anni e non promette di migliorare neanche nel 2017 con 185 morti assassinati da inizio anno fino al 26 ottobre.

Questi dati, che non tengono conto delle migliaia di intimidazioni, atti di violenza e minacce esprimono fin troppo efficacemente l'inasprirsi dei conflitti ambientali nel mondo. Ad essere maggiormente colpite dalla distruzione e dall'inquinamento ambientale sono proprio le comunità indigene e tradizionali, tanto che negli ultimi anni è stato coniato il termine di "razzismo ambientale". Una partita sempre più importante sembra giocarsi attorno alla tutela dell'acqua, sia in quanto acqua potabile sia in quanto habitat di un'enorme e importante biodiversità. A differenza del passato, oggi le comunità indigene in prima linea nella difesa del diritto di tutti all'acqua pulita possono contare maggiormente sull'appoggio della popolazione non-indigena. In Canada ad esempio i pronipoti dei colonizzatori si trovano a lottare fianco a fianco con le comunità indigene per la salvaguardia del fiume Peace minacciato dalla costruzione di una rete di oleodotti, mentre i "water protectors" (protettori dell'acqua) dei Dakota Sioux negli USA sono riusciti a convogliare decine di migliaia di persone in tutto il mondo attorno alla lotta contro l'oleodotto Dakota Access Pipeline. Sono queste alcune delle storie che vi vogliamo raccontare in questa pubblicazione.

Sabrina Bussani

[Foto di copertina] In occasione dei Giochi Olimpici di Rio de Janeiro 2016, l'artista brasiliano Eduardo Kobra ha realizzato cinque murales, ognuno rappresentante un volto indigeno. Ogni murales rappresenta uno dei cinque continenti: i Mursi dell'Etiopia (foto di copertina) per l'Africa, i Karen della Thailandia per l'Asia, gli Hulí della Papua-Nuova Guinea per l'Oceania, i Tapapajos in Brasile per il continente americano e i Ciukci della Russia per l'Europa. Foto: Stefano Ravalli/Flickr BY-NC-SA 2.0.

ONU [ su ]

Dieci anni di Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni

A cura di Sabrina Bussani

Incontro di rappresentanti indigeni: dall'Himalaya all'Honduras, l'incontro è uno specchio della pluralità culturale del pianeta. Foto: Claus Biegert. Incontro di rappresentanti indigeni: dall'Himalaya all'Honduras, l'incontro è uno specchio della pluralità culturale del pianeta. Foto: Claus Biegert.

Il 13 settembre 2007 la 107a sessione plenaria dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni (UN Declaration on the Rights of Indigenous Peoples - UNDRIP) con 144 voti a favore, 4 voti contrari (Australia, Canada, Nuova Zelanda, Stati Uniti) e 11 astenuti (Azerbaijan, Bangladesh, Bhutan, Burundi, Colombia, Georgia, Kenya, Nigeria, Federazione Russa, Samoa e Ucraina). Per i rappresentanti dei circa 5.000 popoli indigeni in tutto il mondo fu il coronamento di oltre vent'anni di lavoro e di discussioni con l'allora Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.

I 46 articoli della Dichiarazione definiscono i diritti delle popolazioni indigene, quali il diritto collettivo al possesso, l'utilizzo e il controllo delle terre come elemento fondante nella vita delle comunità, il diritto al mantenimento delle proprie istituzioni politiche, religiose, culturali, educative, delle misure per evitare ogni forma di etnocidio, il diritto al risarcimento per la perdita subita nei processi coloniali, il coinvolgimento nei processi decisionali per mezzo della consultazione e del libero e informato consenso, nonché il concetto di auto-determinazione.

In particolare il principio del consenso libero, previo e informato (FPIC - free, prior and informed consent) dovrebbe obbligare i governi nazionali e le imprese a informare preventivamente ed esaustivamente le popolazioni indigene circa progetti di esplorazione e sfruttamento delle risorse naturali sul loro territorio e a far dipendere la realizzazione dei progetti dal consenso o meno delle popolazioni interessate. Secondo la Dichiarazione, il principio del consenso libero, previo e informato deve essere applicato anche ogniqualvolta uno stato nazionale intenda emettere leggi o applicare misure amministrative che si riflettono direttamente sui diritti dei popoli indigeni. In questo senso, la Dichiarazione invita gli stati nazionali a collaborare attivamente con le popolazioni indigene per trovare soluzioni condivise e ottenere il loro consenso.

I principi sanciti nella Dichiarazione vanno ad affiancare i diritti delle popolazioni indigene fissati nella Convenzione ILO 169 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro dell'ONU (International Labour Organization, ILO). Purtroppo però la Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni è soprattutto una dichiarazione d'intenti, non è vincolante né prevede sanzioni per chi la disattende o ne viola gli articoli. Di fatto la Dichiarazione si limita a invitare gli organismi internazionali e gli stati nazionali a promuovere il rispetto e la piena applicazione delle sue disposizioni (art. 42).

Il risultato è che a dieci anni dall'entrata in vigore dell'UNDRIP e nonostante i quattro paesi che nel 2007 si erano detti contrari nel frattempo abbiamo deciso di firmare la Dichiarazione, i diritti e le libertà fondamentali delle popolazioni indigene continuano a essere violati.

Secondo Global Witness, nel 2016 in tutto il mondo sono stati assassinati 200 attivisti per l'ambiente, con un incremento del 8% circa rispetto al 2015. Quasi la metà delle vittime erano indigeni. L'impunità imperante in questo tipo di crimine rende difficile individuare i responsabili, ma - sempre secondo Global Witness - vi sono forti indizi per poter collegare forze di polizia e militari ad almeno 43 di questi omicidi mentre forze di sicurezza private e paramilitari sono fortemente indiziati per altri 52 omicidi. Dietro a questa cifra si nascondono poi innumerevoli casi di intimidazioni, minacce di morte e abusi sessuali a scopo intimidatorio nei confronti di attiviste e attivisti nonché violazioni dei diritti umani e deportazioni nei confronti di intere comunità e popolazioni.

Il principio maggiormente disatteso è proprio quello del consenso libero, previo e informato.

Mentre gli articoli dell'UNDRIP parlano chiaramente di "consenso", molti paesi - nell'accogliere i suoi principi - si sono limitati a richiedere una "consultazione" che non prevede necessariamente il consenso. Anzi, molte legislazioni addirittura escludono categoricamente il diritto delle popolazioni indigene a porre un veto su progetti da realizzare nel loro territorio. In questo modo viene eluso uno dei principi più importanti dell'intera dichiarazione. La maggior parte dei conflitti tra popolazioni indigene e stati nazionali, che sia per il diritto alla terra, l'estrazione di risorse naturali o la costruzione di mega-dighe su terre indigene, nasce proprio dall'inosservanza del diritto al consenso libero, previo e informato.

I gruppi e le istituzioni di rappresentanza dei popoli indigeni riconoscono i progressi fatti nell'ultimo decennio riguardo alla maggiore diffusione, conoscenza e tutela dei diritti dei popoli indigeni ma criticano con insistenza il fatto che la Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni non sia vincolante per gli stati firmatari e chiedono perciò una convenzione internazionale che possa colmare questa lacuna.

Tratto da: www.gfbv.de/fileadmin/redaktion/Reporte_Memoranden/2017/Vorabversion_Indigenen-Memorandum.pdf. Altre fonti: www.gfbv.it/3dossier/diritto/univ-indig-it.html | www.un.org/development/desa/indigenouspeoples/declaration-on-the-rights-of-indigenous-peoples.html | www.globalwitness.org/en/campaigns/environmental-activists/defenders-earth/

Standing Rock [ su ]

"We exist. We resist. We rise"

A cura di Sabrina Bussani

"Recognize Indigenous Peoples' Rights. We exist. We resist. We rise - Riconoscete i diritti dei popoli indigeni. Noi esistiamo, noi resistiamo, noi ci solleviamo". Il 10 marzo 2017 si è tenuta a Washington una grande marcia di protesta contro l'oleodotto Dakota Access Pipeline (DAPL). Lo striscione portato da un gruppo di manifestanti riassume perfettamente la situazione, le richieste e la resistenza dei Nativi Americani.

In cammino verso la Casa Bianca: la marcia di protesta di migliaia di attivisti di Standing Rock attraverso Washington DC. Foto: Vision Planet Media/Flickr BY-NC-ND 2.0. In cammino verso la Casa Bianca: la marcia di protesta di migliaia di attivisti di Standing Rock attraverso Washington DC. Foto: Vision Planet Media/Flickr BY-NC-ND 2.0.

Quando nei primi mesi del 2016 negli USA fu approvata e avviata la costruzione dell'oleodotto Dakota Access Pipeline (DAPL) si formò subito un movimento di protesta composto inizialmente dai nativi americani degli Standing Rock Sioux, da ambientalisti e difensori dei diritti umani. Con il passare del tempo a questo variegato gruppo si unirono sempre più persone provenienti da ogni angolo del paese e infine anche un nutrito gruppi di veterani dell'esercito statunitense.

I motivi per la protesta erano e sono molteplici e hanno a che fare sia con il concetto di sacralità dell'acqua dei Nativi sia con un aspetto molto pratico che è quello dell'approvvigionamento di acqua potabile. L'oleodotto lungo quasi duemila chilometri e con un costo attorno ai 3,8 miliardi di dollari, serve a portare il greggio dalla zona di confine tra Montana e North Dakota fino all'Illinois. Nel suo percorso passa sotto il fiume Missouri e il lago Oahe, le uniche riserve di acqua potabile per circa 18 milioni di persone. Basterebbe una piccolissima falla nel dotto per inquinare e mettere a rischio l'acqua potabile dell'intera zona.

L'oleodotto originariamente proposto avrebbe dovuto attraversare il fiume Missouri appena sopra la città di Bismarck, North Dakota, ma in seguito alle proteste degli abitanti il tracciato è stato spostato lungo siti tribali sacri, a meno di un miglio dalla Riserva Sioux di Standing Rock.

Si tratta di un terreno che secondo il tuttora valido Trattato di Fort Laramie del 1851 dovrebbe appartenere agli Standing Rock Sioux. Nonostante i governi degli Stati Uniti abbiano ripetutamente violato il Trattato, i Nativi non hanno mai rinunciato a rivendicarne il pieno rispetto e quindi anche a rivendicare quel pezzo di terra nella quale si trovano diversi cimiteri dei loro avi.

Durante i mesi di protesta, parte di questa porzione di terra è stata venduta all'impresa che gestisce la DAPL senza che gli Standing Rock Sioux fossero interpellati, così come non è stato rispettato il principio del consenso libero, previo e informato (Free, prior and informed consent) secondo il quale le comunità indigene affette dalla costruzione del DAPL avrebbero dovuto essere consultate preventivamente, ricevere tutte le informazioni del caso e infine avrebbero dovuto dare o negare in modo vincolante il loro consenso.

Dopo lo sgombero del principale accampamento di protesta Oceti Sakowin, gli Standing Rock Sioux e il coordinamento delle organizzazioni indigene statunitensi Native Rise hanno deciso di portare la protesta a Washington. Per quattro giorni migliaia di persone si sono date appuntamento nella capitale statunitense per seguire laboratori, cerimonie e seminari e concludersi il 10 marzo 2017 con una grande marcia di protesta partita davanti all'edificio del genio militare (Army Corps of Engineers) che aveva autorizzato la costruzione dell'oleodotto. La marcia è poi terminata davanti alla Casa Bianca. Uno dei primi atti a inizio mandato dell'attuale presidente Donald Trump è stato infatti l'annullamento della sospensione della costruzione dell'oleodotto voluta dal suo predecessore e la firma dell'ordine esecutivo per portare a termine il DAPL.

La protesta contro l'oleodotto DAPL ha ottenuto una certa attenzione internazionale soprattutto per la violenza con cui le forze dell'ordine e la security del DAPL hanno contrastato le proteste, tanto da indurre un migliaio di veterani dell'esercito USA a intervenire come scudi umani per proteggere i manifestanti. Il conflitto innescato dalla costruzione del DAPL è però solo uno dei molti conflitti in corso tra i Nativi e le autorità, e la marcia di Washington ha evidenziato bene la portata delle proteste dei Nativi Americani.

La vicenda dell'oleodotto Keystone XL assomiglia molto a quella del DAPL. Secondo il progetto originale, i 1.897 chilometri del Keystone XL dovrebbero collegare il territorio del Nord Alberta in Canada, ricco di sabbie bituminose, con lo stato del Nebraska negli USA, dove si collegherebbe alla già esistente parte meridionale del sistema di oleodotti Keystone per far arrivare il greggio alle raffinerie del Texas. Anche in questo caso l'oleodotto attraverserebbe il territorio di diverse comunità native che non sono state consultate né incluse nella pianificazione del dotto. Anche in questo caso le comunità native sono tutt'altro che sole nella loro protesta. Questo perché l'oleodotto dovrebbe attraversare la falda acquifera Ogallala, una delle maggiori riserve di acqua potabile degli Stati Uniti. Un articolo pubblicato dall'Università di Harvard precisa che la falda acquifera di Ogallala non solo è qualificata come zona ecologicamente fragile e fornisce l'acqua potabile a milioni di persone, ma garantisce anche l'irrigazione di quasi il 20% delle terre agricole statunitensi. Secondo il Dipartimento di Ingegneria civile dell'Università di Nebraska-Lincoln, l'impresa proprietaria dell'oleodotto TransCanada ha fortemente sottovalutato la media di fuoriuscite e teme che con il sistema di sicurezza previsto queste fuoriuscite potranno essere individuate solo parecchie settimane dopo essersi verificate.

Altre proteste in corso negli Stati Uniti sono quelle delle nazioni Jumano, Apache e Conchos contro l'oleodotto Trans-Pecos-Pipeline nel Texas occidentale e dei Navajo/Diné contro il cosiddetto fracking (estrazione del petrolio tramite fratturazione idraulica) nel Chaco Canyon in Nuovo Messico. Negli stati di New York e New Jersey si è invece formata un'ampia coalizione contro la costruzione della Pilgrim Pipeline. Circa cinquanta tra organizzazioni, associazioni e istituzioni native e non native si sono riunite nella Coalizione contro il Pilgrim Pipeline (Coalition against Pilgrim Pipeline - CAPP). Il progetto del Pilgrim Pipeline prevede la costruzione di due oleodotti paralleli di cui uno si collegherà al Dakota Access Pipeline per portare il greggio alle raffinerie e ai porti di Linden/New Jersey mentre l'altro oleodotto dovrebbe portare il petrolio raffinato di ritorno da Linden a Albany/New York. I due oleodotti dovrebbero attraversare una cinquantina di municipalità, diversi fiumi tra cui il Hudson e molti dei suoi affluenti e alcune importanti riserve di acqua potabile come il sistema di falde acquifere della catena montuosa delle Ramapo Mountains. Nelle Ramapo Mountains del New Jersey settentrionale si trova anche il territorio dei nativi Ramapo Lunaape. Dopo aver visitato l'accampamento di protesta degli Standing Rock, i Lunaape hanno dato vita all'accampamento di Split Rock Sweetwater Camp che funziona principalmente come centro informazioni.

La lotta degli Standing Rock Sioux contro il DAPL è diventata simbolica per tutte le lotte contro lo sfruttamento selvaggio dei territori delle comunità indigene in tutto il mondo. Per tutte loro la protesta non è mai solamente l'opposizione a un determinato progetto ma è in primo luogo una lotta in difesa della salute del proprio territorio, del proprio stile di vita e della propria dignità. Gli attivisti che si sono autodefiniti Water Protectors (protettori dell'acqua) vogliono ricordare al mondo la responsabilità che l'uomo ha nei confronti delle future generazioni affinché anche esse possano contare su un ambiente sano e vivibile, chiedono una vera sovranità sui loro territori e precise leggi internazionali che assicurino i diritti delle popolazioni indigene.

La costruzione del DAPL è ormai terminata, l'oleodotto è entrato in funzione e in maggio 2017 ha già registrato la sua prima perdita di petrolio. Gli Standing Rock Sioux però non hanno abbandonato la battaglia e hanno lanciato una campagna di disinvestimento dalle banche finanziatrici del DAPL. L'intento è di togliere al progetto la sua base finanziaria. Finora (marzo 2017) la campagna ha avuto un discreto successo. Negli Stati Uniti molti privati hanno deciso di chiudere i propri conti presso le banche coinvolte e la città di Seattle ha annunciato di non voler rinnovare il suo contratto in scadenza a fine 2018 con la Wells Fargo. In Europa le forti proteste hanno convinto due banche, la tedesca Bayern LB e l'olandese ING, a recedere dal loro coinvolgimento con il DAPL mentre l'istituto bancario italiano Intesa San Paolo, che secondo l'inchiesta di Food & Water Watch è coinvolto con 339 milioni di dollari, non risponde alle domande di chiarificazione del suo ruolo e sembra non volere commentare la propria partecipazione al contestatissimo progetto.

Fonti: Anna Brietzke, "Wir sind immer noch hier" https://gfbvberlin.wordpress.com/indigener-widerstand-gegen-trump/ - http://sitn.hms.harvard.edu/flash/2015/thrills-and-spills-the-keystone-xl-pipeline/ - www.greenreport.it/news/la-battaglia-standing-rock-negli-usa-302-manifestazioni-loleodotto-nelle-terre-sacre-sioux-video/ - www.greenreport.it/news/energia/oleodotti-dakota-access-keystone-xl-gli-ambientalisti-trump/ - https://en.wikipedia.org/wiki/Dakota_Access_Pipeline_protests - www.ilpost.it/2016/11/30/dakota-access-pipeline/ - www.huffingtonpost.com/georgianne-nienaber/sacred-burial-grounds-sol_b_12152790.html - https://stoppilgrimpipeline.com/coalition-members/Grandi laghi - www.valori.it/valori/oleodotto-dakota-intesa-sanpaolo-finanzia-e-tace-17263.html - www.foodandwaterwatch.org/news/who%27s-banking-dakota-access-pipeline - www.lifegate.it/persone/news/dakota-pipeline-banche - www.theguardian.com/science/2017/may/15/those-are-our-eiffel-towers-our-pyramids-why-standing-rock-is-about-much-more-than-oil

Water protectors [ su ]

"Basta con le violazioni dei nostri diritti"

Combattono l'inquinamento ambientale e la violazione dei diritti indigeni negli USA: Rachel Heaton, Nataanii Means, Wašté Win Young e Rafael Gonzalez si autodefiniscono water protectors (protettori dell'acqua) e fin dall'inizio hanno partecipato alle proteste contro la Dakota Access-Pipeline (DAPL). Nella primavera del 2017 le due ragazze e i due ragazzi hanno girato l'Europa per testimoniare la resistenza indigena negli USA e motivare tutti a impegnarsi per il rispetto dei diritti umani e la salvaguardia dell'ambiente. Durante la loro visita in Germania sono stati intervistati da Cécile Lacavalerie e Franziska Rocholl per conto dell'APM.

Durante il loro viaggio attraverso l'Europa i Water protector hanno visitato il bosco Hambacher Forst nel Nordrhein-Westfalen in Germania. Foto: Cécile Lacavalerie. Durante il loro viaggio attraverso l'Europa i Water protector hanno visitato il bosco Hambacher Forst nel Nordrhein-Westfalen in Germania. Foto: Cécile Lacavalerie.

Puoi presentarti?
Mi chiamo Rafael Gonzalez e vengo da Minneapolis in Minnesota. Sono in parte un Mdewakanton Dakota e in parte un Puerto Rican Taíno. E sono un water protector e artista hip-hop.

Quali sono le tue forme di protesta?
Per molto tempo - quasi sei anni e mezzo - ho fatto lavoro sociale con ragazze e ragazzi adolescenti. Secondo me, anche questa è una forma di attivismo. Ma prima dell'accampamento di protesta per il DAPL non avevo partecipato in prima linea a proteste non violente . Prima di decidere di partecipare in modo attivo alle proteste di Standing Rock mi sono impegnato a distribuire da mangiare e altri beni di necessità a chi stava tenendo in piedi l'accampamento. Anche quello è stato duro lavoro.

In quale modo avete protestato contro la costruzione dell'oleodotto?
In diversi modi. Siamo andati in uno dei cantieri della DAPL per impedire i lavori di costruzione. Ci siamo incatenati ai macchinari e in questo modo siamo riusciti a fermare i lavori per diversi mesi. Alla fine siamo stati costretti ad abbandonare l'accampamento. Quella terra è inclusa in un trattato fin dal 1851. Io sono un Dakota e ciò significa che ho diritto a quella terra. E' la nostra terra. Significa anche che siamo stati cacciati dalla nostra terra e che il trattato è stato disatteso. Così il governo statunitense viola la propria costituzione e viola i nostri diritti. Infine Donald Trump ha emesso un decreto che impone non solo la costruzione del DAPL ma anche dell'oleodotto Keystone XL. Questo decreto è stato un duro colpo per noi ma non per questo abbiamo abbandonato la lotta.

Come continua ora la protesta?
In questo momento stiamo girando l'Europa. Andiamo in diversi paesi e città per spiegare la nostra campagna di disinvestimento. Attualmente molte banche finanziano mega-progetti come quello del DAPL. Sappiamo che molte di queste banche sono europee, ed è per questo che siamo qui. Vogliamo far sapere alle banche che stanno finanziando un genocidio economico e un razzismo ambientale. Di fatto sostengono la profanazione della nostra terra sacra. Sostengono la minaccia di inquinamento delle riserve di acqua potabile di Standing rock dove vivono più di 8.000 persone. Ma questi oleodotti minacciano anche l'acqua potabile di 18 milioni di persone che, per l'acqua potabile, dipendono dal fiume Missouri. Siamo qui per dire alle banche europee che devono ritirare i loro soldi da questi progetti, anzi, più che dirlo, lo pretendiamo. Devono disinvestire e smetterla di sostenere progetti di questo tipo.

Siamo stufi e stanchi di vedere costantemente violati i nostri diritti. Non vengono violati solo i diritti all'acqua potabile pulita di 18 milioni di persone, vengono anche violati gli ecosistemi naturali della regione. Siamo preoccupati per gli animali e la fauna in generale, e siamo preoccupati per la nostra madre terra. Contemporaneamente ci sentiamo legati all'Europa perché il petrolio che verrà trasportato attraverso il DAPL sarà esportato e bruciato in tutto il mondo. La combustione di petrolio aumenta le emissioni di CO2, l'atmosfera si riscalda, le calotte polari si sciolgono e i livelli del mare continuano a salire. Questo significa che le coste, non solo la costa di Turtle Island, ma le coste di tutto il mondo, e quindi anche in Europa, saranno sempre più minacciate da inondazioni ed erosione. Siamo solidali con tutti gli attivisti che in Europa si impegnano contro il cambiamento climatico e per la salvaguardia dell'ambiente e siamo solidali con tutti i movimenti che lottano contro il razzismo ambientale e il genocidio economico. Siamo solidali con ogni singola persona che lotta per la salute della madre terra. E' per questo che sono qui.

Popoli indigeni [ su ]

La questione della sovranità e il rischio della privatizzazione dei territori tribali

Di Yvonne Bangert, Elisa Benker, Charlotte Honnigfor

Protesta dei San Carlos Apache Arizona contro l'installazione di una miniera di rame su terre indiane sacre, 22 luglio 2015. Foto: Wendy Kenin, flickr.com, CC BY-ND 2.0. Protesta dei San Carlos Apache Arizona contro l'installazione di una miniera di rame su terre indiane sacre, 22 luglio 2015. Foto: Wendy Kenin, flickr.com, CC BY-ND 2.0.

Una delle principali tematiche al centro delle rivendicazioni dei Nativi americani è la questione della sovranità. Per capire l'importanza che il controllo sul proprio territorio riveste per le Nazioni native bisogna tenere presente che nelle culture indigene un aspetto centrale che concorre alla formazione dell'identità comunitaria così come dell'identità della singola persona è dato dal territorio in cui la comunità vive. Questo avviene sia a livello pratico in quanto l'ambiente circostante ha da sempre determinato lo stile di vita, l'alimentazione e l'economia di una comunità, sia a livello spirituale grazie alla concezione di sacralità di una natura animata ed espressione di un grande spirito creatore e al culto degli avi sepolti in terra sacra i cui spiriti continuano ad essere presenti. Ne risulta una religione complessa con la quale ricercare l'armonia tra la propria esistenza e le forze spirituali presenti in ogni essere o cosa dell'ambiente circostante.

Spiritualità, terra e diritti umani sono quindi strettamente connessi tra di loro, e il controllo sul proprio territorio garantisce che questa connessione non venga interrotta e che possa essere salvaguardata la sacralità della natura.

Dopo aver subito l'occupazione e il furto di gran parte dei loro territori, tra il 18esimo e il 19esimo secolo le Nazioni indiane siglarono complessivamente 371 trattati territoriali con i diversi governi statunitensi. Di fatto cedettero la maggior parte delle loro terre in cambio della sovranità e il controllo su porzioni del loro territorio originario. Ma non appena nelle terre loro rimaste venivano trovate risorse naturali economicamente attraenti, i governi disattendevano i trattati e distribuivano le terre native ai nuovi coloni.

Nel 1871 il Congresso degli Stati Uniti decise di non siglare più alcun trattato alla cui base vi fosse il riconoscimento dei Nativi come nazione sovrana. Con il Dawes Act del 1887 le riserve indiane furono parcellizzate, la terra venduta perlopiù a coloni europei e nell'intento di un'assimilazione forzata dei nativi alla società americana bianca fu avviata la "rieducazione" dei Nativi come contadini. Poiché le terre a loro rimaste erano però inadatte all'agricoltura, la maggior parte delle comunità native fu da allora costretta a dipendere per la propria sopravvivenza dagli aiuti alimentari statali. Oltre al costante pericolo della fame, una delle conseguenze del Dawes Act fu la distruzione dell'organizzazione comunitaria delle tribù.

La politica dell'assimilazione forzata proseguì almeno fino al 1924 quando i Nativi ottennero finalmente il riconoscimento di alcuni diritti civili. Grazie all'Indian Reorganisation Act del 1934 fu proibita l'ulteriore frammentazione delle loro terre e i Nativi ottennero un'ampia autodeterminazione.

La politica cambiò nuovamente a partire dal 1953 con la cosiddetta politica della "terminazione" che tentò di cancellare i Nativi americani come gruppo etnico autonomo con diritti collettivi. Molti Nativi furono ricollocati nelle grandi città dove andarono a ingrossare le fila dei poveri e finirono per formare il gruppo dei cosiddetti Indiani urbani. E' soprattutto dalle loro fila che negli anni tra il 1960 e il 1970 andò a formarsi il movimento di protesta American Indian Movement (AIM). Fondato nel 1968, l'AIM crebbe velocemente e ottenne grande attenzione anche internazionale grazie alle molteplici manifestazioni e ad alcune spettacolari occupazioni, tra cui la Trail of broken treaties (marcia dei trattati rotti) che terminò nel novembre 1972 con l'occupazione del Bureau of Indian Affairs di Washington, l'occupazione dell'isola penitenziaria di Alcatraz e naturalmente l'occupazione di Wounded Knee nel 1973.

Nel frattempo i Nativi americani hanno ottenuto il riconoscimento internazionale attraverso le Nazioni Unite. Grazie alle leggi sulla tutela ambientale, sulla tutela delle specie in via di estinzione, all'American Indian Religious Freedom Act, la Convenzione delle Nazioni Unite per la tutela del patrimonio culturale dell'umanità e la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti delle popolazioni indigene, firmata dal presidente Obama nel 2010, le nazioni native, le loro culture e i loro territori dovrebbero essere almeno in teoria ben tutelate. In realtà i loro diritti continuano ad essere violati soprattutto a causa di progetti economici privati realizzati nei territori indiani. Quando le comunità native decidono di portare in tribunale un progetto che viola i loro diritti si trovano spesso a dover subire processi denigranti in cui la loro religione viene trattata alla stregua di superstizioni ominose. Espropriati, traditi e risarciti in modo insufficiente - la storia del furto delle terre dei Nativi è una storia di promesse infrante che continua tuttora.

Immediatamente dopo l'elezione di Donald Trump a 45esimo presidente degli Stati Uniti alcune dichiarazioni dei suoi consiglieri hanno messo in allarme i governi tribali delle 567 nazioni native riconosciute dal governo federale. Secondo quanto riportava il 5 dicembre 2016 l'agenzia Reuters, due membri del gruppo di consiglieri di Trump avrebbero detto di voler "liberare le risorse naturali presenti in 20 milioni di ettari di terre tribali dai lacci di una burocrazia soffocante". Nelle terre native vi sarebbe circa un quinto di tutti i giacimenti di petrolio e di gas naturale degli USA nonché notevoli quantità di carbone. La proposta sarebbe quella di privatizzare le riserve indiane e porre così fine a un procedimento che finora ha protetto la proprietà comunitaria e una certa forma di autodeterminazione governativa delle terre native.

L'attuale status delle riserve risale ai trattati del 18esimo e 19esimo secolo con i quali si pose termine alle cosiddette guerre indiane tra i nativi americani e le autorità degli Stati Uniti.

Secondo questi trattati sono i governi tribali a decidere se e come la terra e le sue risorse vengono sfruttate. Il Bureau of Indian Affairs (BIA), nato nel 1824 come parte del ministero della guerra e oggi sottoposto al ministero degli interni, dovrebbe tra le altre cose impedire che le terre native vengano vendute a non-nativi. Il BIA ha anche il compito di gestire l'affitto di terre native ad allevatori non-nativi con enorme perdite per i Nativi a cui solitamente viene devoluta solo una piccola parte dei canoni d'affitto. Storicamente non sono poi mancati i casi in cui il BIA abbia trattenuto per sé le entrate da affitto senza devolverle ai Nativi.

Il progetto di privatizzazione e di sfruttamento economico delle riserve traspare anche dalla composizione di un gruppo di lavoro di 27 persone, il cosiddetto Native American Affairs Coalition, incaricato dalla squadra attorno al neo-eletto presidente Donald Trump di elaborare proposte per la politica sui nativi del presidente. Sempre secondo la Reuters, tre su quattro dirigenti di questo gruppo di lavoro hanno stretti legami con l'industria petrolifera.

Mentre ci sono alcune nazioni native come la Crow Nation in Montana o gli Southern Ute in Colorado che finanziano il proprio sistema sanitario ed educativo grazie ai contratti stipulati con imprese minerarie e petrolifere, altre comunità contrarie allo sfruttamento economico delle risorse sul loro territorio approfittano della tutela data da specifici regolamenti per lo sfruttamento, l'affitto e il pignoramento dei territori indiani. Per tutte loro "la terra è vita", e con terra intendono la terra gestita a livello comunitario e non la terra privatizzata.

"I nostri leader spirituali si oppongono alla privatizzazione delle nostre terre, che significa mercificazione della natura, dell'acqua, dell'aria che riteniamo sacre", ha detto Tom Goldtooth, membro sia della tribù Navajo che della tribù Dakota che gestisce l'Indigenous Enviromental Network. "La privatizzazione è stata l'obiettivo della colonizzazione - spogliare le nazioni native della loro sovranità."

articolo tratto da: "Wenn Intoleranz auf Widerstand trifft : Donald Trump und die Native Americans" di Yvonne Bangert, Elisa Benker, Charlotte Honnigfor, in: www.gfbv.de/de/news/broschuere-wenn-intoleranz-auf-widerstand-trifft-8495/

Canada [ su ]

Uniti per salvare il fiume Peace

Di Paola Rosà

La storia dell'inedita alleanza fra ambientalisti, agricoltori e indigeni contro la costruzione della diga Site C, che in Canada allagherà decine di chilometri di terreni fertili distruggendo molte proprietà private e diversi siti sacri dei nativi, per fornire energia alle compagnie petrolifere.

Incontro di coordinamento sul fiume Peace per la salvaguardia del Peace River. Foto: Antonio Senter. Incontro di coordinamento sul fiume Peace per la salvaguardia del Peace River. Foto: Antonio Sentres.

Tre cause civili promosse dalle tribù native, una petizione di Amnesty International, scioperi della fame e raccolte di firme, nonché proteste di agricoltori e ambientalisti: contro la costruzione della diga Site C, terzo sbarramento sul fiume Peace nel Nordest della British Columbia, si mobilita da anni un inedito spaccato di società civile canadese, timido e minoritario nei numeri, ma determinato e innovativo nelle alleanze. Segnale di un risveglio della consapevolezza identitaria dei First Nations, popoli indigeni stremati culturalmente da decenni di rieducazione forzata nei collegi dove ai bambini andava estirpato il ricordo della lingua e le usanze native.

La lotta collettiva alla diga si sta consolidando in questo primo anno di governo Trudeau che, nonostante avesse vinto le elezioni promettendo una svolta in materia ambientale e un nuovo corso nelle relazioni con i nativi, ha confermato alcuni permessi decisivi per il cantiere della Site C, un progetto degli anni Settanta ripescato dalla Provincia nel 2014, per fornire energia a basso costo alle industrie estrattive.

Una trincea di bellezza
Il microclima creato dal Peace River, il fiume che dal bacino artificiale di Williston Lake prosegue verso Est per sfociare nell'oceano Artico in Alberta, è frutto di un ecosistema unico a queste latitudini. A mille chilometri a nord di Vancouver, incastonato nell'altipiano di Fort St. John dove le minime invernali toccano i -30°C, il fiume scorre in una sorta di trincea larga diverse centinaia di metri, una valle protetta dai venti artici e ricca di terre fertili, dove si coltivano anche angurie e sopravvivono i cactus. Una ricchezza sottoutilizzata, in una zona che importa dagli Stati Uniti il 70% degli ortaggi.

"Questi 83 chilometri che la BC Hydro, compagnia elettrica della Provincia, intende allagare, sono gli ultimi chilometri di valle rimasta" spiega Chief Roland Willson, capo dei nativi West Moberly. "Si trasforma tutto in un lago artificiale, le emissioni di metano, l'inquinamento di mercurio e la perdita di suolo avranno conseguenze disastrose su tutta la regione". Di recente, infatti, alcuni studi hanno dimostrato che le acque dei bacini idroelettrici emettono metano e sono spesso inquinate da metilmercurio. La zona dove vivono i nativi West Moberly paga già il suo tributo all'economia della Provincia con decine di migliaia di pozzi di gas e centinaia di migliaia di chilometri di gasdotti. Le altre due dighe sul fiume Peace hanno spezzato i corridoi di migrazione di alci, capre selvatiche e caribù, svuotando le riserve di caccia dei nativi, provocando l'estinzione di molte specie, l'avvelenamento dei pesci nonché il calo delle temperature e l'aumento dell'umidità. "Questo fiume ha già dato tanto" scuote la testa Chief Willson. "Una terza diga sarebbe il disastro".

L'ultima volta a Bear Flat
A pensarla così, e a mobilitarsi per scongiurare il peggio nonostante il cantiere sia già iniziato, sono tutti quelli che lo scorso luglio si sono ritrovati per l'undicesima volta, al raduno a Bear Flat, il grande prato che argina verso il fiume la proprietà di Arlene e Ken Boon, attivi da anni contro la diga Site C. C'era gente arrivata da diverse zone della British Columbia, parlamentari e sindaci, un esponente di Amnesty International, il gruppo di Sierra Club che ha viaggiato per 1300 chilometri in autobus dalla capitale Victoria, gli ambientalisti del Wilderness Committee (Comitato per la natura) di Vancouver e i nativi delle diverse tribù per le quali il fiume Peace costituisce da sempre una risorsa vitale.

Quel giorno, ad alternarsi al microfono, mentre ancora stavano approdando le ultime canoe della Paddle for Peace, la vogata di protesta per salvare il fiume Peace, c'era un vero e proprio caleidoscopio di voci, indice di alleanze del tutto inedite. All'appello del Grande Capo Stewart Phillip, presidente dell'Unione dei capi indiani della British Columbia, ha risposto l'applauso dell'Associazione dei proprietari terrieri; alle parole di Gwen Johannson, sindaca della città di Hudson's Hope, ha fatto eco Chief Willson con queste parole: "Diciamo no alla diga Site C, che distrugge migliaia di ettari di prezioso terreno agricolo oltre ad allagare centinaia dei nostri siti sacri e sepolcri e a minacciare la sopravvivenza dell'intero ecosistema".

La resistenza comincia dall'orto
Qualche giorno dopo il raduno a Bear Flat, a cena nella casa di paglia di Brenda e Richard Birley, anche loro agricoltori impegnati nella protesta, tutti commentavano entusiasti la "sentenza Enbridge" di fine giugno [2016], con cui la Corte d'appello federale aveva bocciato il progetto di un oleodotto perché il Governo non avrebbe consultato in modo adeguato le tribù native. "Questa sentenza è una piccola pietra miliare" concorda il padrone di casa "e se si applica all'oleodotto della Enbridge, non vedo perché non debba valere anche per la diga".

Il pomeriggio era stato denso di incontri e racconti, in questa fattoria a picco sull'argine del Peace River, dove i Birley allevano api, coltivano orzo e avena, macinano a pietra il grano rosso Red Fife per farne una farina bio apprezzata in tutto il circondario e ospitano le riunioni dell'Associazione dei produttori biologici del Peace River. La lotta alla diga passa da azioni quotidiane concrete: lo confermano alcuni presenti, tra cui degli Hutteriti, anabattisti originari della Moravia che producono tisane e pomate da erbe mediche, un allevatore di bisonti che si contende lo spazio con i pozzi di gas, e infine una coppia emigrata da Monaco di Baviera, che coltiva grano da una trentina d'anni. "Dopo anni di attivismo militante in città" racconta Sage Birley, figlio di Brenda e Richard, "ho deciso di lasciare Vancouver e tornare quassù al Nord, perché nella terra ho trovato la mia personale ed efficace forma di militanza".

A Vancouver, Sage era tornato in primavera per partecipare allo sciopero della fame dell'attivista Kristin Henry. "Qui nel Nordest siamo in pochi" spiega Sage, felice di poter mostrare a Kristin le terre per cui la ragazza ha messo a repentaglio la propria salute. "Viviamo assediati dalle multinazionali di petrolio e gas, abbandonati dalla Provincia e ignorati dal Governo Federale". L'impatto sociale degli alti e bassi del mercato petrolifero è devastante: chi aveva uno stipendio di 20 mila dollari al mese (circa 15 mila euro) è ora restio ad accettare un diverso tenore di vita e le statistiche segnano un picco di episodi di violenza domestica, di abuso di alcol e morti di overdose (914 nel 2016 in British Columbia, che conta meno di 5 milioni di abitanti).

Scongiurare il punto di non ritorno
Il cantiere della diga ha proseguito i lavori, anche d'inverno: i terreni dei Boon sono stati espropriati a dicembre e sono iniziate le trivellazioni per fare spazio a una nuova strada; sono stati disboscati un migliaio di ettari di sponde, l'equivalente di oltre mille campi da calcio. Nonostante tutto, ambientalisti e avvocati, nativi e agricoltori, giovani alternativi e anziani aborigeni continuano a lottare. E per la prima volta sono proprio i First Nation, in virtù di diritti costituzionalmente garantiti, a riaccendere le speranze dei discendenti dei coloni. Intanto, però, la premier Christy Clark vuole spingere i lavori "ad un punto di non ritorno". In tempo per le elezioni provinciali di maggio [2017].

L'autrice: Paola Rosà è coautrice insieme ad Antonio Senter del videoreportage a puntate Upstream-controcorrente. Per saperne di più: rosasenter.weebly.com.

Note
Articolo pubblicato grazie alla gentile concessione dell'autrice Paola Rosà e della rivista Terra Nuova, che ha per prima pubblicato questo articolo nell'edizione di aprile 2017. Terra Nuova è un mensile che tratta argomenti relativi a medicina naturale, agricoltura biologica e biodinamica, permacultura, maternità e infanzia, bioedilizia, ecovillaggi, ecoturismo, consumo critico, energie rinnovabili, nonviolenza, ricerca interiore, finanza etica e più in generale ambiente ed ecologia (www.terranuova.it).

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Donne costruttrici di pace

Di Francesca Caprini, Associazione Yaku

Donne del Bajo Naya e del Curbaradó che hanno partecipato agli incontri organizzati da Yaku 'Mujeres por la paz'. Foto di Francesca Caprini. Donne del Bajo Naya e del Curbaradó che hanno partecipato agli incontri organizzati da Yaku "Mujeres por la paz". Foto di Francesca Caprini.

La Colombia sta vivendo un momento storico importante, ma anche di grande complessità: la firma degli accordi di pace fra il governo di Juan Manuel Santos e le FARC - EP, il principale gruppo guerrigliero del Paese, lo scorso novembre, ha messo fine al più longevo conflitto armato dell'America latina.

Il primo ottobre inoltre, l'altro esercito guerrigliero, l'ELN, che inizialmente aveva rifiutato di sedersi al tavolo delle trattative all'Avana, ha accettato di far tacere le armi almeno fino al 9 gennaio 2018. Le Forze Armate Rivoluzionarie (FARC) hanno inoltre presentato il loro partito politico, che concorrerà molto probabilmente durante le prossime elezioni di primavera.

Di contro, in ogni parte del Paese si è registrato un significativo aumento della violenza nei territori: se da una parte la guerriglia ha attuato la prevista consegna delle armi, radunando gli 8000 effettivi nei 22 luoghi di transizione diffusi nel Paese (Zonas veredales transicionales) sotto il controllo di Esercito e ONU, è indubbio che i territori lasciati liberi dal controllo fariano siano stati prontamente riconquistati da forze neoparamilitari, che hanno mostrato un profilo tutt'altro che basso, minacciando le comunità locali fino all'assassinio selettivo. I morti ammazzati fra difensore e difensori dei diritti umani e leader comunitari parlano infatti di un vero e proprio attacco a quei segmenti della popolazione attivi politicamente, volto a spezzare la capacità di auto-organizzazione che invece le comunità colombiane stanno con caparbietà mettendo in campo, convinti che l'accordo di pace non sia cosa solo di Governo e guerriglia, ma di popolo.

L'Istituto Internazionale per lo Sviluppo e la Pace (Indepaz) parla di 117 omicidi, di 350 minacce, 46 attentati e 5 casi di sparizioni forzate. Nel 2017 il trend non sembra differire, con almeno una trentina di caduti fra leader comunitari e difensori dei diritti umani e ambientali denunciati dalla Commissione Interamericana per i Diritti Umani. A questo scenario, si aggiungono gli allarmanti dati dell'ultimo rapporto dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite sulla situazione degli ambientalisti, la categoria di difensori più a rischio in America Latina: la Colombia, insieme ad altri 5 Paesi latinoamericani, è tra i dieci Paesi più a rischio per gli attivisti per l'ambiente. Una drammatica escalation di violenza, in un Paese già considerato tra i più pericolosi del mondo per chi si batte per la giustizia sociale e ambientale.

In questo clima, da' molto coraggio vedere come le donne in Colombia si stiano organizzando per poter avere quel ruolo che è loro dovuto nella ricostruzione politica del Paese. Dopo 52 anni di guerra e milioni di vittime fra morti, dispersi e sfollati - di cui la metà sono donne - la pace vuole parlare al femminile ed avere uno sguardo di genere, così come raccolto anche dai sei punti degli Accordi di Pace. Tali accordi sono infatti attraversati da una visione di genere che - anche secondo le parole della direttrice esecutiva di ONU Mujeres Phumzille Mlambo-Ngcuka - "rappresenta probabilmente il miglior esempio di partecipazione politica da parte delle donne in un processo di pace". Un successo ottenuto dalla sottocommissione di genere creata nel giugno del 2014 dopo che donne di diversi settori e provenienze si erano riunite in uno storico incontro a Bogotà nel 2013, protestando contro la mancanza di donne durante gli accordi. Appoggiata da ONU Mujeres e dall'ambasciata svedese, la sottocommissione è stata rappresentata da 60 donne, ed ha ottenuto l'accordo su tre punti principali: la questione della riforma rurale integrale, l'impulso alla cosiddetta economia solidale, per promuovere l'equità di genere, l'autonomia economica, la capacità organizzativa in particolare delle donne rurali e la partecipazione politica, che prevede anche un sistema di sicurezza speciale per le donne che si espongono politicamente nei territori.

Fra il 18 marzo ed il 28 maggio 2017, Yaku ha seguito alcuni momenti emblematici di un percorso che racconta della rinascita del protagonismo femminile nei territori: uno di questi è stato la prima riunione delle donne afrodiscendenti del Bajo Naya, territorio del Pacifico colombiano fra i più martoriati dal conflitto e dalla povertà. Sembra banale che delle donne possano incontrarsi per dire la loro sulla costruzione della pace, ma in questa zona del mondo non lo è: il clima di violenza, la povertà, l'esclusione delle donne dalle attività retribuite, hanno creato un clima di doppia stigmatizzazione nei territori del Pacifico colombiano: "Noi siamo donne, e siamo afro" - ci diceva Danny Yulith Ruiz dell'associazione Aini' che aveva partecipato all'organizzazione dell'incontro - "e questo ci porta a fare una doppia battaglia per la pace nel nostro Paese: abbiamo chiamato questo evento Donne, Pace e Territorio, perché è il momento che noi donne prendiamo la parola ed abbandoniamo la paura". E mentre parlava, teneva in mano la foto di Emylsen Manyoma, sua compagna di lotte in difesa dei diritti delle comunità, madre di due bambini ed anima di tante battaglie civili, uccisa il mese prima per mano paramilitare. "Non ci può essere una vera pace senza giustizia sociale ed ambientale", avevano gridato assieme le oltre 300 donne delle comunità, al termine dell'incontro. Insieme, si muovono in un panorama difficile, a stretto contatto con un paramilitarismo oggi più minaccioso che mai, che sta correndo contro il tempo per l'accaparramento delle terre da poter poi gestire fra narcotraffico ed iper-sfruttamento delle risorse. Per il programma Somos Defensores, il 68% delle violenze ai danni dei difensori dei diritti umani nel 2016 è da attribuirsi ai gruppi paramilitari, storicamente legati agli interessi latifondisti, connessi con traffici illeciti e gruppi economici che operano nell'industria estrattiva ed agroalimentare.

In Colombia infatti, la violenza è direttamente collegata con il modello economico estrattivista, che ha creato negli anni fra i 7 e i 10 milioni di sfollati interni. L'Osservatorio per i conflitti minerari dell'America latina ha identificato in Colombia almeno 212 conflitti che colpiscono direttamente 320 comunità. Un caso specifico sono le popolazioni indigene colombiane, che soffrono in maniera particolare la perdita dei propri territori, per la connessione spirituale con la Madre Terra. Dei 102 popoli censiti, almeno 32 versano in situazioni drammatiche causate dalla mancanza di cibo: il 70% dei bambini indigeni soffrono di denutrizione. Sempre nella nostra vuelta, avevamo incontrato le donne indigene Nasa a Mocoa, capitale del Putumayo, pochi giorni prima che la città fosse spazzata via da una spaventosa valanga di acqua e fango per lo straripamento dei fiumi che attraversavano la città: una tragedia che ha lasciato oltre 400 morti, causata proprio dalle industrie minerarie a monte del Rio Mocoa. "Le donne indigene da millenni costruiscono la pace, tessendo il buen vivir nel territorio" - ci aveva raccontato la leader della popolazione Nasa Juliana, mentre teneva il "bastone del mando" (del comando) nella mano, simbolo della carica di prestigio all'interno del suo cabildo (sorta di parlamento indigeno). "Siamo costruttrici di pace, siamo andate anche a Cuba per parlare ai tavoli degli accordi durante le trattative. Le donne indigene sono protettrici della vita, vivono in armonia con il territorio. Questo sarà il messaggio politico che cercheremo di diffondere, perché è nostro compito facilitare le trasformazioni nel mondo. Noi siamo coloro che nelle comunità trasmettono le parole, e le sementi native: in questo momento storico di ricostruzione del tessuto sociale colombiano, martoriato dalla guerra, ci batteremo per la verità, la convivenza, la non ripetizione della violenza".

Il futuro della Colombia è in questo momento soprattutto in mano alle donne, che hanno l'occasione di sviluppare un'economia differente e una politica più equa. Se vincono loro, vince il Paese intero, vinciamo tutte e tutti.

Francesca Caprini - giornalista free lance, ha fondato Yaku ed attualmente ne è la presidente. Scrive per quotidiani, mensili e siti sulle tematiche di cui si occupa la sua associazione.

L'associazione Yaku
Yaku significa acqua in quechua, lingua originaria dei popoli delle Ande. E' un'associazione indipendente che si batte per la difesa dell'acqua, dei territori e contro la violazione dei diritti umani ed ambientali. Fa parte del Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua e di piattaforme di associazioni e movimenti sociali. Svolge attività di cooperazione internazionale in America latina al fianco delle popolazioni indigene e contadine, in particolare in Colombia e Bolivia. In Italia costruisce percorsi di sensibilizzazione, formazione ed educazione per la promozione di una cultura dei beni comuni, di genere, e contro la privatizzazione dell'acqua e delle risorse.

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Tra negazioni e riabilitazioni

Di Alessandro Graziadei

Rappresentante indigeno parla alla Commissione per i diritti umani durante la discussione sui problemi creati dal decreto 7.056/09 che limita fortemente la capacità di intervento del FUNAI, maggio 2010. Copyright: J. Freitas, flickr.com (CC BY 2.0). Rappresentante indigeno parla alla Commissione per i diritti umani durante la discussione sui problemi creati dal decreto 7.056/09 che limita fortemente la capacità di intervento del FUNAI, maggio 2010. Copyright: J. Freitas, flickr.com (CC BY 2.0).

Lo scorso 2 giugno quasi 250 abitazioni del popolo Jumma, gli abitanti indigeni delle Colline Chittagong del Bangladesh, sono state rase al suolo dal fuoco appiccato da alcuni coloni bengalesi dopo il ritrovamento del corpo senza vita di un motociclista bengalese, Nurul Islam Nayon. La popolazione locale ha accusato gli Jumma del decesso. L'incendio che ha causato la morte di un'anziana donna che è rimasta intrappolata in casa per Survival International è avvenuto mentre "l'esercito e la polizia sono rimasti a guardare e non sono intervenuti quando i coloni che protestavano contro la morte del signor Nayon si sono scatenati, dando fuoco alle case degli Jumma e ai negozi in tre diversi villaggi". Il governo del Bangladesh ha trasferito per più di 60 anni coloni bengalesi nelle terre degli Jumma che sono passati dall'essere praticamente i soli abitanti delle Hill Tracts a essere, oggi, una minoranza. Il 4 giugno la polizia e l'esercito hanno violentemente disperso una protesta pacifica degli Jumma nata per chiedere che i piromani fossero consegnati alla giustizia. Per questo Survival ha lanciato un appello perché i responsabili dell'incendio e della morte di Nurul Islam Nayon siano consegnati alla giustizia ed ha sollecitato il governo del Bangladesh "affinché indaghi con urgenza sul ruolo delle forze di sicurezza durante l'attacco ai tre villaggi e durante la conseguente protesta pacifica".

Ma la violazione dei diritti dei popoli indigeni non è una prerogativa solo del Bangladesh. Un'inchiesta istituita dai parlamentari brasiliani che rappresentano gli interessi di grandi allevatori e agricoltori ha appena pubblicato un rapporto in cui si chiede la chiusura del Dipartimento agli Affari Indiani (Funai) perché è ormai diventato "ostaggio di interessi esterni" e chiede che decine dei suoi funzionari vengano perseguiti per aver appoggiato quelle che definisce "demarcazioni illegali dei territori indigeni". Ad oggi il Funai ha già subito grossi tagli al suo bilancio, che hanno portato alla riduzione di molte delle squadre responsabili della protezione dei territori delle tribù incontattate lasciando alcuni dei popoli più vulnerabili del pianeta alle mercé di taglialegna e sicari armati e senza scrupoli. "Negli ultimi cinque mesi, il Funai ha cambiato tre presidenti. All'inizio di questo mese il secondo presidente, Antonio Costa, è stato destituito" per aver criticato il Presidente Temer e Osmar Serraglio, il Ministro della Giustizia, ha ricordato Survival, affermando che "non solo vogliono eliminare il Funai, ma anche le politiche pubbliche come la demarcazione della terra [indigena]". Le conclusioni del rapporto sono state accolte con indignazione e incredulità sia in Brasile che fuori. "Uccidere il Funai equivale a uccidere noi, i popoli indigeni - ha affermato Francisco Runja, un portavoce Kaingang - è un'istituzione cruciale per noi, per la nostra sopravvivenza, per la nostra resistenza, ed è una garanzia per la demarcazione dei nostri territori ancestrali." Mentre per lo sciamano e portavoce Yanomami Davi Kopenawa "Il Funai è rotto… è già morto. Lo hanno ucciso. Esiste solo di nome. Un bel nome, ma non ha più il potere di aiutarci".

Ma il presente ed il futuro dei popoli indigeni non è costellato solo di brutte notizie. Anni di lotte e rivendicazioni dei propri diritti hanno portato in questi mesi anche ad importanti successi. Un caso esemplare è quello dei Boscimani che lo scorso 11 maggio hanno ricordato il ventesimo anniversario dallo sgombero dalle loro terre, nel cuore della Central Kalahari Game Reserve (CKGR), al campo di reinsediamento di New Xade, rinominato dai Boscimani "luogo di morte". Fu la prima di un'ondata di sfratti effettuati dal Governo del Botswana, determinato ad aprire le loro terre ancestrali all'estrazione dei diamanti e al turismo. Per molti osservatori, il trattamento disumano che il Governo ha riservato ai Boscimani ricorda il regime di apartheid del vicino Sudafrica, dove le comunità nere venivano sistematicamente sfrattate dalle loro case per essere spostate in baracche sovraffollate alle periferie delle città. Nel 2006, però, i Boscimani che furono sfrattati dalla riserva nel 2002 hanno vinto uno storico processo presso la Corte Suprema del Botswana, grazie anche al sostegno di Survival International, che ha stabilito che questo popolo era stato sfrattato illegalmente e avevano il diritto di vivere e cacciare nella riserva. "Finalmente centinaia di Boscimani stanno lasciando gli odiati campi di reinsediamento e ritornano a casa" ha spiegato Survival, e anche se non sono rare le violenze e le torture da parte dei guardaparco quando esercitano il loro diritto alla caccia, "oggi è chiaro che i Boscimani non sono bracconieri, ma cacciano per sopravvivere, senza minacciare in alcun modo la fauna locale".

All'inizio di giugno, con una una decisione senza precedenti, anche la Corte Africana per i diritti dell'uomo ha stabilito che il Governo del Kenya ha violato i diritti degli Ogiek, una tribù di cacciatori-raccoglitori che vive nella Foresta Mau, nella Rift Valley in Kenya, sfrattandoli ripetutamente dalle loro terre ancestrali. Il tribunale, dopo che gli Ogiek avevano citato in giudizio il Governo per la violazione del loro diritto alla vita, alla terra, alla proprietà, allo sviluppo e alla non-discriminazione, ha riscontrato che il Governo ha violato sette articoli della Carta Africana e ha ordinato di prendere "tutte le misure del caso" per rimediare alla violazione. Il caso era stato sollevato per la prima volta otto anni fa dall'Ogiek Peoples Development Program (OPDP), il Centro per lo Sviluppo dei Diritti delle Minoranze (CEMIRIDE) e dal Gruppo Internazionale per i Diritti delle Minoranze. "Per gli Ogiek, è una svolta storica. La questione dei loro diritti territoriali è stata finalmente affrontata e il caso gli ha dato più forza. Il governo ha ora l'opportunità di restituire loro la Foresta di Mau e la loro dignità di popolo Ogiek" ha dichiarato Daniel Kobei, direttore dell'OPDP. La speranza è che quest'ultima sentenza costituisca un importante precedente per altri casi legati ai diritti territoriali indigeni, non solo in Africa.

Questo articolo, pubblicato qui per gentile concessione dell'autore e di Unimondo, è stato pubblicato il 3 luglio 2017 sul portale di Unimondo: www.unimondo.org/Guide/Diritti-umani/Diritti-dei-popoli-indigeni/Diritti-dei-popoli-indigeni-tra-negazioni-e-riabilitazioni-167100. Unimondo è una testata giornalistica online che offre un'informazione qualificata sui temi della pace, dello sviluppo umano sostenibile, dei diritti umani e dell'ambiente. Diffonde un'informazione plurale e quotidiana dando voce alle molteplici realtà della società civile italiana e internazionale (organizzazioni e associazioni, movimenti, ong, campagne). Il portale è nato il 10 dicembre 1998 per iniziativa della Fondazione Fontana Onlus ed ha più di 450 partner in Italia. Offre un archivio di una dozzina d'anni di libero accesso con notizie che il lettore può scaricare e riprodurre liberamente, citando la fonte, ma non per fini commerciali. Unimondo è il nodo italiano del network internazionale OneWorld, nato a Londra nel 1995, che conta oggi 11 centri nel mondo e 1.600 associazioni partner.


La versione cartacea è stata realizzata con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano.

Pogrom-bedrohte Völker 300 (3/2017)